Commento al Vangelo di domenica 14 Novembre 2021 – Comunità di Pulsano

1588

DOMENICA «DELLA VENUTA DEL FIGLIO DELL’UOMO NELLA GLORIA»

Quale famiglia non ha vissuto, in circostanze drammatiche come ad esempio la guerra, l’attesa del ritorno di una persona cara, la fine della pandemia? Oggi la comunicazione è stata enormemente potenziata e facilitata ma è diminuita la soglia di paziente attesa per cui ci sconvolge molto più di ieri la mancanza di notizie. E come descrivere la gioia del suo arrivo improvviso, magari nel cuore della notte, dopo tanto tempo che non si aveva più nessuna notizia? Dopo i primi momenti di intensa emozione, ciascuno assapora la felicità di essere di nuovo insieme, mostrando ciò che aveva preparato nella speranza che venisse quell’ora. «Quando e come ritornerà?» ci si era chiesti mille volte nel lungo periodo dell’attesa.

Quando e come: due domande che la prima generazione cristiana ha continuato a porsi con insistenza a proposito del ritorno del Cristo. Già i discepoli avevano interrogato Gesù sulla distruzione del tempio, percepita come la conseguenza di un giudizio divino e come la fine di un mondo: «Dicci, quando accadrà questo, e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi?» (Mc 13,4). Dopo l’ascensione e l’inizio delle prime persecuzioni, i cristiani riflettono sulle parole del Signore, accostandole ad alcune profezie dell’antico testamento. Quando verrà il figlio dell’uomo? Come Amos si era servito dell’immagine del canestro di frutta matura (Am 8,1-2) per annunciare l’approssimarsi della fine, così Marco utilizza l’immagine del fico che mette le foglie. Come si arriverà alla fine? La tribolazione che la comunità sta attraversando prelude alla gloria. L’evangelista afferma che non è possibile conoscere la durata di questo intervallo di tempo, ma sottolinea che l’attesa del Cristo deve caratterizzare comunque tutta l’esistenza cristiana.

La vita futura non è futura, perché oggi si entra in essa. Oggi, purché riconosciamo che la storia umana, nonostante i suoi limiti, si apre sull’eternità attraverso la pasqua di Gesù, e purché, di fronte al vacillare di ciò che credevamo incrollabile, ci rimettiamo alle parole sicure di colui che non cessa di venirci incontro ogni giorno.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Ger 29,11.12.14

Dice il Signore:

«Io ho progetti di pace e non di sventura;

voi mi invocherete e io vi esaudirò,

e vi farò tornare da tutti i luoghi dove vi ho dispersi».

Questi versetti compositi letti verso la fine dell’Anno liturgico, simbolo anche della fine degli eventi umani e tutta l’eucologia di questa Domenica ci orientano verso una riflessione che verte sulle realtà ultime. I versetti sono tratti da un testo più ampio, una lettera di Geremia agli esuli di Gerusalemme a Babilonia (29,4-15) con cui il profeta rivela i propositi di Dio che sono di pace, di salvezza e non di tribolazioni, un futuro di speranza per il popolo (29,11).

Il Disegno divino per la salvezza del popolo al contrario delle ingannevoli previsioni umane è fondato sulla fedeltà indefettibile di Dio che esaudisce sempre e per questo occorre restare con il Signore e invocarlo con fede e fiducia. Gerusalemme è sull’orlo di una catastrofe che si approssima inesorabile, l’esercito del re Nabucodonosor, noi verso la fine della nostra vita a rendere conto della nostra esistenza.

Canto all’Evangelo Cf Lc 21,36

Alleluia, alleluia.

Vegliate in ogni momento pregando,

perché abbiate la forza di comparire

davanti al Figlio dell’uomo.

Alleluia.

 

Dal «discorso escatologico» di Luca l’Alleluia riprende l’esortazione del Signore ai suoi discepoli, affinché preghino molto e assiduamente, e operino le opere buone, e così finalmente siano degni di essere ammessi alla presenza del Figlio dell’uomo che viene all’ultimo dei tempi, e ricevuti da Lui e introdotti nel Regno del Padre suo.

