Le letture di questa domenica mettono a fuoco un aspetto fondamentale dell’esistenza cristiana: l’attesa della venuta del Signore. Un’attesa che, soprattutto nella pagina evangelica, prende la forma concreta di una continua vigilanza. Come osservava il card. C. M. Martini nella sua Lettera pastorale Sto alla porta: «Vigilare non è un atteggiamento marginale della vita cristiana, ma ne riassume la tensione caratteristica verso il futuro di Dio congiungendola con l’attenzione e la cura per il momento presente». Se proprio del cristiano è vigilare «ogni giorno e ogni ora» (come ci ammonisce il grande padre della Chiesa Basilio), il suo esercizio si fa ancora più urgente di notte, quando il sonno e la stanchezza possono prendere il sopravvento e l’oscurità può far smarrire il sentiero che conduce all’incontro con Dio. I primi cristiani sapevano che l’avvento del Signore sarebbe giunto all’improvviso, «come un ladro di notte» (1Ts 5,2), per questo cercavano di vivere in modo tale da non lasciarsi trovare impreparati a questo evento. Così la Chiesa, anche oggi, vive il tempo del suo pellegrinaggio terreno come una lunga e interminabile notte, durante la quale attende insonne lo spuntare del giorno nuovo (cfr. Rm 13,12).
Il testo della prima lettura, tratto da libro della Sapienza, ci parla dell’attesa di Israele («Il tuo popolo era in attesa della salvezza dei giusti»: v. 7) che trova compimento nella «notte della liberazione». È la notte in cui Dio stesso veglia sul suo popolo per farlo uscire dal paese d’Egitto (cfr. Es 12,42), realizzando così le promesse già annunciate ai patriarchi (cfr. Sap 18,6). Allo stesso modo, il passo della Lettera agli Ebrei (seconda lettura) ci ricorda l’attesa di Abramo, maturata nella notte della fede (culminata nella prova dell’‘offerta’ di Isacco: cfr. v. 17) e nella ricerca di
«una patria migliore» di quella da cui era uscito (cfr. vv. 14-16).
Nel brano evangelico ci vengono presentate tre brevi parabole (Lc 12,35-48) – precedute da un’esortazione a disfarsi dei beni di questo mondo per farsi un tesoro nei cieli (vv. 33-34) – che potremmo definire un piccolo ‘vangelo dell’attesa’. In esse, infatti, troviamo declinati i diversi aspetti dell’attesa cristiana e le molteplici sfumature che, di volta in volta, può assumere la vigilanza. In quei servi che aspettano il ritorno del loro padrone pronti ad aprirgli subito la porta (vv. 36-38), in quel padrone che scruta (o meglio, che dovrebbe scrutare) con attenzione l’ora in cui arriva il ladro per non lasciarsi scassinare la casa (vv. 39-40), in quel maggiordomo (o amministratore) che durante l’assenza prolungata del padrone è chiamato a prendersi cura responsabilmente dei servi a lui affidati (vv. 41-48), ci viene illustrata la multiforme ricchezza di significati della vigilanza evangelica. Essa comporta prontezza e attenzione (perché in ogni momento può giungere il padrone o il ladro); pazienza e perseveranza (la capacità di attendere anche tutta la notte); fedeltà e responsabilità nel compiere il proprio dovere; disponibilità al servizio, sempre e comunque. Tutto questo può essere bene sintetizzato nelle due immagini che compaiono nell’esortazione iniziale: ««Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi (lett.: siano cinti i vostri fianchi) e le e lampade accese» (v. 35). I «fianchi cinti» è immagine comune nella Bibbia per indicare l’atteggiamento di chi si predispone a compiere qualche lavoro o a intraprendere un viaggio (cfr. Lc 17,8; At 12,8). Ma, soprattutto, evoca l’atteggiamento di Israele mentre si prepara a celebrare la Pasqua nella notte in cui il Signore passa a liberarlo: «Ecco in qual modo mangerete l’agnello: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò…» (Es 12,11-12). Il Signore «passa», perciò bisogna farsi trovare pronti per intraprendere con lui il cammino dell’esodo dall’Egitto. L’altra immagine, delle «lampade accese», è piuttosto metafora del vegliare durante l’oscurità della notte (cfr. la parabola delle vergini sagge e stolte in Mt 25,1-13). Il credente che attende il suo Signore deve essere dunque come un viandante, continuamente in cammino – mai pago di ciò che ha raggiunto –, e deve essere sempre pronto ad attendere al proprio servizio – sino alla fine –. Nella certezza che, comunque, anche attraverso la notte più oscura, ha sempre una luce, una piccola lucerna che lo
guida: la parola che il Signore gli ha donato (cfr. Sal 118/119,105; nella prima lettura è la «colonna di fuoco» che funge da guida nel viaggio della notte pasquale, cfr. Sap 18,3).
