DOMENICA « DELLE PECORE SENZA PASTORE»
La pericope evangelica della Domenica XV narrava che il Signore, all’inizio della sua Vita pubblica tra gli uomini battezzato dal Padre con lo Spirito Santo e consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al Padre suo e come Sposo per acquistarsi la Sposa d’Amore e di Sangue, si era eletto Dodici tra i discepoli, e li aveva inviati in missione (Mc 6,7-13). Adesso la «lettura continua» (veramente, finisce qui per passare Dom. prossima a raccontare la moltiplicazione dei pani di Gv 6) di Marco nell’episodio di questa Domenica si vede il ritorno di quei discepoli e al ritorno dalla missione in Galilea, dopo aver riferito a Gesù quello che è avvenuto durante la prima grande avventura missionaria, viene per i Dodici il momento delle vacanze: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’» (Mc 6,31). Finalmente!
Sono appena tornati e già le folle si precipitano loro incontro. Non è possibile avere un minuto di tranquillità: meglio fuggire attraverso il lago per ritirarsi con Gesù in un luogo deserto. Fatica sprecata! La gente è più svelta di loro ed è già pronta ad attenderli prima ancora che sbarchino sull’altra riva. Allora Gesù, preso da compassione di fronte a queste pecore senza pastore, si ferma e si mette ad insegnare. «Vacanze apostoliche» andate a monte? Dopo il lungo viaggio missionario, i discepoli aspiravano senza dubbio al riposo contemplativo che avrebbero trovato presso il Maestro: lui solo poteva dare un senso alla loro vita, un contenuto alle loro parole, una dimensione nuova ai loro gesti più quotidiani. Ma non respingendo le folle che vengono a importurnali anche in questo momento, Gesù rivela ai suoi ciò che devono cercare presso di lui: non un confortevole rifugio per esteti o per anime devote in cerca di sensazioni particolari, ma la partecipazione all’amore di Dio per il suo popolo, nella consapevolezza che la missione non è altro che il dilagare della carità del Cristo nei confronti delle folle abbandonate a se stesse. Il medesimo amore incalza l’apostolo: come il Maestro, egli deve accettare di essere senza tregua a disposizione di tutti. «Si mise a insegnare loro molte cose». Gesù non ha mai finito di essere il nostro maestro. Quando vogliono farlo re, metterlo a distanza, conferirgli potenza e gloria come noi le concepiamo, Gesù si rifiuta e si mette a insegnare. Che cosa? Non si tratta in primo luogo di conoscenza, di cose da credere, di concetti da affidare alle parole e ai libri. Si tratta di una vita. Che cos’è la vita, la «vera vita»? Un uomo non potrà mai rispondere completamente a questa domanda, per quanto estese siano le sue conoscenze. La vita Gesù viene ad insegnarcela attraverso la vibrazione della propria esistenza, attraverso le sue parole sempre nuove, attraverso il varco che esse aprono in maniera definitiva nell’orizzonte degli uomini. Si tratta di vita con Dio, quel Dio che egli chiama padre con sconvolgente semplicità. Gesù sembra mettersi allo stesso livello di Dio, introducendolo con familiarità e confidenza della vita dell’uomo. E questo è proprio ciò che molti dei suoi contemporanei non gli perdoneranno mai.
Allora, niente vacanze per gli apostoli, per i cristiani? In ogni caso, niente vacanze per l’amore. L’intimità col Cristo deve portarci a condividere la sua sollecitudine per le folle. Durante le nostre vacanze, che cosa offriamo agli altri, sulle orme di Gesù?
Lasciamoci ora guidare dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 53,6.8
Ecco, Dio viene in mio aiuto,
il Signore sostiene l’anima mia.
A te con gioia offrirò sacrifici
e loderò il tuo nome, Signore, perché sei buono.
Nell’antifona d’Ingresso dal Sal 53,6.8 SI, con l’Orante, i fedeli all’inizio della celebrazione riconoscono che il loro unico aiuto sta nel Signore (Sal 117,7), sempre operante, che li accoglie sempre e li difende (v. 6). Perciò con animo devoto vogliono offrirgli il sacrificio divino e confessare al mondo il Nome suo, nel quale si trova l’unico bene (51,11), poiché è l’unico Nome che salva (v. 8).
Canto all’Evangelo Gv 10,27
Alleluia, alleluia.
Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore,
io le conosco ed esse mi seguono.
Alleluia.