Si sta approssimando l’Avvento e la liturgia inizia ad assumere i toni dell’attesa». Le ultime Domeniche del Tempo per l’Anno, assolutamente privilegiato, il più forte dell’Anno liturgico, hanno un movimento che corre verso l’escatologia. Questo è ben visibile nelle Domeniche XXXII e XXXIII dei Cicli A e C, e in questa Domenica del Ciclo B. D’altra parte, come si è spiegato più volte, la Resurrezione è «l’Evento» iniziale e finale, escatologico per eccellenza, dopo cui si deve solo attendere il Signore che viene. La Resurrezione pervade per intero l’Anno liturgico e lo spinge Domenica per Domenica ad una forte tensione escatologica: altrimenti non avrebbe senso che l’assemblea confessi la sua fede così: «Acclamiamo la tua Morte, Signore, proclamiamo la Resurrezione tua, attendiamo la tua Venuta », e poi preghi il Padre così: «Padre nostro, sia santificato il Nome tuo, venga il Regno tuo, sia fatta la Volontà tua». Infine, il Lezionario, che va conosciuto prima di ogni altro libro liturgico (e non liturgico…) della Chiesa e la sua paziente analisi mostra che se l’Anno liturgico, in un certo senso seguendo le leggi della vita umana, ad un certo punto deve terminare, andare verso l’Omega, tuttavia esso subito dopo ricomincia contro le leggi della vita umana, poiché il suo principio è di nuovo l’Omega. Infatti la Domenica I d’Avvento nei 3 Cicli proclama l’Evangelo della Venuta ultima del Signore Risorto, e la tremenda necessità di attenderlo degnamente.

Questa Domenica il Signore è contemplato mentre insegna come Profeta e Maestro divino la dottrina del Regno di Dio, nel suo adempimento. Il suo ministero messianico tra gli uomini si è concluso, e adesso Egli insegna solo ai discepoli, fino alla fine della sua Cena. Il Signore prende l’occasione dalla sollecitazione ingenua di uno dei discepoli, ammirato dalla grandiosità del tempio (Mc 13,1) e rivela le realtà terrificanti che avverranno alla fine del mondo e della storia con un “discorso” assai difficile e complesso, che è oggetto di riflessione da 2000 anni, e che si usa chiamare «discorso escatologico».

Nel «discorso escatologico (= delle realtà ultime)» (13,5-37), l’attesa del Signore che viene ci è proclamata con un linguaggio detto apocalittico; esso è un linguaggio molto particolare e assai distante dal nostro:

  1. Matteo lo propone in forma estesa (Mt 1,24 – 25,46) ma completa con 3 parabole di eccezionale importanza, le 10 vergini, i talenti, la Venuta del Signore nella gloria per il giudizio (25,1-46).
  2. Luca lo riporta secondo lo schema sostanziale di Matteo (Lc 21,5-37), ma distribuisce altro materiale assai importante lungo la sua narrazione (12,35-40, e 41-48; 17,20-37).
  3. Marco al solito segue il precedente Matteo e limita questo discorso all’essenziale (Mc 13,1-37).

L’ultimo grande insegnamento ai discepoli prima dei fatti della Passione, è un testo difficile, sia per le fonti letterarie pre-redazionali, sia per la lettura dei «segni» nella storia, sia per il significato dei particolari, sia per il senso generale, che a noi moderni appare sintetizzato nel: Quando?, che è la medesima domanda dei discepoli al v. 4.

Il discorso comincia con «Guardate che nessuno vi inganni», v. 5b, e finisce con l’estremo avvertimento: «Vigilate!», v. 37.

La divisione del testo può essere:

  1. i primi segni, vv.5-8;
  2. il grande segno della persecuzione «a causa del Signore e dell’Evangelo», 9-13;
  3. la Giudea desolata, vv. 14-18;
  4. la desolazione finale, vv. 19-23;
  5. la Venuta del Figlio dell’uomo, vv. 24-31;
  6. ignoto è il giorno, vv. 32-37»

Questa Domenica si legge la Venuta del Figlio dell’uomo, mentre i vv. 33-37, che chiudono il «discorso escatologico» con l’imperativo finale: Vigilate!, sono stati letti alla Dom. la di Avvento. Si salda così l’Omega con l’Alfa: l’inizio dell’Anno liturgico legge l’Omega, con «lettura Omega». Che significa?

Come abbiamo detto presentando l’Avvento, il Signore viene. Viene sempre. Resta con noi. Verrà. La celebrazione di lui Risorto ne segna il momento: «… ogni volta che mangiate questo Pane e bevete la Coppa, voi annunciate la Morte del Signore (Risorto) finché egli venga» (1 Cor 11,26), ossia: Affinché egli venga.

Ecco la tensione vigilante della comunità; altrimenti perché pregare «Venga il tuo regno?».

Il discorso è riportato anche dagli altri evangeli sinottici dove, se Marco ha raccomandato la perseveranza, Luca esorta principalmente alla speranza «perché si avvicina la vostra liberazione»; Matteo, invece, insiste sull’effetto della sorpresa. In Marco il discorso è rivolto, «in disparte», ai primi quattro chiamati (13,3) e si snoda attraverso un inestricabile intreccio di rivelazioni sul futuro (27 verbi al futuro) ed esortazioni e avvertimenti per l’oggi (abbiamo infatti 21 verbi  all’imperativo).

La pericope evangelica è senza dubbio il punto culminante di tutto il discorso; letterariamente infatti si presenta staccato e in opposizione a quanto detto fin qui (Cfr. il «ma» iniziale nella versione in greco e nella vulgata).

Anche il campo visuale è diverso, in quanto dal limitato spazio della Giudea (v. 14) si estende fino a comprendervi tutto il cosmo visibile e invisibile, al cui centro domina la figura del Figlio dell’uomo (v. 26)»

Esaminiamo il brano

24-25 – «dopo quella tribolazione»: per i sostenitori dell’interpretazione storica del tratto precedente, il v. 24 segnerebbe il passaggio alla fase propriamente escatologica del discorso». Molti riconoscono, tuttavia, che l’indicazione «dopo quella tribolazione» è troppo generica e del tutto insufficiente a delimitare tale passaggio.

«il sole si oscurerà»: i cataclismi ricordati qui e nel successivo v. 25 fanno parte dello stile profetico e apocalittico; le varie frasi che li descrivono, infatti, sono tutte riprese da testi profetici ( Is 13,9-10; 34,4; Ger 4,23-24; Ez 32,7-8; Gl 2,210; 3,4; 4,15; ecc. Cfr. anche Ap 6,12-14; 8,12).

Non pare, perciò, che tali frasi debbano essere interpretate alla lettera e riferite necessariamente alla fine del mondo. Di questo parere sono diversi esegeti, i quali a ragione fanno rilevare che potrebbero esprimere ugualmente bene l’avvento del regno messianico, concepito come il sorgere di un mondo nuovo (Cf. oltre al già citato Gl 2,10; 3,4; 4,15; Sof 1,14-15; Ag 2,6) e citano come esempio l’applicazione che l’apostolo Pietro fa di Gl 2,10 al giorno della Pentecoste (At 2,16-21).

26 – «il Figlio dell’uomo»: è un’espressione secondo una citazione del libro di Daniele, opera apocalittica del II sec. a.C. Gesù è spesso chiamato negli evangeli con questo titolo (Cfr. ad es. Mc 2,10; 8,38), che era stato caro nel VI sec. a. C. al profeta Ezechiele che lo usava per indicare se stesso (Ez 2,1.3.6.8; 3,1. ecc. ).

“Figlio dell’uomo” significa, di per sé, semplicemente “uomo”. Tuttavia nel citato libro di Daniele una figura misteriosa descritta come «simile a un figlio d’uomo» viene presentata a Dio «che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno che non tramonta mai e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto» (7,13-14). Probabilmente Daniele intendeva concentrare in questo personaggio “i santi dell’Altissimo”, cioè gli ebrei fedeli e perseguitati dal potere siro-greco del suo tempo, facendoli diventare il popolo messianico, investito di autorità da parte di Dio. La tradizione giudaica successiva aveva attribuito a tale termine un significato personale messianico: la figura del Messia risultava dotata di qualità altissime, superiori a quelle che comportava il titolo “Figlio di Davide”, divenendo quasi partecipe della sfera di Dio.

È per questo che Gesù l’assume per sé, sollevando scandalo nei suoi uditori, soprattutto in occasione del suo processo (Cf. Mt 26,64).

«giungere sulle nuvole»: il testo aramaico, ripreso da Mc 14,62, porta «giungere con le nubi del cielo», cioè insieme. La versione greca dei Settanta invece traduce «sopra le nubi», come nel testo cristologico di Mt 24,30; 26,64; Ap 14,16 (linguaggio frequente nelle teofanie Cfr. Is 19,1; Sal 18 (17),11). Nel primo caso dunque si tratta di una realtà terrena, innalzata fino alla presenza di Dio, nel secondo caso il misterioso personaggio sarebbe assomigliato a Dìo.

Le nubi secondo la concezione biblica, costituiscono il corteo di Dio (Cfr. Es 16,10; 19,9; 24,15; 34,5; Lv 16,2; Nm 11,25; ecc. ) e qui il carattere divino del Figlio dell’uomo è rafforzato dalla menzione della «grande potenza e gloria».

27 – «manderà gli angeli»: al contrario di altri testi, non sono qui ricordati né l’annientamento di Satana e dell’anticristo (Ap 20,10; 2 Ts 2,8) né il giudizio universale (Mt 13,36-43; 25,31-46), ma solo gli angeli, che hanno la missione di «riunire gli eletti».

Il verbo «riunire» è caratteristico di alcuni testi dell’AT. (Is 27,12-13; Zc 8,7-8), ove è collegato alla convinzione che alla fine del secolo presente Dio riunirà tutti i figli dispersi d’Israele da ogni parte della terra (Cfr. Dt 30,3-4; Is 11,11-16; Ger 23,3; Ez 11,17; ecc.).

Sulla bocca di Gesù, tuttavia, l’enunciato assume un significato diverso, perché passa ad indicare la comunità degli eletti, riuniti nell’unica fede in Cristo.

Secondo Gv 11,52 e Rm 15,16, questa riunione si è già in parte realizzata per mezzo della predicazione apostolica, quando individui di ogni nazione hanno accolto il messaggio evangelico.

«dall’estremità della terra … del cielo»: il primo è in senso orizzontale, il secondo in senso verticale; insieme esprimono l’universalità dello spazio, secondo la concezione e il modo di esprimere semitico.

28 – Nella disposizione del testo i quattro versetti che seguono hanno sicuramente la funzione di indicare la prossimità di accadimento delle cose predette fin d’ora. La critica letteraria vi riscontra scarsità di collegamento tra una frase e l’altra e suppone che i singoli detti siano stati pronunciati in circostanze diverse, ma imprecisabili. Noi, pertanto, leggeremo il testo così come giace.

«imparate»: l’imperativo aoristo comanda di iniziare un’azione; equivale a dire: incominciate ad imparare, prendete esempio.

«questa parabola»: più che di parabola, si tratta più propriamente di una similitudine, facilmente comprensibile, perché sotto gli occhi di tutti in Palestina. Durante l’inverno o stagione delle piogge il fico perde tutte le foglie, mentre i suoi nuovi germogli, a differenza di quelli precoci del mandorlo, segnano l’arrivo dell’estate (Cfr. Ct 2,12-13).

«sapete»: indicativo pres. 2pl; il presente ci dice che si tratta di cosa abituale: siete soliti riconoscere.

29 – «che è vicino»: porta la versione dal greco; il soggetto non è espresso e pertanto può riferirsi sia al regno di Dio (come nel passo parallelo di Lc 21,31), sia al Figlio dell’uomo che viene (v. 26), sia alla fine del mondo.

La scelta dipende dal tipo di interpretazione adottata per tutto il discorso.

L’esempio del padrone di casa nei vv. 34-36 farebbe pensare piuttosto al ritorno del Cristo.

«alle porte»: la porta di casa a due battenti; da qui il plurale. A proposito di attesa e di porte nella Bibbia abbiamo almeno due esempi di delicata bellezza: Ct 5,2 e Ap 3,20.

30 – «In verità vi dico»: così è in verità. Traslitterazione dell’ebraico “amen = certamente, veramente, sinceramente. Nell’uso del Giudaismo e della Chiesa si riferisce a ciò che precede (è posto alla fine di un discorso o di una preghiera); nelle parole di Gesù si riferisce sempre a quanto segue (è posto al principio), conferendo solennità alla formula. Quindi con essa Gesù è come se affermasse: «Io vi dico». Il suo insegnamento è impartito con autorità e autonomia. Mc lo usa 12 volte; Mt 30; Lc 5; Gv 25 ma nella forma raddoppiata: «Amen, amen».

«questa generazione»: il termine generazione (geneá) può avere due significati: il primo è quello di «razza o genere umano», inteso come complesso di tutti gli uomini (Ebrei inclusi in modo speciale). Il secondo è quello proprio di «generazione» in senso temporale, come quando diciamo che una generazione succede all’altra (sono gli uomini presenti al tempo di Gesù in Palestina). Chi ritiene che tutto il discorso presente sia unico nella sua struttura, (significato accettato sino al sec. XVI) conserva il significato primo (razza); chi invece lo divide in due parti (preferito da molti esegeti moderni), una riguardante la fine del mondo, l’altra la fine di Gerusalemme, sostiene il secondo significato (generazione presente in Palestina in quel tempo). Ritorna la medesima incertezza del v. precedente.

