Lectio Divina di domenica 19 Gennaio 2020 a cura della Comunità monastica di Pulsano.
DOMENICA «DELL’AGNELLO DI DIO»
La maggior parte del messale è occupata dalle settimane del tempo ordinario, che comincia dopo la celebrazione del battesimo di Gesù, e riprende il lunedì dopo la pentecoste, per culminare nella domenica dedicata a Cristo, re dell’universo. Più che di un vero e proprio tempo liturgico, si tratta di una serie di Domeniche in cui si celebra il mistero della salvezza. Ciascuna di esse, come è sempre stato fin dalle origini della Chiesa, è veramente il giorno del Signore, il giorno in cui l’assemblea cristiana ascolta la Parola di Dio e spezza il Pane eucaristico per diventare sempre più il corpo del Cristo. Il tempo ordinario, dunque, non è affatto banale o insignificante. Non ha nulla di ordinario, nel senso peggiorativo che normalmente si dà a questo termine, perché è il teatro di un’avventura la cui posta in gioco è la santificazione del mondo degli uomini: le persone, le società e l’intero universo.
«Il ministero di Giovanni è sempre in azione nel mondo. Se uno è destinato a credere in Gesù Cristo, bisogna che prima lo spirito e la potenza di Giovanni vengano nella sua anima per preparare al Signore un popolo perfetto, per spianare le vie e raddrizzare i sentieri, addolcendo le asperità del cuore. Non solo ai tempi del vangelo venne preparata la strada al Signore: anche oggi lo spirito e la potenza di Giovanni precedono la venuta del salvatore».
(Origene, Omelia sul vangelo di san Luca, 4,6)
Fedele al suo ruolo di precursore, il Battista ha distolto dalla sua persona l’attenzione degli uomini inviati da Gerusalemme per indagare sul suo conto: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete» (Gv 1,26). Quanto a lui, Giovanni, non è che la «voce» della «Parola» a cui è chiamato a preparare la via. Secondo la tradizione giudaica, il messia doveva rimanere nascosto finché Elia non gli avesse conferito l’unzione e non lo avesse rivelato pubblicamente ad Israele. Prima di battezzare suo cugino, Giovanni stesso non sapeva che era il messia. Ma ora ha visto, e gli rende testimonianza. Ha visto lo Spirito discendere e fermarsi su Gesù, e ha intuito in lui, alla luce delle Scritture, l’agnello dell’espiazione futura, il servo scelto da Dio per battezzare nello Spirito: «È il figlio di Dio»! (v. 34). Presentando Gesù, il quarto vangelo annuncia fin dall’inizio il battesimo di morte che egli dovrà ricevere per togliere il peccato dal mondo, il fuoco che è venuto a portare sulla terra (Lc 12,49-50). Ma suggerisce anche la sua incommensurabile superiorità, la preesistenza divina che il Battista gli riconosce: «Era prima di me» (v. 30). Certi destini unici sono come fiumi di cui si scopre la potenza soltanto molto più a valle della sorgente. Ci sono due modi riduttivi di considerare Gesù Cristo, sottraendosi alla testimonianza che bisogna rendergli sulle orme di Giovanni:
1. Si può relegarlo in cielo, proclamandolo Dio, ma un Dio inaccessibile, la cui salvezza riguarda soltanto l’eternità.
2. E si può rinchiuderlo entro i confini della terra, non vedendo in lui altro che un uomo fra gli uomini, più vicino e più fraterno, ma orfano del Padre e staccato dallo Spirito.
Non si può ridurre il Cristo alla terra o al cielo. «In qualunque stato ci troviamo, mettiamo Gesù fra Dio e noi» (Bossuet[1]).
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 65,4
Tutta la terra ti adori, o Dio, e inneggi a te:
inneggi al tuo nome, o Altissimo.
Con il Salmista l’assemblea canta al Signore la gioia riconoscente, perché Egli ha operato fatti potenti in favore del suo popolo, liberandolo dai nemici sia nell’esodo, sia nella patria. L’intera terra, e quindi tutti i suoi abitanti sono invitati ad adorare il Signore prostrandosi a riconoscerlo (v. 4a) e ad unirsi all’assemblea del popolo di Dio, Israele, per «recitare il Salmo», il canto innico tipico dei fedeli del Signore, acclamando il Nome divino indicibile (v. 4b).
