Commento al Vangelo di domenica 20 gennaio 2019 – Comunità Monastica Ss. Trinità

L’antica tradizione liturgica poneva l’accento sull’unità della manifestazione – ‘epifania’ – del Signore nei tre eventi dell’adorazione dei Magi, del Battesimo (o Teofania) presso il Giordano, del segno di Cana, dove l’acqua viene tramutata in vino. Canta ad esempio un’antifona della solennità dell’Epifania del Signore:

  • Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo:
  • oggi la stella ha guidato i magi al presepio, oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze,
  • oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra salvezza, alleluia.

C’è un unico oggi in cui il Signore manifesta la sua salvezza. Ce ne vengono così narrati alcuni tratti essenziali: la salvezza è per tutte le genti (l’adorazione dei Magi); consiste nel renderci partecipi della figliolanza divina nel suo Figlio Unigenito, della cui Pasqua siamo resi partecipi in virtù del battesimo (la Teofania presso il Giordano); compie definitivamente l’alleanza che già la letteratura profetica aveva più volte annunciato con il simbolo delle nozze, come ricorda la prima lettura della liturgia odierna: «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo» (Is 62,4).

Questa antica e sapiente tradizione liturgica sopravvive nel ciclo C del lezionario domenicale, che propone il segno di Cana come vangelo della II Domenica del Tempo ordinario, in continuità con la solennità dell’Epifania e con la Domenica del Battesimo. Il Tempo ordinario si salda così in modo forte con il Tempo natalizio, per mostrare come la salvezza di Dio, che in Gesù di Nazaret si è incarnata nella nostra storia, si dilati e riempia di sé le pieghe ordinarie e quotidiane della nostra vita.

Lo stesso evangelista Giovanni, nel raccontare l’episodio apparentemente molto familiare di Cana, insiste nell’affermare che si tratta dell’inizio dei segni compiuti da Gesù, attraverso il quale egli «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (v. 11). È l’inizio non semplicemente perché è il primo segno di una lunga serie; piuttosto è il segno archetipo (in greco ‘inizio’ è detto con arké), tale da costituire una sorta di stampo originario che imprime la sua forma su tutti gli altri segni che seguiranno, fino alla Pasqua.

Non a caso è un segno che avviene proprio a Cana, piccolo villaggio della Galilea; il significato simbolico del suo nome non sfugge però all’evangelista, che sa bene che cana in ebraico significa ‘fondare’, ‘creare’. Ciò che Gesù opera a Cana è come una nuova fondazione, che porta a compimento la creazione di Dio, riscattandola dal male che il peccato ha introdotto nella storia, e fonda davvero la nuova alleanza tra Dio e il suo popolo. Ora le nozze si compiono, Dio sposa l’umanità!

Il ricco simbolismo di questa pagina giovannea evoca infatti il tema dell’alleanza. Tutto accade non in un giorno qualsiasi, ma «il terzo giorno» (v. 1), espressione che ci orienta in avanti, facendoci immediatamente pensare al terzo giorno della Risurrezione. Nello stesso tempo l’evangelista ci invita a guardare indietro, al terzo giorno del Sinai, quando Dio dona a Mosè le Dieci Parole dell’Alleanza che stipula con Israele: «Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore» (Es 19,16: così viene introdotta la Teofania che culmina, al capitolo 20, con il Decalogo).

E l’alleanza, lo abbiamo già ricordato, è spesso descritta con la metafora delle nozze tra Dio e il suo popolo. Il vino stesso, che certo non può mancare a un banchetto nuziale, raccoglie in sé e simboleggia tutti i beni elargiti da Dio alla sua Sposa, in particolare il dono della Torah e della Rivelazione.

Qui a Cana, al terzo giorno, Gesù compie definitivamente l’alleanza. Ciò che era prefigurato nella Prima Alleanza diventa definitivo nella Nuova Alleanza. Le sei giare (sei è cifra simbolica di una imperfezione che però tende verso la pienezza del numero sette) colme di acqua fino all’orlo vengono trasformate in vino. Erano giare di pietra che contenevano l’acqua per la purificazione rituale dei Giudei (v. 6). Giare di pietra come spesso può essere di pietra il cuore dell’uomo, soprattutto quando lascia le parole di Dio scritte su tavole di pietra, anziché lasciarsele imprimere nel proprio cuore. Ma per quanto l’acqua riempia queste giare fino all’orlo, non basta a purificare il cuore di pietra e a trasformarlo in cuore di carne. È necessario un vino nuovo, un vino migliore, quello che solo Gesù può donare, trasfigurando la prima alleanza nella nuova e definitiva alleanza. Nel terzo giorno della Pasqua, nella sua Ora che già qui a Cana viene annunciata come imminente (cfr. v. 4), diventerà chiaro che questo vino nuovo e migliore Gesù lo dona nel suo stesso sangue versato per tutti.

