In questa IV Domenica di Quaresima il colore della liturgia attenua il viola del periodo penitenziale, lo sfuma, introducendo una pausa gioiosa con l’annuncio, nel Vangelo, della salvezza per l’umanità. E se nel Vangelo della scorsa domenica Gesù aveva accennato alla distruzione del tempio, alludendo alla morte del suo corpo, in questo nuovo vangelo Egli parla di “innalzamento” ossia di glorificazione (Gv 13,31)!
I versetti da 14 a 21 si inseriscono in un capitolo titolato “Colloquio con Nicodemo”. È infatti con Nicodemo che Gesù illustra la verità della salvezza e della vita eterna, difficile da comprendere da parte di chi ancora non crede. E non crede in particolare proprio in Lui quale Messia, Salvatore del mondo e “porta” per entrare nel Regno di Dio. Infatti, pur essendo ben disposto verso Gesù, Nicodemo non riesce che a riconoscerlo quale “maestro venuto da Dio” in virtù dei “segni” che fa.
Nicodemo è un capo giudaico, un “maestro in Israele” cha va a trovare Gesù di notte, ovvero di nascosto, probabilmente per timore delle critiche negative di molti suoi “colleghi”, capi giudaici e farisei, nella cui cerchia va maturando l’ostilità contro Gesù. Gesù userà termini molto duri (v.20) di fronte alla cura di nascondere le proprie azioni: “Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere”. Ma, soprattutto, Nicodemo con la sua logica terrena non riesce ad entrare in dialogo con Gesù che gli presenta la necessità di “rinascere dall’alto” per vedere/entrare nel Regno di Dio”! Si tratta di compiere un percorso spirituale ed esistenziale ancora ignoto all’erudito Nicodemo, di cui avremo però, in seguito, l’immagine positiva di chi sta comunque iniziando quel percorso (Gv 7,50 e 19,29).
Gesù, che vede nel cuore degli uomini, non rinuncia a rivelare proprio a Nicodemo, antesignano di tutti coloro che intraprendono un itinerario di fede, il dono di salvezza ch’Egli sta per offrire con la sua Morte e Resurrezione.
Partendo quindi da un testo dell’A.T., quale Numeri 21, Gesù, per parlare della salvezza legata alla sua morte in croce, fa riferimento al serpente di bronzo che Mosè, su comando di Dio, espose su un’asta alla vista degli Israeliti morsi da serpenti velenosi, affinché ne traessero salvezza. L’episodio si inserisce nella drammatica vicenda dell’attraversamento del deserto da parte di Israele in cammino verso la Terra Promessa. Cammino che è veramente un itinerario umano di speranza, ma costellato da cedimenti, impazienze, rancori e ribellioni a Dio, soprattutto quando sopraggiungono le tentazioni dei beni terreni, idoli sempre, ancor oggi, in agguato, di cui perennemente sfuggono la precarietà ed il vuoto di senso. Come il serpente salvifico di Mosè così “bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna”. Gesù annuncia con queste parole la salvezza donata agli uomini per mezzo della sua morte sulla croce elevata al cielo. Solo una cosa viene chiesta agli uomini, com’era chiesta agli Israeliti nel deserto: non distogliere lo sguardo dal Salvatore che realizza nell’Obbedienza la Volontà salvifica del Padre. “Quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, restava in vita” (Nm 21,9); “Infatti chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te, salvatore di tutti” (Sapienza 16,7); e ancora:” Non li guarì né un’erba, né un emolliente, ma la tua parola, o Signore, la quale tutto risana” (Sapienza 16, 12). Dio non ha eliminato i serpenti velenosi, incontrovertibile realtà del male che insidia la vita umana, ma invita gli Israeliti a guardare fuori da sé, in alto, fidandosi della sua promessa. A Nicodemo, ai discepoli, a tutti gli uomini Gesù, Parola incarnata, rivolge la stessa implicita esortazione a non distogliere lo sguardo da Lui, a “rimanere” in Lui, ad avere fede nella sua Pasqua, nel suo passaggio dalla morte alla glorificazione nella vita eterna. “Cristo è resuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la resurrezione dai morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo!” (1 Cor, 15-20)
Se confrontiamo l’annuncio della passione e morte che Gesù fa ai discepoli nei Vangeli sinottici (*) con questo annuncio del Vangelo di Giovanni, ci colpiscono due cose: la coincidenza del termine “dei ” = “ bisogna, è necessario”, riferito alla morte in croce di Gesù e la “originalità /unicità” del termine “sia innalzato”. Il fatto che tutti i Vangeli (Mt 16,21; Mc 8,31; Lc 9,22) sottolineano la necessità della morte di Gesù sta a significare che Dio non interviene a cancellare la realtà terrena della morte, ma per Amore degli uomini ha mandato il Figlio ad attraversarla e sottrarla alla sua apparente definitezza per mutarla in passaggio alla vita eterna. Se l’uomo per la sua natura creaturale è soggetto al male e alla morte e da solo non se ne può liberare, la morte in croce di Gesù è necessaria perché rientra nel piano di salvezza di Dio, com’era già stato detto nelle Scritture dai Profeti (Isaia, 53 tutto). “Ecco il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato” (Is 52,13).
Così la morte di Gesù si rivela quale atto di Obbedienza del Figlio (“Servo sofferente e fedele” in Isaia) nel realizzare l’Amore del Padre per tutte le creature e la Sua Volontà di renderle partecipi della Gloria trinitaria. Bene allora il Vangelo di Giovanni laddove sostituisce la morte in croce, segno di obbrobrio per la mentalità mondana, con il termine innalzamento, allusivo al trono regale che attende il Cristo Risorto alla destra del Padre: “Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte…” (Is 53,12)
Mistero centrale e cardine della fede cristiana è la morte e resurrezione di Cristo e la fede in Lui è condizione indispensabile per entrare nel suo Regno ed avere la vita eterna. Il Padre che ci ama non chiede né sacrifici, né penitenza, né intransigenza morale, né tanto meno sforzi per superare i propri umani limiti, tant’è che “non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”. La condizione indispensabile è la fede in Cristo, nella sua Parola. Perché se non si crede, ci si autoesclude dalla salvezza. Il Vangelo di Giovanni non configura la “condanna” del non credente come “fuoco eterno”, ma come “rinuncia” alla luce ed alla gioia eterna. Tenere lo sguardo fisso su Gesù innalzato e credere nella sua Resurrezione, che promette e anticipa la nostra resurrezione, equivale a trovare il senso della vita nell’attesa della vita eterna.
La conclusione del brano odierno riprende il motivo, tracciato nel Prologo, del conflitto Luce- Tenebre e sottende un monito che ci mette in guardia dal ritenerci già salvi in quanto credenti, diversamente da chi, ancora, o, solo apparentemente, non crede. La logica mondana da cui siamo purtroppo tutti pervasi, quali esseri limitati e soggetti al fascino delle tentazioni, ci spinge a preferire le tenebre alla luce. Solo se continuamente “rinasciamo nello Spirito” possiamo trovare la forza per lasciarci guidare da Lui e, facendo memoria delle Parole e dell’agire di Gesù, operare, come Lui, secondo la Volontà del Padre e giungere alla Luce.
Commento a cura di Vanna – Comunità Kairos
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