Canto all’Evangelo Gv 1,14a.12
Alleluia, alleluia.
Il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
a quanti lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio.
Alleluia.
L’inno che Giovanni canta al Verbo (vv. 1-18) ha come epicentro la proclamazione del suo entrare dall’eternità divina in cui sussiste con il Padre e con lo Spirito Santo (vv. 1-3 e 18), nell’evo creato da Lui stesso (v. 3), per «diventare carne», ossia 1’«immagine e somiglianza di Dio» creata, creata da Lui stesso al fine di «diventare la sua stessa immagine e somiglianza» (v. 14a). Così che nella divina Persona il Verbo Dio è la sua carne, e questa «carne del Verbo» è il Verbo Dio (S. Cirillo Alessandrino, De incarnatione, in PG 75,1236 B).
Nella seconda domenica del tempo ordinario, l’evangelo, in tutti i tre cicli liturgici, non è preso (come ci aspetteremmo) dai tre sinottici, ma sempre dal quarto evangelo:
- anno A – Gv 1,29-34 (Dom. dell’agnello di Dio);
- anno B – Gv 1,35-42 (Dom. delle prime vocazioni);
- anno C- Gv 2,1-12 (Dom. delle nozze di Cana).
Con questa disposizione i riformatori liturgici forse ci hanno voluto suggerire l’idea che la più profonda ed organica comprensione di Gesù e del suo evangelo, offertaci dal quarto evangelista, è bene premetterla alla lettura dei tre sinottici.
Il quarto evangelo, dopo l’inno formato dal prologo (Gv 1,1-18), si apre con la solenne testimonianza di Giovanni Battista. La pericope di Gv 1,19ss è infatti «il prologo della parte storica…, è la traduzione nel linguaggio della storia di ciò che il prologo vero e proprio esprime in termini più astratti, nel linguaggio della teologia».
Come Marco, l’evangelista Giovanni omette gli episodi della nascita e dell’infanzia di Gesù; e inizia il suo racconto, descrivendo la comparsa sulla scena del Battista. Ma, a differenza dei sinottici, non riporta la predicazione di questo profeta; per lui la missione del Battista si riduce a una testimonianza solenne, resa a Gesù, proclamandolo agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo, e riconoscendolo come l’eletto di Dio che battezza con lo Spirito santo. I sinottici invece si compiacciono di riportare la esortazione del Battista alla conversione.
Come per la Domenica del Battesimo del Signore, anche per la II Dom. del Tempo per l’Anno siamo ancora nel tempo della Manifestazione, dell’Epifania del Signore. Queste due Domeniche si pongono come un vero capodanno, almeno per il Lezionario, che trova qui uno degli inizi della sua lettura.
Gesù sta per iniziare il suo “ministero messianico”, cioè portare a compimento quella benevolenza divina da sempre “giacente” accanto agli uomini. Quest’ingresso trionfale del Signore nella “vita pubblica”, che già Dom. scorsa, nel compiacimento (eudokìa) del Padre, avevamo contemplato come tutta compiuta, qui trova maggiore ampliamento. Veramente l’Indicibile, l’Incomprensibile (solo per la limitazione della comprensione umana), il Mistero Grande di Dio si apre completamente, per la potenza dello Spirito Santo, all’estasi umana. Per questo leggiamo oggi il quarto Evangelo, quello di Giovanni, il quale «vedendo che negli evangeli degli altri erano narrate piuttosto le cose che riguardano la parte umana di Cristo, per impulso divino, a richiesta dei suoi discepoli, ultimo di tutti, scrisse un evangelo spirituale» (Clemente di Alessandria, Stromata, 1,49; PG 8,888).
Al contrario dei sinottici, Giovanni non descrive la scena del Battesimo, ma l’allude e vi rinvia; l’attenzione è posta sul Signore, secondo la testimonianza del Battista. Prosegue dunque l’aspetto battesimale della Vita storica del Signore, adesso nella prospettiva giovannea.
La narrazione che troviamo nei vv. 29-34, lo ribadiamo ancora, non ha lo scopo di raccontare il battesimo di Gesù, ma di indicare quando e come il Battista riconobbe il Messia. Da questi, nei versetti immediatamente precedenti (19-28), era stata resa una prima testimonianza ai sacerdoti e leviti inviati da Gerusalemme.