La proclamazione evangelica è orientata dalle parole del Pastore Buono, che gioisce perché le sue pecore Lo ascoltano, ed Egli ne ha una profonda conoscenza, ed esse Lo seguono dovunque Egli vada. Raduno dei dispersi (I lett), pace ai vicini e ai lontani (II lett.), riunirsi intorno a Gesù (Evangelo): sono queste le espressioni che scandiscono la liturgia della Parola di questa XVI Dom. per annum e costituiscono anche la continuità tematica. Il tema teologico-liturgico al centro di questa domenica è infatti l’attenta e delicata preoccupazione di Dio per il suo popolo; il titolo iconologico che diamo a questa Domenica è infatti “Domenica delle pecore senza pastore“.
Nel testo evangelico viene illustrata l’attenzione di Gesù per i suoi discepoli, reduci dalla loro prima missione apostolica (vv. 30-32) e la “compassione” del Maestro per la “molta folla” che gli appariva «come pecore senza pastore» (vv. 33-34). L’atteggiamento di Gesù non fa altro che adempiere la profezia di Geremia (I lett.) che illustra la “preoccupazione” di Dio nei confronti del suo popolo (cfr. Ger 23,2).
L’immagine adoperata dal profeta è quella del pastore vero, che, a differenza dei vecchi pastori delegati, si prende completamente cura del gregge e di ogni pecora del suo gregge in modo diretto e attraverso pastori delegati, ma totalmente diversi dai primi (cfr. Ger 22,4).
I lettura: Ger 23,1-6
Molte cose crollano attorno al profeta, come attorno a noi; la colpa spesso è dei capi, pieni di limiti e ormai, in molti casi, superati. Ma Geremia non è un polemista, non si limita a smascherare i responsabili: a che servirebbe? Che cadano pure coi muri vacillanti delle loro città. Dio non abbandona il suo progetto; egli prepara per il suo popolo una guida secondo il suo cuore.
Nella triste sorte che attende il regno di Giuda e la famiglia reale, il Profeta con due oracoli annuncia insieme la venuta del Pastore buono (vv. 1-4) e il regno del Messia atteso (vv. 5-8). Bisogna ricordarsi che in Oriente il re di una nazione si dava volentieri l’attributo di “pastore”, titolo rivendicato in quanto egli si considerava posto al comando dalla divinità preferita che amava quel popolo e così era fatto capo e provvidente e responsabile del gregge che era il suo popolo e si professava pastore zelante, almeno nelle iscrizioni che sono giunte fino a noi.
La prima parola dell’oracolo di Geremia annuncia imminenti guai e rovina per i pastori che il Signore ha posto per pascere il suo gregge prezioso e invece lo fanno prima deperire, poi morire o disperdere. La dispersione allude all’esilio che per colpa dei re di Giuda dovrà subire il povero popolo (v. 1). Il tratto è tipico di Geremia (Ger 6,3; 10,21; 22,22; 24,34.36), sarà anche di Isaia (Is 56,11) e di Ezechiele (Ez 13,3; 34,2), nonché di Zaccaria (Zacc 11,7), Gesù come Buon Pastore ne riprende qualche aspetto (Gv 10,12-13). Geremia poi si rivolge direttamente a essi con una prima violenta accusa delle malefatte dei pastori, che hanno: disperso, cacciate via e trascurate le pecore (v. 2a). Poi annuncia la minaccia della loro catastrofe, poiché il Signore farà la sua “visita”, irrompendo su essi a causa delle loro azioni malvage (v. 2b) ed esercitando il diritto della punizione inevitabile (anche v. 22; e 4,4).
La terza parola è di pace e di bene. Il Signore viene a raccogliere la dispersione del suo gregge, del suo popolo, dalle regioni lontane dove pure ha permesso che fosse deportato (v. 3a; 8,3). Questa promessa è uno dei punti più insistiti del Deuteronomio (Dt 30,3) e dei Profeti (Ger 29,14; 32,37; Ez 20,34.41; 37,21), risuona ancora in Tob 13,5, nei Salmi (Sal 106,2), nei libri sapienziali (Sir 36,13). Ricondotto in patria il popolo, questo gregge conoscerà i pascoli amati, sarà di nuovo prolifico e crescerà (v. 3b; secondo il comando originante, Gen 1,28). Allora il Signore restituirà al gregge ai pastori degni (3,15; Ez 34,23), che condurranno il gregge al pascolo nella pace e nella sicurezza e il gregge non vivrà più nel terrore a causa dei nemici esterni e interni, e dal suo numero nessuna pecora mancherà più. La promessa è sigillata dall’affermazione finale: «Parlò il Signore!» (v. 4).