«Non temere, piccolo gregge…» (Lc 12,32). Con questa parola di consolazione e incoraggiamento si apre il vangelo odierno. Pur nella sua piccolezza e insignificanza, nella sua fragilità costantemente minacciata, il piccolo gregge dei discepoli può avanzare con fiducia perché ha già ricevuto in dono tutto quello che da Dio può sperare e desiderare: il suo Regno. Con il cuore in questo «tesoro» (vv. 33-34), allora, aspetta con speranza incrollabile il Signore che ritorna, consapevole che meno si attaccherà ai propri beni e più sarà capace di attendere il grande bene del Regno. Perché tra povertà e attesa c’è un intimo e imprescindibile legame: un cuore ingombro e distratto da troppe cose, infatti, non ha più quella libertà e quella forza di attendere da Dio solo il compimento di ogni suo bene.
«Beati coloro che aspettano (trad. CEI: sperano in) lui», dice il profeta Isaia (30,18). In se stessa, l’attesa è già fonte di beatitudine e di autentica felicità. Perché mantiene il cuore aperto nella direzione del suo desiderio più vero, facendogli in qualche modo già pregustare la gioia dell’incontro. E anche nel nostro passo evangelico, per ben tre volte, risuona la formula: «Beati…» (vv. 37.38.43). E in tutti i tre i casi la beatitudine è scandita da quell’«essere trovati». Trovati
«così», ad «agire così». Cioè nientemeno che intenti e attenti al proprio lavoro, al proprio compito, al proprio servizio. Non ci è chiesto altro che di attendere attendendo al compito che ci è stato affidato, con tutta la responsabilità e la fedeltà di cui siamo capaci. E scopriremo allora, con stupore, che per Dio questo semplice fatto è già cosa immensa e stupefacente, tanto da essere ripagata con una risposta che ha dell’eccessivo e dell’inimmaginabile: «In verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli» (v. 37). Il Signore che si fa servo dei suoi servi: mirabile capovolgimento divino!
A questo punto, ci si può chiedere se noi aspettiamo un Signore così. Oppure il suo volto conserva per noi ancora i tratti inalterati di un giudice terribile e inquietante, di un ladro temibile e senza scrupoli o di un padrone duro e severo, che non esiterà a punire con rigore chi non avrà agito secondo le sue disposizioni?
Fonte: Monastero Dumenza
Letture della
XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C
Prima Lettura
Il Signore si penti del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.
Dal libro dell’Esòdo
Es 32,7-11.13-14
In quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”».
Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione».
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”».
Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.
Parola di Dio
Salmo Responsoriale
Dal Salmo 50 (51)
R. Ricordati di me, Signore, nel tuo amore.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro. R.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito. R.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio;
un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi. R.
Seconda Lettura
Cristo è venuto per salvare i peccatori.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
1 Tm 1,12-17
Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Parola di Dio
Vangelo
Ci sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte.
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 15, 1-32
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Parola del Signore
Oppure forma breve: Lc 15,1-10