31 – L’affermazione ha valore assoluto per tutte le parole di Gesù, il quale deve aver pronunciato questa frase più di una volta (Cf. Mt 5,18; Lc 16,17; vedi anche Is 51,6; 54,10). Qui dovrebbe confermare la certezza della frase precedente (v. 30) ovvero tutte le cose affermate in questo discorso.

32 – «neppure il Figlio»: questo inciso, che sembra sminuire la perfezione della conoscenza di Gesù (in cui S. Paolo diceva, invece, che in lui «abitano tutti i tesori della sapienza e della scienza» : Col 2,3), dovette creare non pochi problemi alla fede dei primi cristiani. Questo è tanto vero che Luca omette tutto il versetto e non pochi copisti tralasciarono l’inciso nel testo parallelo di Mt 24,36. Ciò, però, conferma la genuinità del detto e spinge a ricercarne il significato preciso.

Il testo è indubbiamente difficile ed è stato sempre oggetto di gravi discussioni, specialmente a partire dalla polemica ariana. Tuttavia, anche a prescindere dalle varie spiegazioni che esso può ricevere, si deve dire che non tutto è negativo di quanto vi si dice, in primo luogo perché è Gesù stesso che vi si qualifica come Figlio, e in secondo luogo perché nell’ordine ascendente egli si pone al di sopra degli angeli (Cfr. 8,38; 13,27; Mi 25,31; Lc 12,8) e vicino al Padre.

Quanto al «non sapere» in se stesso, diverse sono le possibilità di intenderlo:

  1. S. Agostino, per esempio, riteneva che non rientrasse nel compito di Gesù che noi venissimo a conoscere da lui il giorno della parusia e quindi confessava di ignorarlo.
  2. Altri, specialmente in campo protestante, hanno pensato ad una conseguenza della kenosis o annientamento a cui il Figlio di Dio, secondo Fil 2,5-8, ha voluto assoggettarsi.

Probabilmente il verbo «conoscere» dovrebbe avere una sfumatura di significato piuttosto semitica. Scrive in proposito Alonso Diaz: «Non si tratta del sapere speculativo, ma di un sapere che equivale a prendere l’iniziativa e disporre di quel giorno (Cfr. per esempio, Sal 1,6: Il Signore conosce la strada dei giusti e distrugge la via degli empi). Tutto quello che si vuol dire in questo versetto è che le decisioni concernenti il regno di Dio sono riservate al Padre.

Qui termina bruscamente la pericope di oggi. Tuttavia va completata. L’importante da parte degli uomini, non è “conoscere”. Che sarebbe se ciascuno conoscesse giorno e ora della sua morte, se non una irrimediabile disperazione? Decisivo è ascoltare la Parola e obbedirla praticandola. Ora, qui la Parola esige che si vegli e si preghi.

L’Anno si chiude vegliando e pregando, ma la Domenica I d’Avvento del Ciclo B apre proprio con questa Parola (Mc 13,33-37), e non per caso la Domenica I d’Avvento del prossimo Ciclo C riapre con la medesima parola (Lc 21,25-28.34-36, qui il v. 36).

L’Anno della grazia si vive percependo la grazia, ossia vegliando e pregando.

Tutti, un giorno, abbiamo conosciuto una specie di fine del mondo: la guerra, la morte di una persona cara, un’improvvisa malattia, lo scontro con una società dura e a volte così poco umana. Sappiamo che è stato necessario ricominciare a vivere e a credere nell’estate guardando spuntare l’umile foglia del fico. A volte abbiamo reinventato il mondo come se si potesse attingere luce e forza dal futuro. Gesù non sapeva tutto. Era abbagliato dal sole di Dio, attraverso la caligine dei giorni minacciosi che venivano verso di lui. Diceva ai suoi amici il segreto nascosto nella precarietà del presente. Sta qui il messaggio luminoso delle parole apocalittiche di Gesù: oggi, qui, attraverso i successi e i fallimenti della vita, bisogna vivere la primavera di Dio. Ostinatamente.

II Colletta

O Dio, che vegli sulle sorti del tuo popolo,

accresci in noi la fede

che quanti dormono nella polvere si risveglieranno;

donaci il tuo Spirito,

perché operosi nella carità

attendiamo ogni giorno

la manifestazione gloriosa del tuo Figlio,

che verrà per riunire tutti gli eletti nel suo regno.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…