Il Salmo responsoriale: 22,l-3a.3b-4.5.6, SFI col versetto responsorio: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla » (v. 1), fa cantare il Signore che pascola il gregge dei suoi fedeli, ai quali nulla può mancare mai.
Il canto gioioso dell’Orante comincia con affermare la fiducia (v. 1): il Signore pasce me, formula dell’alleanza, «Tu sei il Pastore mio – Io sono il gregge tuo». Il Pastore è potente, il gregge è docile sotto la sua guida (Sal 77,52; 79,2; Is 40,10-11; Ger 23,4; 31,10; Ez 34,11-16. 23; Gv 10,11; 1 Pt 2,25; 5,4; Ap 7,17). È possibile seguire questo tratto lungo tutta la narrazione biblica. La fiducia prosegue affermando che nulla manca al gregge (Sal 33,10-11; Mt 6,33; Lc 22,35).
Il canto si fa anamnesi storica, che rievoca l’evento dell’esodo antico. Il Pastore divino conduce il suo gregge ai buoni pascoli, nella patria, con cura affettuosa (v. 2a; Ez 34,14; Gv 10,9) e procura l’acqua che fa vivere (richiamo a Es 17,1-7); acqua di riposo, dove si placa ogni ansietà, lite, tentazione e mormorazione (v. 2b). Così ristora l’anima affaticata del gregge, fiducioso nel Signore ma anche teso verso i pericoli numerosi (v. 3a; 18,8). La guida divina prosegue. Per amore del suo Nome, della sua Fedeltà, il Signore fa procedere il suo gregge sulle Vie sue, che sono «di giustizia», rette, indirizzate alla misericordia e alla bontà (v. 3b; anche 5,9; 138,24, con lo Spirito del Signore; 142, 10; Pr 4,11; 8,20).
L’Orante, che impersona tutto il gregge, riafferma ancora la sua ferma fiducia. Potrà anche procedere nel deserto, dove le valli scoscese e orride nascondono il sole, sembrando luogo della morte, ma sa che il Signore sta anche lì (Sal 138,11-12; Giob 3,5), perciò non teme alcun male (v. 4ab). La Mano del Signore lo guida con forza (Sal 138, 10); ogni timore è rimosso (Es 3,11-12; Is 43,2; Sal 26,1). Il segno della Guida divina sono il bastone del pastore e lo scettro della regalità, sempre in funzione, con effetto rassicurante (v. 4cd; Mich 7,14). Il Signore poi trasmetterà questo scettro con potenza al suo Pastore prescelto, intronizzato alla sua destra, vittorioso della vittoria di Dio, che prende le consegne in Sion per dominare sui nemici, Colui che il Signore «genera oggi», fuori del tempo e ne fa il suo Sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec (Sal 109,1-4).
Si accompagnano a questo altri segni efficaci, sacramentali, che il Pastore prepara per il suo gregge, il popolo suo. Sono operazioni antiche, sempre permanenti e funzionanti. E anzitutto il Convito (Sal 77,19-20; 2 Sam 17,27-29; Pr 9,1-6), che raccoglie nell’unità tutta la comunità e da cui sono esclusi i nemici di Dio e del gregge (v. 5ab). Il Signore dona anche il segno della sua consacrazione, l’olio della gioia (v. 5c; 44,8; Sir 9,8, segno che non deve mancare; Giud 9,9; Sap 2,7; Lc 7,46; Mt 26,6), quello che fa risplendere il volto (Sal 103,15b). E di più, il Signore offre la coppa comune, quella dove beve prima Lui e poi dona ai suoi figli (Sal 15,5; 35,9), che i suoi figli adoranti innalzano a Lui (Sal 115,4, «coppa della salvezza»), coppa abbondante, squisita, inebriante (v. 5d).
Questi sono i segni della Misericordia divina, lo éleos e hesed dell’alleanza, permanenti nella vita del popolo orante (v. 6ab; 91,11). Quale desiderio più può esprimere l’Orante? Solo di abitare in eterno nella Casa del Signore, all’ombra delle sue ali, dove si riceve la grande ricchezza della sua abbondanza, le meraviglie della sua Grazia (v. 6cd; vedi 26,4; 83,4-5).