La pericope è collocata all’interno della magnifica testimonianza del Battista per Gesù; questa inizia con i vv. 6-8 del prologo, raggiunge il suo vertice al v. 9, e si prolunga fino al v. 51, se si vuole aggiungere l’atto con cui Giovanni guida i discepoli verso Gesù.
L’attenzione è sempre posta sul Signore, ma la testimonianza del Battista varia con le persone alle quali si rivolge ed è articolata dall’evangelista in tre momenti successivi, collocati nei tre giorni iniziali della settimana che prepara la manifestazione pubblica di Gesù:
- 1° giorno: la risposta del Precursore sulla propria identità agli invitati ufficiali di Gerusalemme (vv. 19-28, sacerdoti e leviti);
- 2° giorno: la sua professione di fede sulla identità di Gesù rivolta a tutti (vv. 29-34, che si leggono oggi);
- 3° giorno: la ripresa di tale professione davanti a due suoi discepoli, che diventano i primi del Cristo (vv. 35-39; l’evangelista è forse uno dei due).
La teologia simbolica giovannea indica così che al Primo Giorno, l’inizio, Colui-che-viene deve venire, al secondo, ch’è venuto; al terzo che ha compiuto l’opera che porta con sé (v. 36).
Il terzo giorno è un’allusione alla Resurrezione, alla Gloria divina, alla fede dei discepoli.
Anche nella pericope di questa II Dom. per annum A ci troviamo di fronte ad una professione di fede in Cristo, che si articola in tre affermazioni:
- «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo» (vv. 29.36);
- «Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui» (v. 32);
- «è il Figlio di Dio» (v. 34).
La pericope di Gv 1,19-34 appare nella sua originalità nel confronto con i sinottici che pure descrivono l’incontro tra Gesù e Giovanni Battista come già sappiamo. La prima caratteristica di Gv 1,19-34, rispetto alla narrazione dei sinottici, è la presentazione dell’opera del Battista come una testimonianza al Messia. L’appariscente inclusione tematica tra l’inizio e la fine di questa pericope giovannea è molto eloquente in merito. Per il quarto evangelista, il precursore non prepara la via al Cristo predicando la conversione, come per i sinottici (cf. Mc 1, 4 = Mt 3,2 = Lc 3, 3), bensì confessando pubblicamente di non essere il Messia (Gv l,19ss) e indicando con il dito il Cristo, che è l’agnello di Dio (Gv 1,29) e l’eletto di Dio (Gv 1,34).
Altra caratteristica vistosa della narrazione giovannea è la presentazione di Gesù come agnello di Dio e come eletto di Dio, sul quale rimane lo Spirito (Gv 1,29-34). I sinottici descrivono la discesa dello Spirito su Gesù (Mc 1,10 = Mt 3,16 = Lc 3,22), però non dicono che questa persona divina rimase su Gesù, come fa il quarto evangelista per ben due volte (Gv 1,32s).
In fatto di omissioni limitiamo il confronto al racconto di Marco, che sembra più primitivo, più sobrio e più vicino alla narrazione giovannea. Il quarto evangelista sembra sopprimere ciò che potrebbe descrivere l’attività del Battista per se stessa, accentuando i tratti che subordinano Giovanni a Gesù, per mostrare che l’attività del precursore è finalizzata dalla manifestazione della messianicità di Gesù. In particolare l’evangelista Giovanni omette, non solo la proclamazione del battesimo di penitenza per la remissione dei peccati (Mc 1,4), ma anche la descrizione del battesimo di Gesù con la rispettiva teofania (Mc 1,9-11). Il quarto evangelista non dice che Gesù è stato battezzato, e riferisce al Battista la visione dei cieli aperti e della discesa dello Spirito sopra Gesù (Gv 1,32s).
I lettura: Isaia 49,3.5-6
L’improvvisa e rapida affermazione nel mondo politico del tempo, aveva fatto del persiano Ciro la fiaccola di speranza di liberazione per gli innumerevoli esuli in terra di Babilonia, fra i quali erano gli ebrei.