Solo lui lo può donare. «Colui che dirigeva il banchetto… non sapeva da dove venisse» (v. 9). Nessuno può saperlo, perché questo da dove allude al mistero di Gesù, e più ancora al mistero del Padre, il solo che può donare il proprio Figlio e nel Figlio il vino migliore dell’Alleanza nuova, il vino delle nozze definitive con il suo popolo. Da dove (pothen in greco) ricorre spesso nel vangelo di Giovanni e sempre con un forte significato cristologico. Gesù è colui che non sappiamo da dove viene e verso dove va (cfr. Gv 8,14). Comprendere che viene da Dio e a lui ritorna è la condizione che ci permette di conoscere davvero il suo mistero personale e di accogliere la sua rivelazione. Proprio perché allude a Gesù, il da dove ci parla anche dei doni che egli offre alla nostra esistenza per colmare il suo bisogno di vita, e di vita piena, di vita eterna.

Qui a Cana il capo-tavola non sa da dove viene il vino. In Samaria la donna chiede ironicamente a Gesù: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva?» (4,11). Al capitolo sesto sarà Gesù stesso a domandare a Filippo: «da dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (6,5). Il vino di Cana, l’acqua di Samaria, il pane della Galilea, vengono tutti da quel da dove che è il mistero di Dio e alludono a quel dono per eccellenza che è Gesù, lui che sa da dove viene e dove va. È lui il vero vino, la vera acqua, il vero pane di cui la nostra vita ha assolutamente bisogno per compiersi in pienezza. È lui lo Sposo, o meglio è in lui che si compiono in modo definitivo le nozze tra Dio e il suo popolo.

A Cana è presente la madre di Gesù, definita qui, come ai piedi della croce, ‘donna’ (cfr. Gv 19,25- 27). È simbolo della figlia di Sion, chiamata però anche ‘madre Sion’ nei testi profetici; in lei è rappresentato il resto di Israele che attende l’ora del Messia, il suo giorno, perché scopre in sé una mancanza che ha bisogno di essere colmata: «non hanno vino» (v. 3). Insieme alla donna/madre ci sono con Gesù i discepoli, come ai piedi della croce ci sarà il Discepolo amato. Là la donna sarà consegnata al discepolo e il discepolo alla donna. La nuova Alleanza si compie, direbbe san Paolo, abbattendo ogni separazione e facendo dei due uno solo (cfr. Ef 2,14-18). La figlia di Sion – Israele – e i discepoli di Gesù – la Chiesa – sono consegnati reciprocamente gli uni agli altri. A Cana, nasce, viene fondata e ricreata, un’umanità nuova, l’umanità dei figli di Dio, chiamati ad abbattere ogni separazione, a superare ogni divisione, a vincere ogni logica perversa di inimicizia.

Ascoltando questo brano anche noi continuiamo a contemplare la gloria del Padre pienamente manifestatasi in Gesù: la gloria di un amore che continua a donarci in ogni Eucaristia il vino dell’Alleanza nuova, il vino migliore per la nostra gioia.

Fonte: Monastero Dumenza

ALTRO COMMENTO

“Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino»”.

Tutti ci cercano per quello che abbiamo, ma chi ti vuole davvero bene non tiene da conto di ciò che hai, ma di ciò che ti manca. L’amore vero è prendere a cuore la mancanza dell’altro, perchè in quella mancanza si gioca il meglio e il peggio della vita. Sono infatti le nostre mancanze la causa prima dei nostri peccati, ma sono altresì proprio le mancanze i punti di svolta dei grandi santi. Ritrovare il vino che manca non serve a riempire un vuoto, ma a cambiarne la sostanza.

Gesù non crea il vino dal nulla, ma cambia l’acqua in vino, cioè prende ciò che c’è e a partire da questo opera un cambiamento radicale. Quello che fino a ieri ti faceva peccare può cominciare ad essere il punto di forza della tua santità. Assurdo! Ma questo è il miracolo: il Signore è l’unico che può prendere sul serio la mia mancanza e trasformarla in santificazione.

Da cosa ce ne accorgiamo? Dal fatto che cominciamo a sentire un’inspiegabile letizia che non trova altra ragione se non nella Grazia di Dio.

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