Evangelo
La struttura letteraria del testo di Marco porterebbe a una delimitazione della pericope: bisognerebbe distinguere Mc 6,30-31, un brano a sé che si potrebbe chiamare “il ritorno degli apostoli”, da Mc 6,32-44, testo che narra la moltiplicazione dei pani. Il Lezionario ha scelto diversamente, dando alla pericope una fisionomia letteraria nuova. Per questo motivo il testo nuovo, sotto il profilo letterario, va letto in tre momenti:
- la relazione dei Dodici (v. 30),
- il ristoro di Gesù (vv. 31-33)
- la compassione di Gesù per la folla (v. 34).
La Chiesa, anche oggi, assume il medesimo destino del Signore. La sua fecondità non le viene dall’appoggio del potere, dal prestigio delle istituzioni, ma dalle sue piccole comunità, ferventi di fede e decise a testimoniare fino in fondo la radicale novità dell’evangelo. Piccole comunità che peraltro devono premunirsi contro la tentazione di chiudersi in ghetto, restando aperte a tutti i poveri del mondo.
«La mercede poi che si riceve nella vita presente deve aiutarci a tendere con più energia a quella futura. Perciò un predicatore anziano non deve predicare per ricevere la ricompensa su questa terra, ma per aver la forza di continuare a predicare. Infatti chiunque predica per ricevere quaggiù lodi o donativi, senza alcun dubbio si priva della ricompensa eterna. Chi poi predica desiderando di piacere agli uomini per attirarli con le sue parole all’amore verso il Signore, non verso se stesso, oppure percepisce una retribuzione per non essere estenuato dalla predicazione a causa della povertà, questi certamente riceverà nella patria celeste la sua ricompensa perché durante la vita ha ricevuto solo il necessario.
Ma cosa facciamo noi, o Pastori, che riceviamo una ricompensa e non siamo affatto operai? Percepiamo anche dei redditi dalla santa Chiesa come compenso quotidiano, eppure non ci affatichiamo a predicare per la Chiesa eterna. Pensiamo quale motivo di condanna sarà l’aver ricevuto la ricompensa del lavoro senza aver lavorato. Ecco, viviamo delle offerte dei fedeli, ma che fatiche sosteniamo per le loro anime? Riceviamo come retribuzione ciò che i fedeli hanno offerto in remissione dei loro peccati e tuttavia non ci affatichiamo come sarebbe giusto a pregare e a predicare contro gli stessi peccati». (Dalle «Omelie sull’evangelo» di san Gregorio Magno, papa).
Esaminiamo il brano
30 – Il racconto si riallaccia chiaramente a quanto detto in 6,7-13 sull’invio dei Dodici come abbiamo già anticipato nell’introduzione. Soddisfatti della missione portata a termine, i Dodici si danno convegno presso Gesù per riferirgli quanto hanno “fatto (epoíēsan) e insegnato ” (edídaxan) nel loro giro missionario.
«avevano fatto»: interessante notare come «tutto quello che avevano fatto» precede «avevano insegnato»; nel brano sinottico di Luca (9,10-17) troviamo solo il verbo poiéō (cf. 9,10). Il fare degli apostoli non è certamente da riferire alla quantità di lavoro fatto (cf. Mt 20,12) ma piuttosto all’esecuzione, all’attuazione della «volontà del Padre che è nei cieli» (cfr. Mt 7,21-23 e si veda anche At 1,1 in cui si parla della missione di Gesù). L’insegnamento deve essere reso valido dalla coerenza della condotta (cfr. Mt 5,19).
«insegnato»: in Marco l’uso del verbo insegnare (didáskō) è significativo: viene usato 17 volte, delle quali una si trova inserita in una citazione di Is 29,13, una viene usata nel nostro testo per l’insegnamento degli apostoli e quindici volte per l’insegnamento compiuto da Gesù.
Il Signore è il vero Maestro e l’insegnamento degli apostoli non è che il suo insegnamento prolungato attraverso di loro. Non a caso, proprio per attribuire ai Dodici la loro giusta autorità (derivata), Marco li chiama in questo caso mandati (=apóstoloi), unica -volta, ma significativa, in tutto il secondo evangelo; il nome di apostolo nel testo di Marco ha già il valore tecnico che il vocabolo assume nella Chiesa nascente: i mandati portano l’insegnamento di Gesù non il loro.
31 – «Venite in disparte»: si ha qui un segno della sollecitudine con cui Gesù usava trattare i suoi discepoli.
«luogo solitario»: nell’originale greco quel “solitario è ” érēmos,” da cui deriva, il nostro “eremo”, applicato a luoghi silenziosi e di meditazione. Il termine geco allude anche al deserto, che è per eccellenza un orizzonte di silenzio e di solitudine; è il luogo dell’intimità con Dio (cfr. Os 2,16); il luogo dove Israele aveva sperimentato Dio come il Padre che offre cibo, acqua e protezione (Dt 8,3-5). Il trovarsi insieme in un luogo solitario e lontano dalla confusione della folla costituiva non solo un motivo di riposo, ma anche un’occasione per quelle conversazioni confidenziali, nelle quali Gesù era solito introdurre i discepoli ad una più approfondita conoscenza dei «misteri del regno» (cfr. 4,10-11). Il Gesù di Marco nella prima parte del suo ministero pubblico ama talora ritirarsi “nell’eremo” per incontrare il Padre nella preghiera (cfr. 1,35.45).
«riposatevi»: imperativo aoristo medio; l’imp. aoristo comanda a coloro che finora avevano lavorato senza sosta che devono intraprendere un’azione nuova: «cominciare a riposare» ; la forma media esprime una sfumatura nel modo di agire, rivela un’azione del soggetto che agisce secondo uno speciale interesse nei propri riguardi. Il verbo greco anapaúō= riposatevi richiama il termine anápausis del testo greco del noto salmo del Signore pastore, Sal 22,2 (il salmo responsoriale).
Gesù è visto da Marco come il pastore, il vero ed unico pastore di Israele e di ciascuna creatura, che si occupa delle sue pecore e le conduce, perché subito dopo, come dice il salmo 22, deve preparare loro una mensa (la moltiplicazione dei pani di Mc 6,33-44). Non a caso, infatti, si dice che “non avevano più neanche il tempo di mangiare a causa del viavai di gente che veniva da loro.
«la folla che andava e veniva»: nonostante l’insuccesso di Nazaret (6,1-6), sono ancora molti quelli che ricercano Gesù per ascoltarlo e per averne i favori. Questo viavai di gente sembrerebbe giustificato dalla Pasqua vicina (cfr. Gv 6,4, che nella narrazione della moltiplicazione dei pani dona qualche notizia in più di Marco); la gente, per scendere a Gerusalemme, prendendo la ‘via del mare’ (vedi III Dom. tempo Ord. A), passava per Cafarnao e si fermava per ascoltare il Maestro di cui aveva sentito parlare dai suoi discepoli.
«non avevano più neanche il tempo di mangiare»: L’espressione traduce il verbo greco eukairéō, che ha la connotazione sia di avere l’opportunità che di trovare il tempo materiale. L’accenno esplicito al «mangiare» preannuncia l’episodio successivo nel quale, ironicamente, i discepoli non mangeranno ma serviranno da mangiare agli affamati. La frase non ha soltanto lo scopo di evidenziare l’accorrere delle masse, ma qualcosa di più. Da 6,30 a 8,20 leggeremo per ben 14 volte il verbo mangiare (phageîn) e 17 volte il termine pane (ártos). Per questo gli studiosi chiamano «sezione dei pani» il racconto che va da 6,30 a 8,20. Il tema del cibo ha la sua importanza, sia per il suo aggancio alle tradizioni ebraiche, sia per le sue prospettive cristiane. Non carichiamo oltre il senso dell’espressione ora detta ma non possiamo non richiamare quanto ha scritto meravigliosamente Beda il Venerabile in un suo ”Commento all’evangelo di Marco” (cf fascicolo letture patristiche).
32-33 «verso un luogo solitario»: nel testo non è precisata né la località di partenza né quella di arrivo; supponendo che Gesù, come d’ordinario, si trovi in Cafarnao, il “luogo solitario” va ricercato non troppo lontano, dato che la gente può raggiungerlo facilmente a piedi (v. 33). Probabilmente, perciò, dovrebbe trattarsi di una località situata nei pressi di Betsàida (come detto esplicitamente da Lc 9,10), sulla sponda orientale del lago, a circa 10 Km da Cafarnao.
«in disparte»: L’espressione (kat᾽ idían) è usata altrove in riferimento a istruzioni private (4,34; 9,28; 13,3) o a rivelazioni fatte da Gesù ai suoi discepoli. Qui comunque il ritiro è di breve durata e non viene data nessuna istruzione privata.
«Molti però… li precedettero»: molti (polloì) in mezzo alla folla, i quali poi comunicarono a tutti la loro scoperta prevenendo così l’azione del gruppo apostolico (i discepoli, stanchi, remavano adagio oppure il vento era contrario). La folla incombe e rispetto ad essa bisogna porsi in atteggiamento di servizio; anche a Gesù, infatti, è capitata la stessa cosa. Dopo la sua prima giornata di missione non ha potuto stare in pace nel ‘luogo deserto”. Pietro stesso pose fine a questo isolamento avvertendolo: «Tutti ti cercano» (1,36)». Ciò che capita a Gesù, capita ai Dodici. Lo stare con Gesù non va inteso come un contatto esterno, sebbene familiare, con il Maestro; si tratta piuttosto di una progressiva condivisione interiore, profonda. Lo stare con Cristo equivale a essere come Cristo.
34 – «si commosse»: la commozione di Gesù per la folla non è una commozione “umana”, nel senso comune che noi diamo al termine. È una partecipazione sofferta ed intima; è un atteggiamento messianico!
Il termine ‘commuoversi’ (splanchnízomai) indica un comportamento tipico di Gesù e «caratterizza la divinità del suo agire». La «compassione» di cui parla Marco (in eb. rahàmìm = viscere), corrisponde al gr. oiktrimoi (compassione manifestata) o splàgnon (connesso con splén = milza indica genericamente le viscere; più specificatamente può indicare il seno materno) ed indica un movimento degli intestini, nel senso che provò un forte turbamento nelle sue viscere come lo prova una madre per suo figlio (lett. «si sentì smuovere le viscere»; secondo l’antropologia biblica, le viscere sono sede della sollecitudine materna). Lo stesso verbo Luca lo usa per dire la commozione di misericordia del padre quando rivede il figliuol prodigo (Lc 15,20) e del samaritano che soccorre il malcapitato della parabola (Lc 10,33). La compassione, la misericordia è una caratteristica di Dio (Lc 1,50). Nell’AT Is 54,7-8, «ma con affetto perenne ho avuto compassione di te»; Sal 86,15; 111,4; 112,4; 145,8). La «compassione» è il ponte tra la simpatia e l’azione (ricordiamo ancora Lc 10,33; 15,20).
«pecore senza pastore»: la similitudine viene tratta dall’A.T.; in modo particolare ricorda due testi: Nm 27,17 ed Ez 34,5 (ma anche 1 Re 22,17; Zc 10,2; 13,7; ecc.) ed esprime molto bene la condizione di smarrimento. La citazione dal libro dei Numeri richiama la preghiera di Mosè prima di morire, quando chiese a Dio un capo «perché la comunità del Signore non diventi simile a pecore che non hanno pastore» (designazione dì Giosuè al posto di Mosè). In Ez 34 la salvezza futura è connessa alla guida del pastore messianico. Marco allude con chiarezza a Gesù come colui che sostituisce in modo completo e definitivo Mosè-pastore e dimostra che Gesù è il depositario della premura pastorale di Dio per Israele.
«si mise ad insegnare»: ossia a spezzare il Pane della Parola, premessa per spezzare il pane del corpo, che è sempre un rito e introduzione essenziale al Pane del Mistero. Gesù insegna mostrando in tal modo di sentirsi il vero buon pastore (Gv 10,1-18), che si prende cura delle sue pecorelle, come predetto dai profeti (cfr. Ez 34,23).Il popolo che Egli pasce è invitato ad ascoltare la sua voce, se vuole entrare nel suo riposo (cf. Sal 94,7-8.11), se vuole che il pastore «su pascoli erbosi lo faccia riposare e gli prepari una mensa» (Sal 22,2.5).
Il Signore va glorificato e magnificato sempre essendo Egli Gratificante e Tenero (Es 34,6) avendo compiuto “gesta mirabili” (Es 12,14) che ha stabilito con memoriale perenne fra gli uomini. Tra queste gesta, la prima è il Cibo divino della Parola e del Convito, donato ai fedeli, che vogliono eseguire la sua volontà per essere con il Figlio i “figli del Regno” nella Grazia dello Spirito Santo, la Chiesa di amore e di bene:
Antifona alla Comunione Sal 110,4-5
Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi:
buono è il Signore e misericordioso,
egli dà cibo a coloro che lo temono.
Purtroppo proprio adesso si perde la vivezza della narrazione marciana del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, perché in modo problematico si è preferito di interrompere qui il corso di Marco per inserire in 5 Domeniche successive la narrazione del lungo cap. 6 di Giovanni.
II Colletta
Dona ancora, o Padre,
alla tua Chiesa,
convocata per la Pasqua settimanale,
di gustare nella parola e nel pane di vita
la presenza del tuo Figlio,
perché riconosciamo in lui il vero profeta e pastore,
che ci guida alle sorgenti della gioia eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano