La tradizione liturgica, attingendo alla tradizione evangelica, ci fa gustare il mistero unico della Pasqua del Signore come centellinandolo in vari fermo immagine. La scoperta che il male non è l’ultima parola, che la vittima è abbracciata in eterno da Dio, in una definitiva vittoria della Vita sulla morte, ha bisogno di lunga contemplazione. Allora il primo fotogramma ci accompagna alla sorpresa del sepolcro vuoto, “vidimato” dalla angelica rivelazione divina. Il secondo, variegato secondo le sensibilità di Matteo, Luca e Giovanni, ci presenta manifestazioni del Risorto. Un terzo fotogramma ci racconta lo scioglimento definitivo di una convivenza: i discepoli inviati al mondo e Gesù assunto nell’Alto di Dio. Tipico di Luca il modulo scenografico degli Atti (prima lettura) che oggi leggiamo. Ultima, la Pentecoste chiuderà il ciclo.
Ma Marco fa altre scelte. Da sempre si sa che l’ultimo brano del suo vangelo, vv 9-20, non gli appartiene, ma è stato giustapposto al suo testo, che, con una finale aperta, proclamava alle donne: “6voi cercate Gesù nazareno, il crocefisso: è risuscitato, non è qui. 7Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea; là lo vedrete come vi ha detto”; terminando al v. 8 con uno straniante: “8Esse uscirono e fuggirono …. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite”.
Siamo consapevoli che alla morte di Gesù è seguito un sorgere di varie comunità di suoi seguaci, caratterizzate da diverse sfumature di tradizione del messaggio, diverse prassi ecclesiali, diverse memorie condivise. Marco, il primo dei sinottici, impegnato a conservare in fedeltà le memorie di cui disponeva, ci presenta forse il Gesù meno “interpretato” e quindi il più indecifrabile. Un vangelo, il suo, inquietante, aperto e chiuso nel mistero, senza natività all’inizio, senza manifestazioni del Risorto alla fine. Qui la fede pretende un camminare fuori dall’evidenza esteriore della visione. Il suo stravolgente messaggio pasquale riabilita quel Gesù che, proprio lui, misero disgraziato, “il morto in croce, è il Risorto!”
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Messaggio che si àncora profondamente a due anelli intrecciati, da accogliere e ricordare. “L’ha detto Dio” (v, 6), “l’aveva detto lui” già sulla via del Getsemani: “Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea” (14,27-28). Invito a un ripetuto rinnovare la sequela, unica chiave di riconoscimento e di visione, nel ricalcare i passi di chi si chinava sull’uomo e per lui si commuoveva e si adirava.
Tuttavia, nella prima metà del secondo secolo, altre esigenze, forse di armonizzazione, hanno uniformato il racconto marciano agli altri, con l’innesto di una “autentica reliquia della prima generazione cristiana”1, versetti 9-20, dichiarati dal Concilio di Trento ispirati e canonici, quindi parola di Dio: ci parlano di Gesù e parlano a noi. Qui la fine si riallaccia all’inizio. Gesù invia in una missione allargata al mondo i suoi discepoli. Annunzieranno il kerigma, il Vangelo, da itineranti, come lui lo ha annunziato, quando venne nella Galilea proclamando il vangelo di Dio, ed esortando: credeteci (1,14-15). “Vangelo” apposto da Marco come iniziale titolo al progressivo svelarsi della sua identità profonda, (1,1), che inquieterà i contemporanei: ma chi è dunque Costui? E inquieta ancora noi.
Vangelo che cresce. Prima evangelo di Dio e del suo regno vicino, nella tenera misericordia di un Padre che opera attraverso il figlio amante. Ora, sin da Paolo, inglobante l’evangelo di Gesù, morto per noi e per noi resuscitato.
Anche qui il discrimine si giocherà sul credere o non credere ad un annunzio diventato universale perché investirà tutto il mondo, creatura per creatura. Come già predetto da Gesù nel discorso escatologico: “Ma prima è necessario che il Vangelo sia proclamato a tutte le nazioni”(13,10).
Così tra l’annunzio e la salvezza sta la fede, l’accoglienza che ognuno è chiamato in prima persona a prestare, perché la sua vita si trasformi e venga immersa in quella che scorre dal Padre al Figlio, in un fluire continuo di offerta e accoglienza: «Chi accoglie uno solo di questi piccoli nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (aposteilanta me: 9,37).
Salvezza allora è il dono di essere strappati alle sabbie mobili dell’insignificanza, delle tenebre del non senso alla vita luminosa in pienezza.
La missione dei discepoli sarà modellata sulla sua, come lui l’aveva pensata dalla costituzione dei dodici (3,13), formati dallo stare con lui, perché potesse “mandarli (apostellein) a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri … Ed essi, partiti, diedero l’annunzio che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano (6,7- 13). Presenterà stessa cura delle ferite dell’uomo, stessa liberazione dalle strozzature del male, stessa immersione “immune” tra i serpenti e i veleni della società, stessa apertura alla positiva varietà di espressione dell’umanità.
Questa pagina chiude l’esperienza della presenza visibile di Cristo ai suoi, simbolico tempo sospeso tra la resurrezione e l’approdo definitivo del Figlio presso il Padre, antico articolo di fede delle origini, letto, già nelle testimonianze preevangeliche, “Cristo assiso alla destra di Dio” (Col 3,1), con le immagini dei salmi di intronizzazione: “Oracolo del Signore al mio signore: Siedi alla mia destra” (Sal 110,1). Impensato e impensabile stravolgimento dell’ottica del potere regale: il rifiutato e il maledetto è colui di cui i credenti attendono ora il glorioso ritorno per la fine dei tempi.
Ma non si chiuderà mai l’esperienza invisibile del Risorto, sempre presente, in sinergia continua con i suoi in opere e Parola, a realizzare la continuità esistenziale che ci dà forza.
Commento a cura di Raffaella – Comunità Kairos
Immagine di Dimitris Vetsikas da Pixabay