Il Vangelo di questa domenica ci propone uno dei testi più rappresentativi e alti della vita cristiana: l’impegno a vivere l’amore. Seppure si parla molto di amore nei vari ambiti delle comunità cristiane, verifichiamo poi come a questo non corrisponda una lettura della realtà e una prassi che ne sia coerente. Il comandamento dell’amore finisce annacquato se non vanificato in atteggiamenti di prudenza, di attesa, di calcolo; insomma, di misure umane che non hanno più nulla a che fare con la parola del Vangelo. Per questo, è necessario che torniamo ad un diretto ed umile ascolto della Parola, che poi ci porti ad una vera prassi corrispondente.
«Quando Giuda fu uscito». È andato a tradire Gesù, con ancora in mano il boccone che il Maestro gli aveva dato in segno di particolare amore e vicinanza nei suoi confronti. Se l’amore si misura sul bisogno dell’altro, allora Giuda è colui che ne ha più bisogno e ne riceve di più. Egli è figura dell’uomo che si perde in quanto rifiuta di conoscere l’amore di Dio per lui, ma è, proprio per questo, amato assolutamente dal Signore.
«Ora è il Figlio dell’uomo è stato glorificato». La kabod («gloria») è l’orma del piede sulla sabbia: essa è più o meno profonda, secondo il tipo di «peso» che porta. Dunque, «gloria» è l’incisività e la sperimentabilità di una determinata realtà. Quindi, Gesù dice qui di essere stato glorificato perché nel suo amore verso colui che si fa nemico – e proprio in quanto nemico – noi possiamo incontrare veramente l’incisività e la sperimentabilità della sua vita e della sua persona nella storia umana.
«E Dio è stato glorificato in Lui». Se è Gesù che vive l’amore vivo e forte, che sa dimostrare addirittura verso il nemico, tuttavia Egli non si attribuisce nulla e rinvia tutto al Padre. È lo stesso Dio Padre che noi ci troviamo a sperimentare nella concretezza e nell’incisività dell’amore di Gesù, suo Figlio in carne umana.
«Anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito». L’amore del Figlio per il nemico “provoca” la manifestazione dell’amore del Padre per Lui: il dramma dell’amore senza riserve si esprime nella croce, che il Padre fa diventare rivelazione divina. «Affermando che Gesù crocifisso è l’immagine del Dio invisibile diciamo che questo è Dio e così Dio è» (G. Dossetti, «Non restare in silenzio, mio Dio»). E questa è l’unica risposta agli immani drammi umani provocati dalla storia: un Dio crocifisso, ovvero un Dio che vince il male con l’amore, facendosi solidale con gli uomini perduti, accogliendo tutti senza condizioni, riconciliando gratuitamente ogni creatura con il suo Creatore.
«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri». La novità sta nel fatto che il comandamento dell’amore è l’unica realtà che ha la forza di rendere nuova la vita e le cose. «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17). Come Gesù ha fatto con la donna peccatrice: «Va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11). Non le ha chiesto niente e con il suo amore le ha donato tutto gratis: un nuovo futuro.
L’aver amore «gli uni gli altri» non indica tanto la dimensione della reciprocità, quanto la misura di dare concretezza storica all’amore. Ogni realtà e ogni persona deve trasformarsi in appello all’amore: «In questo determinato contesto, con questa determinata persona, come sono chiamato a vivere l’amore?». A chi gli chiedeva chi è il prossimo da amare, Gesù ha raccontato la parabola del buon samaritano: il prossimo è colui che incontro e che si trova nel bisogno, e io sono chiamato a farmi prossimo nei suoi confronti, senza scuse e senza tergiversazioni.
«Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri». Gli studiosi si dicono che quel «come» non ha semplicemente valore comparativo, bensì va interpretato in senso causativo: «in quanto, proprio per il fatto». Guardare alla croce del Signore Gesù – e saper leggerla come dimostrazione dell’amore totale per noi, suo e del Padre – diventa profondamente compromettente per noi. Non possiamo più far finta di niente, non possiamo accampare scuse. Quell’amore è così concreto che ha la forza di penetrare in profondità, anche dentro i cuori più induriti, come il mio. E così ci dà la forza e la capacità, a nostra volta, di amare gli altri: senza misura e senza condizioni, altrimenti non è amore vero. Allora non possono risultare più pertinenti le obiezioni sulla propria forza e la propria capacità di amare: queste sono solo misure umane. Dire di non essere capaci di amare corrisponde a dire che Gesù non ci ha donato la sua vita sulla croce.
«Da questo sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni gli altri». Il «se» non è dubitativo: altrimenti smentirebbe ciò che abbiamo appena visto riguardo all’amore di Gesù che causa il nostro amore. Esprime, invece, l’attesa di una cosa futura, il realizzarsi di un evento desiderato. È proprio quando si ama che si manifesta l’essere discepoli di Gesù.
Per tre volte si è ripetuto il comandamento dell’amore, come esplicitazione di tre elementi che sono come un progressivo calarsi dentro la storia: è un comandamento nuovo, è causato dall’amore del Signore Gesù, è manifestazione al mondo dell’essere suoi discepoli. Quest’ultima è la sua sistemazione definitiva. Da come la gente si accorge che veramente i cristiani amano senza misura, si potrà sapere che sono amati da Dio e che vivono quella novità di vita che il mondo attende. Dobbiamo chiedere al Signore il coraggio di amare veramente, da veri cristiani, non da cittadini di una società che rifiuta e discrimina, rispetto alla quale possiamo essere, proprio noi, soltanto «stranieri» (1Pt 1,1).
A cura di Alberto Vianello – Monastero di Marango