Per la festa dell’Ascensione, la liturgia ci offre, come terza Lettura, la conclusione del Vangelo di Luca. Gesù appare risorto ai suoi discepoli e li focalizza sull’essenziale di ciò che significa credere in lui: la sua Pasqua, così come possiamo coglierla nelle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno». Solo le Scritture possono far vivere la nostra fede centrata sul mistero di morte e risurrezione del Signore Gesù, perché solo esse lo rivelano come un mistero di amore e di cura di Dio per la condizione dell’uomo.
È questa la realtà che esprime il «suo nome», nel quale «saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati». La predicazione non è il fare delle prediche: è l’annuncio del banditore pubblico, che porta i decreti del re per il popolo. I discepoli devono annunciare che il Regno, cioè il progetto umanizzante del Padre, si è realizzato sulla terra, fra gli uomini, proprio nella Pasqua di Gesù.
Questo annuncio è per «tutti i popoli»: il Regno ha definitivamente sconfinato tutti i limiti etnici e geografici imposti dalla religione. Non per nulla, chi oggi è fautore di chiusure nazionaliste e razziste si rifà a certe forme religiose identitarie ed escludenti.
«La conversione e il perdono dei peccati»: è un’endiadi, cioè i due elementi sono uno solo. La conversione è prendere coscienza che Dio ci perdona i peccati, ovvero ci riconcilia a sé e con i fratelli, perché noi possiamo rispondere alla nostra vocazione umana di persone in relazione, con Dio e con gli uomini. Perciò la conversione non è tanto un impegno a fare opere buone o pie: è, piuttosto, il vederci cambiati dalla misericordia del Signore e perciò più capaci di umanità.
«Di questo voi siete testimoni». Non dice «maestri» o «militanti». Il testimone è uno che era presente, ha visto e ha partecipato: trasmette un’esperienza, non una dottrina. Chi ha visto Gesù morire in croce e ora lo sperimenta risorto, trasmette che solo l’amore vince il male e la morte, non l’opposizione e il rifiuto.
«Io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso». Luca ha tanto parlato dello Spirito Santo nel suo Vangelo, che ora neppure lo nomina formalmente: è semplicemente la grande promessa del Padre. E’ ciò per cui il Padre impegna totalmente se stesso promettendolo all’uomo. Donandoci lo Spirito, Dio ci dona più di se stesso: ci dà ciò che, per pienezza, sovrabbonda della sua realtà e della sua opera. Senza lo Spirito, ogni atto di fede rimane solo volontarismo. Con lo Spirito, ogni più semplice e anche povera azione umana aperta a Dio assume la bellezza pari al coro degli angeli e dei santi in paradiso. E, soprattutto, apre la Chiesa al mondo, là dove incontrare Cristo, principalmente nei poveri.
Infatti, Gesù raccomanda ai discepoli di rimanere in città, «finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Lo Spirito diventerà come un abito, per coloro che credono in Gesù: cioè diventa una capacità abituale per l’uomo, come un vestito che indossiamo normalmente. Significa che lo Spirito si imprime nella nostra umanità e poi si esprime nelle situazioni di ogni giorno: è ciò che ci permette di guardare oltre, non lasciandoci rinchiudere nelle misure strette dell’egoismo. Oggi trionfa chi si preoccupa solo per se stesso. Ma quest’oggi, così privo di ogni apertura, finirà presto. Sono ben altre le misure che permettono all’umanità di camminare: quelle della comunione, della condivisione, della gratuità.
Finché i discepoli non saranno così rivestiti, devono rimanere dove si trovano: senza lo Spirito, la loro missione sarebbe solo volontarismo e attrazione a sé, non al Signore. Ma questo significa «restare» a Gerusalemme, la città santa sulla quale Gesù ha pianto perché si è aperta un futuro di rovina rifiutandolo (cfr. Lc 19,41-44). E i discepoli a Gerusalemme «stavano sempre nel tempio», dal quale Gesù aveva cacciato i venditori, denunciando il culto corrotto di un sistema religioso che Lui era venuto ad abolire (cfr. Lc 19,45-46). Tutto questo fa dedurre che i discepoli hanno imparato da Gesù la vera umiltà. Loro sanno che la carne di Cristo ora è il vero luogo d’incontro con Dio e il vero culto (vedi la seconda Lettura), eppure si mantengono ancora fedeli a quella città e a quel tempio, obbedendo al suo culto. Il superamento nascerà proprio dall’umiltà, non dal senso di superiorità: vivendo ancora quella fedeltà, si apriranno ad una più grande e perfetta. È abitando il limite che ci si apre all’illimitato.
«Mentre li benediceva, si staccò da loro». La storia di Dio in legame di alleanza con l’uomo si compie là dove era iniziata: con la benedizione di Abramo. Quella benedizione aveva avviato il padre dei credenti in un cammino, in Dio, verso una propria terra e verso la generazione di un grande popolo. Anche per i discepoli di Gesù, con la sua benedizione, inizia il cammino che li vede stranieri e pellegrini sulla terra (e quanto deve sentirsi tale il cristiano nel mondo del denaro, del successo, del rifiuto dell’altro!), chiamati a dar vita al popolo del Signore, che ha la sua forza unicamente nella promessa di Dio.
Ed è proprio mentre Gesù benedice così i suoi discepoli che «si staccò da loro e veniva portato in cielo». Non è un distacco fisico. Subito dopo si dice che discepoli «si prostrarono davanti a Lui». Davanti a uno ormai assente!? Ci si prostra dinanzi alla presenza e alla manifestazione di Dio. Il Gesù di Nazaret ha subito una radicale trasformazione: «Avendo incontrato una redenzione eterna» (seconda Lettura). Il corpo umano di Gesù prepasquale è stato salvato nella risurrezione. Si è staccato dalla condizione fragile della nostra umanità, ma è sempre Gesù Cristo, presente e operante in mezzo a noi, nello splendore divino della sua umanità risorta: a Lui i discepoli si prostrano. Non ha preso, dunque, le distanze dagli uomini salendo al cielo. Ma ha reso l’uomo meno distante da Dio. «Io so e credo che anche dopo la risurrezione il Signore è nella carne» (Ignazio di Antiochia).
A cura di Alberto Vianello – Monastero di Marango