L’autore del Secondo-Isaia individua subito nel personaggio Ciro, negli incontenibili successi delle sue armate, la mano di Dio che si muove a soccorrere il popolo eletto. Ciro gli appare come l’unto del Signore, inviato da Dio per dare compimento alle attese di restaurazione nazionale e mondiale nel culto dell’unico Dio (cf. cap. 41 e ss.).
Ma questo entusiasmo si cambia in delusione allorché si deve constatare che Ciro non fa altro che costruire un impero simile ai precedenti, mentre i giudei restano una piccola colonia di quell’impero. La figura di Ciro viene ridimensionata, la sua attività sembra obbedire soltanto alla logica del gioco politico.
Gli occhi allora si appuntano su un altro personaggio: il servo di Iahvé. E nel secondo canto del servo di Iahvé (ls. 49,1-9), da cui sono tratti i versetti che costituiscono questa lettura, Dio risponde al Servo, scoraggiato per la vanità dei suoi sforzi, prospettandogli una missione più ampia, universale. Sappiamo come la Chiesa primitiva abbia ritrovato nel profeta qui descritto i lineamenti di Gesù (cf. Is. 49, 6b con Lc 2, 32). S. Paolo a sua volta riferirà a se stesso (At 13, 47) la vocazione universale qui attribuita al Servo.
Il Signore scelse il Servo suo, lo proclama tale e gli dona la sua alleanza: «Servo mio, tu, Israele!», e gli annuncia che sarà la sua gloria stessa (41,8; 44,21; Lc 1,54), nell’opera che dovrà adempire. E una Persona, che riveste anche la funzione di comunione e d’aggregazione del popolo di Dio, quale sarà spiegata tra poco (v. 3).
Essa è enunciata dal Servo stesso, ma con le sole Parole del Signore. Prima si presenta. Il Signore Lo scelse già prima di nascere (v. 1; 44,2), con la predestinazione misteriosa a essere il Servo per Lui solo. È posto come unico Mediatore per riportare al Signore “Giacobbe” (che è il Patriarca, tale nome essendogli stato imposto dall’Angelo del Signore, Gen 32,29). Il Signore per la missione gli dona la gloria, ancora nascosta ma efficace, manifestata «sotto specie contraria» nella sofferenza (52, 13); gloria dall’eternità nota e visibile al Signore, ma sfigurata negli occhi impuri dei peccatori. Ma il Signore diede al suo Servo anche la sua Potenza, lo Spirito divino (42,1), l’Irresistibilità divina (v. 5).
Adesso il Servo riporta le Parole divine. Il Signore non lo considera solo come convertitore di Giacobbe-Israele. Il Disegno eterno si amplia nel Servo, per la prima volta e realizzando la Promessa d’Abramo (Gen 12,1-3), fino alle nazioni pagane, fino ai confini della terra. Il Servo per le nazioni sarà Luce (Ger 1,5; Lc 2,32; Gv 1,9), e per i confini della terra sarà Salvezza (Sal 97,3; Gv 11,52; 1 Gv 2,2) (v. 6).
Il Battesimo al Giordano, con il dono dello Spirito, segna l’inizio di questa missione finale.
Il Salmo responsoriale: 39,2 e 4ab.7-8a.8b-9.10, AGC
Con il Versetto responsorio: «Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà.» vv. 8a.9a, anche i fedeli oggi ripetono con gioia che con il Figlio vanno al Padre, con il Figlio fanno la Volontà sua.
La situazione originaria del salmo è quella d’un uomo che, liberato da una situazione opprimente, non trova parola più autentica di risposta, di azione di grazie a Dio, che la disponibilità esistenziale e totale alla sua parola. Tale parola si manifesta per lui come missione di liberazione diretta a tutti.
La situazione che reinterpreta questo salmo, è offerta dalla precedente lettura: Gesù, l’uomo Dio, l’uomo libero, il Dio servo, mandato appunto come tale dal Padre a portare la salvezza ad ogni uomo, a prezzo della sua stessa vita.
Tutta l’esistenza fedele dell’Orante fu dunque una continua attesa, una tensione verso il suo Signore (26,14; 36,34; 129,4-5), un dono di grazia preveniente. Che fu elargita in modo altrettanto fedele e puntuale da parte del Signore, sempre premuroso verso quanti Lo cercano (v. 2). L’Orante così dichiara tutta la sua fede riconoscente verso il Signore (v. 3), il quale ascoltò ed esaudì le sue lunghe e insistenti preghiere, lo salvò dal pericolo e lo pose sulla via retta. Anzi, di più. Gli diede la facoltà, che è essa stessa grazia, di aprire la bocca al rendimento di grazie, alla lode (50,17), gli pose sulla bocca il «cantico nuovo», antico e sempre attuale, quello di Mose al Mar Rosso (Es 15,1-18), intonato di continuo dal popolo in favore del quale in ogni intervento il Signore ripete le gesta dell’esodo (32,3, e molte volte nel Salterio). Questo è il «canto al Dio dell’alleanza», quello che Egli gradisce di più (v. 4ab).
Per tanti benefici, il Signore non volle neppure i sacrifici consueti (49,8; 50,18; 68,32; Is 66,3; Ger 6,20). Volle infinitamente di più e meglio. Sempre con grazia preveniente operò sulla persona del suo fedele. Il testo è citato splendidamente da Ebr 10,5-7, riferito in modo profetico e ovvio a Cristo. Si dà qui però un grave inconveniente. Il testo greco, che è ispirato, al v. 5 dice letteralmente: «un corpo invece adattasti per me», indicando la legge dell’Incarnazione. Ebr 10,5 cita opportunamente il testo greco, il solo idoneo a questa fondamentale rivelazione. Per sventura, qui il testo segue l’ebraico, che parla, in senso anche alto e profetico, così: «Le orecchie rendesti aperte per me», ossia docili alla divina Parola e Volontà, richiamo al testo d’Is 50,5a, il «3° canto del Servo» (anche Gb 33,16). Mentre si dovrebbe seguire sempre il testo greco, come fa il N. T. in modo autoritario ed esclusivo, in questo modo ci si trova con il greco di Ebr 10,5 che rinvia a Sal 39,7 senza più la corrispondenza profetica che contiene. Occorre qui ribadire con forza che a torto alcuni ritengono che l’ebraico sia il «testo originale» per il N. T., il «Testo originale» è invece quello greco; quello ebraico deve servire da utile, e necessario, riscontro.
Il Signore, proseguendo, non chiede all’Orante nessuna specie di sacrificio vigente (vedi il complesso sacrificale di Lv 1-7: sacrificio quotidiano, offerta pacifica, olocausto, sacrificio espiatorio) (v. 7c). L’Orante comprende questo «di più» che il Signore esige da lui, la sua stessa persona. E meditando la Scrittura, che parla di lui (Gv 5,39.46; Lc 24,25-27′.44), comprende che deve sottomettersi al suo Signore, venire a Lui, a totale disposizione (v. 8). Deve fare la Volontà sua come Servo fedele, come tante volte aveva pregato, a cui tanto del resto si era impegnato (118,16.24.35.92). A suo tempo il Servo, finalmente venuto, saprà che fare la Volontà del Padre è «suo Cibo» divino, l’unico di cui si nutra (Gv 4,34). Per questo l’Orante si pose nel cuore, nell’intimo della sua esistenza, la Legge santa del Signore, tutte le Parole rivelate (36,31). Questa fu l’unica norma che regola la sua operazione misteriosa, i cui effetti futuri sa che solo il Signore conosce per i suoi fini (v. 9).
E anzitutto, si fece annunciatore della Giustizia, la Volontà divina di salvezza, alla «grande assemblea», ai fedeli radunati nel santuario per ascoltare la Parola divina e per prendere parte al culto sacrificale. Così fa il Giusto sofferente (21,26). L’annuncio perciò è solo positivo: l’Orante è salvo, l’assemblea è integra e di continuo radunata davanti al Signore che l’attende. E quest’opera, faticosa e continua, è assunta come il primo servizio al Signore (118,13; At 20,20.27), in se stesso essendo un «sacrificio delle labbra», un culto reale e totale. L’Orante nell’operare è guidato da una suprema fiducia, poiché il Signore, che l’inviò a questo, sta presente sempre, «lo sa» bene, e aiuta il suo Servo, il suo Profeta, insomma il suo Sacerdote che chiama il popolo al culto della salvezza (Is 22,22). L’opera sua si configura così come l’Opera del Signore stesso (v. 10).
Esaminiamo il brano
v. 29 – «Ecco l’agnello di Dio…»: formula massimamente solenne; la medesima che, profeticamente ma senza neppure saperlo, usa Pilato quando annuncia: «Ecco l’Uomo!» (cfr. 19,5), «Ecco il Re vostro!» (cfr. 19,14).
«agnello»: una prima riflessione ci ricorda che l’agnello non era un animale usato nei sacrifici di espiazione, può essere preso quindi o come esempio di agnello pasquale, oppure come simbolo di innocenza.
Nel 1° caso agnello di Dio significa: agnello procurato, mandato da Dio ; nel 2° caso agnello degno di Dio quindi purissimo o innocentissimo (è un modo ebraico di fare il superlativo: cfr. monti di Dio = monti altissimi). L’Agnello di Dio, l’Uomo, il Re si manifesta dunque.
Siamo di fronte ad un simbolo dalle molteplici risonanze, e non si tratta di scegliere tra un riferimento o l’altro, ma piuttosto di cogliere insieme i diversi aspetti. Giovanni infatti lo vede sotto il primo aspetto, ed anzitutto lo acclama: lo indica come l’agnello-Servo sofferente di Is 53,7, quello che resta muto di fronte ai suoi carnefici (cf Gv 19,36, che rimanda a Es 12,46 e chiarito da Paolo in 1 Cor 5,7). È anche il Servo giusto perseguitato (cfr. Ger 11,19).
Questa fusione in una sola realtà del servo di Is 53, che porta il peccato degli uomini e si offre come «agnello di espiazione» (cf Lv 14) e del rito dell’agnello pasquale (Es 12) non è solo frutto della ricerca teologica ma ha anche basi lessicali. Il Battista se parlava, com’è probabile, l’aramaico, ha detto: Ha’ taljeh d’Alahà’l ; ecco il Taljà’, l’Agnello di Dio.
Ora taljà’ è un termine ricco di significati; ovviamente significa anzitutto agnello, poi ragazzo di fiducia, servo, ed anche pezzo di pane. Con l’evangelista Giovanni possiamo giustamente dire che L’Agnello-Servo-Pane di Dio sta qui.
v. 30 – «Ecco colui del quale io dissi…»: segue una spiegazione per quanti l’ascoltano; i destinatari non sono specificati, ma senz’altro sono un gruppo rappresentativo del popolo d’Israele. Sappiamo inoltre, dai vv. 35ss, che si tratta anche di suoi discepoli, che poi si faranno discepoli di Cristo (v. 37).
La spiegazione è il seguito della testimonianza; egli aveva annunciato che sarebbe venuto uno «dopo di lui», che «fu fatto prima» di lui, poiché sussisteva «prima di lui» (cfr. v. 27 e sinottici).
«prima di me»: non c’è dubbio che l’evangelista intenda qui affermare nuovamente la preesistenza di Gesù; il Battista tuttavia era consapevole di questa grande verità mentre pronunciava tali parole? Anche questa volta si possono avanzare dei dubbi: è un’altra esemplificazione dell’ironia Giovannea.
Se il Battista non si considerava il nuovo Elia (v. 21) potrebbe aver pensato, sia pure per un tempo limitato, che tale fosse il ruolo di Gesù.
L’espressione «colui che deve venire», usata qui dal Battista, è riecheggiata da Gesù nell’evangelo di Matteo (11,10) dove viene virtualmente intesa come un titolo per designare Elia (cfr. Mal 3,1).
Se il Battista pensava che il Messia fosse Elia ritornato sulla terra, è facile capire come egli abbia potuto parlare di lui come di una persona che era esistita prima di lui. Altri esempi di ironia Giovannea: il dialogo con la samaritana sull’acqua viva (4,10); l’affermazione del gran sacerdote Caifa sull’espiazione vicaria di Cristo (11,50ss); etc.
v. 31 – «lo non lo conoscevo…»: Giovanni, benché sia parente di Cristo, nato solo 6 mesi prima, dice che non lo conosceva; fatto impossibile secondo l’informazione umana. In realtà Giovanni non conosceva il Nome e il Volto di Colui-che-viene, ma sa che deve anzitutto manifestarsi ad Israele, il popolo dell’alleanza; la sua attività battesimale aveva infatti il preciso scopo di preparare gli uomini alla venuta del Messia secondo le parole dell’angelo a Zaccaria suo padre (cfr. Lc 1,16-17).
v. 32 – «Ho visto lo Spirito»: Ecco la seconda affermazione.
Fu soltanto quando battezzò Gesù che il Battista lo riconobbe come il Messia.
Qui l’evangelista presuppone il racconto sinottico del battesimo di Gesù (cfr. Mc 1,9-11 e parall.) senza tuttavia parlarne.
È la manifestazione dello Spirito, «discendente quale colomba dal cielo», da presso Dio.
Tale visione per sé era riservata a Cristo stesso mentre gli si aprono i cieli dopo il battesimo (vedi Evangelo. Dom. del Battesimo del Signore), ma vi è ammesso anche il suo Precursore.
«scendere come una colomba»: quel “come” non indica l’aspetto fisico di una colomba (òs infatti non significa uguale a, come sarebbe kathos) ma il modo di discendere che non incute paura (come il modo di scendere di un uccello da preda), che anzi infonde fiducia ed è bello a vedersi (come il volo di una colomba).
«e posarsi su di lui»: i sinottici affermano che lo Spirito «viene in discesa su Gesù», mentre il Battista ne dà una preziosa e determinante precisazione: lo Spirito «restava sopra di lui».
Al Re messianico era promessa la dimora dello Spirito, la sua pienezza sapienzale; sul virgulto di Jesse infatti «riposa» lo Spirito di Dio (Is 11,2), in modo permanente, «poiché Dio sta con lui» (cfr. At 10,38).
v. 33 – «Io non lo conoscevo…»: la prima parte della testimonianza è il fatto della discesa dello Spirito; viene ora dato il significato, ma riprendendo il discorso come all’inizio «anch’io non lo conoscevo…».
È il modo di procedere a cerchi concentrici, sempre più larghi; tipico e caratteristico del parlare dei beduini del deserto. Il Battista fin dalla giovane età (cfr. Lc 1,80) aveva vissuto nel deserto, a contatto con i beduini, di cui aveva assunto lo stile e il modo di ragionare.
«L’uomo sul quale…»: il riconoscimento da parte del Battista è il risultato di una rivelazione divina; l’Inviante parlò a Giovanni comunicandogli questo segno distintivo decisivo: lo Spirito discende e si posa solo su quello, vi fa dimora.
Termina il battesimo di Giovanni il Precursore, lui diminuisce e scompare (cfr. 3,30).
Viene «il battesimo» di colui che è infinitamente maggiore di Giovanni.
I profeti dell’AT avevano preannunziato un’effusione dello spirito nell’era messianica (cfr. Gl 3,1-2; Is 32,15; Zc 12,10); il N.T. vede il compimento di questa profezia nella Pentecoste e nel battesimo cristiano (At 2,16-18; 10,45; Rm 5,5; Gal 4,6; etc).
v. 34 – «E io ho visto e ho reso testimonianza…»: Giovanni ancora testimonia «Questi è il Figlio di Dio»; si aggiunge una testimonianza esterna alla parola del Padre nel Battesimo sinottico.
Un problema filologico di un certo interesse concerne il valore temporale dei verbi “vedere”, “rimanere” e “testimoniare” ai vv. 32.34. Al v. 32 troviamo il perfetto ho visto e l’aoristo rimase; al v. 34 incontriamo due perfetti: “ho visto”, “ho reso testimonianza”. Il tempo adoperato in questo passo sembra indicare un’azione passata; quindi Giovanni renderebbe testimonianza a Gesù dopo il suo battesimo. M.-É. Boismard tuttavia fa osservare che la frase “ho visto lo Spirito scendere… e rimase” è un semitismo per indicare che Giovanni ha visto lo Spirito santo scendere e rimanere su Gesù. Parimenti i perfetti ho visto e ho reso testimonianza del v. 34 hanno valore di presente, quindi il Battista rende testimonianza a ciò che vede, allorché parla. In tale ipotesi non è necessario porre un intervallo di tempo tra il battesimo di Gesù e la testimonianza di Giovanni.
In realtà l’aoristo “rimase” del v. 32 può avere valore di presente, come in analoghe espressioni semitizzanti. Nel magnificat per esempio, il presente “magnifica” è posto in parallelo sinonimico con l’aoristo “égalliasen”, che si deve tradurre con “esulta” (Lc 1, 47). Parimenti l’aoristo “ègàpèsa” di Gv 15,9 sembra avere valore di presente, perché indica l’amore eterno del Padre per il Figlio e di Gesù per i suoi discepoli. Inoltre il valore presente del perfetto è assai frequente nel quarto evangelo; così per esempio l’espressione “tu lo hai visto” di Gv 9, 37 non può significare altro che: “tu lo vedi”. Analogamente il perfetto “ho creduto” di Gv 11, 27 esprime la fede presente di Marta. Quindi anche in Gv 1,34 il perfetto si può rendere con il presente “rendo testimonianza”. Parimenti i perfetti ” tethéamai” di Gv 1,32 ed ” heṓraka” di Gv 1,34 sembrano indicare l’azione presente del vedere. Il Battista vede lo Spirito santo scendere su Gesù, quando lo incontra per la prima volta, ossia quando gli rende testimonianza, perché il giorno prima non sapeva che Gesù fosse il Messia. Giovanni infatti dichiara per ben due volte “Io non lo conoscevo” (Gv 1, 31.33), non avendo ancora visto lo Spirito scendere e rimanere sopra la persona di Gesù.
«figlio di Dio»: Merita un’attenzione speciale la lezione “figlio di Dio / eletto di Dio” del v. 34.” La tradizione manoscritta è nettamente a favore della variante figlio di Dio: i migliori codici riportano questa ‘locuzione, mentre la lezione eletto di Dio si trova nel Sinaitico (prima mano), in pochi minuscoli, in qualche versione antica e in alcuni padri latini.
Tuttavia la lezione “figlio di Dio” sembra più facile, perché conforme alla cristologia giovannea, mentre l’espressione “eletto di Dio”, riferita a Gesù, non ricorre altrove negli scritti giovannei; sembra quindi quella originaria, ossia uscita dalla penna di Giovanni. In realtà non si può sospettare che la locuzione “eletto di Dio” sia stata introdotta dai copisti per una ragione di concordismo con i (sinottici, perché non solo costoro, ma neppure gli altri agiografi neotestamentari riferiscono mai il termine eletto a Gesù. Difatti l’espressione “eletto di Dio”, applicata a Gesù Cristo, è un haphax legómenon neotestamentario. Perciò, benché la lettura di Gv 1,34 sia discussa, «la preferenza con tutta probabilità deve essere concessa alla lettura difficile e più arcaica, “eletto di Dio”, invece che “figlio di Dio”, che è interpretazione teologica posteriore».[2]
La prospettiva dell’evangelo di Giovanni punta, come abbiamo detto precedentemente, non al fatto noto ormai da tutti, che Gesù fu battezzato di Spirito Santo, ma al particolare sinottico che Colui-che-viene battezza con Spirito Santo e Fuoco (cfr. Mt 3,11; Lc 3,16). L’evangelista vede il fatto annunciato in anticipo, poiché ormai avviene normalmente, dopo la Pentecoste (fede cristologica); è il modo anticipante del profeta, che è il Battista (fede messianica).
Dopo la testimonianza così densa e ripetuta di Giovanni il Battista, il Figlio di Dio comincia la sua opera; anzitutto chiama i discepoli alla divina vocazione ed alla sequela di lui (1,35-51). Chiama ancora oggi noi e per questo la Chiesa tutta ripete con gioia che: Ecco, io vengo, Signore, per fare la tua volontà (versetto responsorio del salmo). Con il Figlio andiamo al Padre, con il Figlio facciamo la Volontà sua.
II Colletta:
O Padre, che in Cristo,
agnello pasquale
e luce delle genti,
chiami tutti gli uomini
a formare il popolo della nuova alleanza,
conferma in noi la grazia del Battesimo
con la forza del tuo Spirito,
perché tutta la nostra vita
proclami il lieto annunzio dell’Evangelo.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
[1] – Jacques Bénigne Bossuet (Digione, 27 settembre 1627 – Parigi, 12 aprile 1704) è stato uno scrittore, vescovo cattolico, teologo e predicatore francese.
[2] – I. de la Potterie, Ecco l’agnello di Dio, 30. F.-M. Braun, (cf. Jean, II, 71-73) e S. Sabugal (cf. «Christós», 163ss) non accettano la lezione «eletto di Dio».
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano