DOMENICA «del LEBBROSO»
Quando Israele è diventato «saggio» ai propri occhi, ha creduto di poter stabilire sicuramente una volta per sempre e per ogni possibile situazione che cosa fosse la volontà di Dio, e il singolo uomo ha creduto di dover difendere la vita umana non più in un popolo, e dunque preoccupato contemporaneamente della vita dell’altro, ma di sé solo, allora il dialogo della vita si è isterilito in un soliloquio autosufficiente. La Legge non era più mezzo ma dominatrice sull’uomo. L’obbedienza non era più una ricerca, ma la minuziosità di un fare. Si arriva così all’aberrazione dell’uomo che si difende dal fratello radiandolo dalla cerchia dei suoi rapporti, in nome della legge di Dio. Quel che risulta dalla prima lettura, è che la Legge — per mezzo della quale Israele era chiamato a cercare di interpretare la volontà di Dio per ogni suo nuovo «oggi» — vegliava a difendere la vita dell’uomo nella comunità: anche le primordiali norme di igiene e prevenzione contro le malattie, erano accolte come la voce stessa del Dio dell’alleanza che si prendeva cura della incolumità del suo popolo. Giacché la vita del popolo era originata e riposava continuamente sulla fedeltà della provvidenza di Dio, ogni gesto di vita era interpretato come obbedienza alla volontà di lui. È a questa originaria funzione della Legge, in riferimento al dialogo vivo tra Dio e il suo popolo, che si ricollega Gesù nel suo atteggiamento verso le leggi ebraiche, compiendole e insieme, necessariamente, superandole.
Se dunque il comandamento di Dio era legge sempre in vista e in ordine alla liberazione dell’uomo nel suo più autentico essere, Israele aveva il compito di cercare ogni giorno di nuovo il modo con cui obbedire: poiché in se stessa la formulazione della legge non era nulla di assoluto, ma era storicamente condizionata. E in tal modo Israele ha di fatto vissuto l’osservanza della Legge, fino a che la sua vita è stata un dialogo vivo e comunitario con il Dio dell’alleanza, conosciuto a partire dai fatti della storia di ogni giorno.
Un uomo lebbroso si presenta a Gesù. Non è ossequiente alle leggi, ma crede disperatamente nel Dio di Gesù. Crede che lui può essere il sacerdote nuovo, vero, capace come il primitivo sacerdote di interpretare la volontà del Dio vivo, di essere mediatore della sua liberazione. Quell’uomo lebbroso è, contro la legge, obbediente alla fede. Là dove l’uomo da sé non potrebbe che respingere, disgustato e pauroso di contagio, l’altro uomo alienato dal peccato e dal male (cf. prima lettura), l’atteggiamento di Dio è totalmente diverso: la verità dell’uomo, posta senza difese dinanzi alla verità di Dio, si trasforma — nonostante tutto — in canto beato di liberazione (cf. evangelo e salmo responsoriale).
Il salmo responsoriale: Sal 31,1-2.5.11 AGI (Azione di grazia individuale)
Il Versetto responsorio: «La tua salvezza, Signore, mi colma di gioia» canta al Signore che dona sempre la gioia della salvezza.
Il Salmista esordisce, in ebraico alla lettera «o felicità dell’uomo che…», tradotto «beato l’uomo» con due beatitudini, che sono chiamata alla felicità. La prima beatitudine è riconosciuta e applicata al peccatore perdonato dal Signore, del quale il Signore generosamente ha come nascosto il peccato, nel senso che non ne tiene più conto (v. 1). La seconda, in parallelismo, al peccatore a cui il Signore propizio ha condonato le mancanze, ha riammesso alla santità, e quindi adesso è un uomo privo di animo ingannatore (v. 2). Ma l’Orante esprime anche la sua condizione personale. Egli confessò il peccato al Signore, lealmente gli espose ogni sua mancanza, davanti a Lui aprì tutto il suo animo pentito (v. 5). Fu perdonato, e perciò adesso chiama i suoi fratelli, che riconosce come giusti, come retti di cuore, e manifestare al Signore la loro gioia e la loro gloria di suoi fedeli (v. 11).
Il contesto del nostro brano evangelico rimane sempre quello degli inizi della vita pubblica del Signore che battezzato compie la missione del Padre che è l’annuncio del Regno, il compimento delle opere del Regno per la liturgia sponsale dell’umanita col Suo Sposo.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 30,3-4
Sii per me difesa, o Dio, rocca e fortezza che mi salva,
perché tu sei mio baluardo e mio rifugio;
guidami per amore del tuo nome.
Nel Signore l’Orante trova l’Aiuto, la Fortezza inespugnabile, la sua sola salvezza (v. 3b). Solo il Signore è invocato quale Forza e Rifugio (Is 25,4; Ger 16,19), in virtù dell’alleanza fedele. Così il Signore per amore del Nome suo (Sal 22,3) è il sicuro e stabile Condottiero dell’Orante e di noi oggi che lo invochiamo, l’unico da cui l’umanità trae la sussistenza vitale, il cibo (v. 4).
Canto all’Evangelo Lc 7,16
Alleluia, alleluia.
Un grande profeta è sorto tra noi,
e Dio ha visitato il suo popolo.
Alleluia.
Questo versetto ricorda la resurrezione del figlio unico della vedova di Naim dove la folla esclama che finalmente è venuto in mezzo al popolo del Signore il Profeta annunciato e promesso e molto atteso.
Anche nell’evangelo un segno prodigioso (vedremo che è una “resurrezione”) che sempre rivela, annuncia, celebra il Risorto, si tratta di un lebbroso, una terrificante malattia che rende il malato come un reietto, fuori della società degli esseri normali.
Questo racconto della guarigione di un lebbroso chiude il gruppo letterario dedicato agli inizi del ministero galilaico, preparando in qualche modo il successivo gruppo delle controversie che vanno da 2,1 fino a 3,6.
La narrazione è priva di un’introduzione che ci permetta di sapere il luogo, il momento e altri particolari della guarigione; Marco non ha collegato il racconto del miracolo, recepito dalla tradizione (cfr. sinottici), con la pericope precedente (cfr. Mt 8,1). La storia della guarigione dal punto di vista stilistico è una perfetta relazione di miracolo:
- l’ammalato si presenta a Gesù in atteggiamento di supplica;
- Gesù lo guarisce con un gesto e una parola;
- segue la dimostrazione della guarigione,
- la notizia del fatto si diffonde.
Il miracolo è rivelatore della potenza di Gesù, ma soprattutto dell’irrompere del regno di Dio nella sua persona. La guarigione di un lebbroso nell’ambiente giudaico era paragonata alla risurrezione di un morto; l’evangelo di Mt 11,5 ricorda la purificazione dei lebbrosi assieme ad altri gesti come un segno del compimento del tempo messianico predetto dai profeti.
Esaminiamo il brano
40 – «un lebbroso»: la lebbra era una malattia assai comune; ma non pare che nella Bibbia si tratti sempre di quella forma grave conosciuta dalla medicina moderna (morbo di Hansen, dal nome del medico norvegese che per primo nel 1881 ne isolò il bacillo), giacché il Lv 13 (cfr. la lett.) si suppone la sua guarigione molto frequente. La Bibbia sotto questo termine raccoglie diverse affezioni della pelle di gravità decisamente inferiore e giunge fino al punto di identificare la lebbra delle case, degli abiti e del cuoio, cioè la formazione di muffa, salnitro e licheni. Più comunemente doveva trattarsi di semplici malattie della pelle, le quali tuttavia incutevano un certo terrore, perché contagiose. Nel nostro caso non vi sono indizi sicuri per determinarne la natura; ma il modo in cui viene riferito l’episodio induce a credere che fosse vera lebbra.
Secondo la concezione ebraica veterotestamentaria la lebbra era la forma più grave di impurità cultuale: sotto l’aspetto spirituale la lebbra spesso era considerata come un castigo della giustizia divina. Un esempio esplicativo di tale pensiero lo troviamo nel brano che riproduce il Midrash halakico al Levitico (Sifra)[1], un commento al Lv 14,2-5 (v. allegato di Gunter Stemberger, Il Midrash. Uso rabbinico della Bibbia. Introduzione, testi, commenti, EDB, pag. 193-209). Si tratta di una predica letteraria il cui tema di fondo è dato dall’interpretazione morale della lebbra, intesa come conseguenza o immagine del peccato, specialmente della maldicenza e della calunnia, come viene indicato dal racconto della lebbra di Maria (cfr. Nm 12,10-15; altri testi citati sono: 2 Sam 3,29; 2 Re 15,5; 2 Re 5,27; Es 32,25 e Lv 13,44; Gen 12,17).
La guarigione della lebbra era considerata alla stregua della resurrezione di un morto, una azione che solo Dio poteva compiere. Chiarificatrice è la reazione del re d’Isrele alla lettera del re arameo che lo prega di guarire la lebbra del suo ministro Nàaman (cfr. 2 Re 5,7).
L’avvento dei tempi messianici prevedevano l’eliminazione di questo flagello (cfr. Is 35,8; Mt 11,5 e Lc 7,22). La malattia non era più contagiosa di altre ma la concezione che legava peccato e malattia, la presentava come segno di un delitto infame per cui il lebbroso era considerato in pratica uno “scomunicato”, da cui stare lontano per evitarne il contagio sia fisico che morale, (cfr. vv. 45-46 della 1a lett.; e la sezione III del Sifra, dove specialmente gli esempi in C mostrano quali conseguenze potevano avere per i malcapitati l’interpretazione moralistica di una malattia).
«lo supplicava in ginocchio»: Uno di questi impuri infrange le restrinzioni impostegli dalla legge e viene da Gesù. Lo stare in ginocchio è la posizione di colui che prega e che si abbandona completamente in chi ha il potere di guarire con la sola volontà: «Se vuoi, puoi guarirmi».
41 – «Mosso a compassione»: avviene la compassione di Gesù; il verbo greco splanchnízomai, risente della mentalità semitica, giacché indica propriamente lo sconvolgimento di amore nell’interno, nelle viscere (splàchna), considerate come la sede dei sentimenti, e viscere materne, ebr. Rahamim. È un verbo riservato in genere a Dio che ama e si commuove come una madre amorosa per i suoi figli.
Nella nostra lingua abbiamo qualcosa di simile quando parliamo di «amore sviscerato».
La recensione occidentale, rappresentata dal Codice di Beza, sec. VI, Cambridge, ha «mosso ad ira» (orgistheis), che contraddice all’atteggiamento poi assunto da Gesù. È un problema di critica testuale.
Qual è la lezione originale? (Si è pensato anche alla fusione di due racconti diversi).
Data la notevole antichità del soggetto, secondo la legge della lectio diffìcilior per cui la trasformazione da «mosso a compassione»ad «adirato» lungo la tradizione del testo è molto più improbabile del processo opposto, si dovrebbe ammettere che la lezione originaria è «adirato».
A favore del «commosso», tuttavia, c’è il peso dei migliori manoscritti e il fatto che i copisti non hanno alterato altri passi che presentano Gesù «adirato» (3,5; 10,14). Gesù inoltre si mostra compassionevole in altri due episodi di guarigione (6,34; 8,2) e nel trattamento del ragazzo indemoniato (9,22).
Come intendere ora questa espressione? Forse Gesù è adirato contro il lebbroso che ha infranto la leggi della purità di Lv 13,44ss.? Oppure la sua ira è contro la potenza del maligno e il peccato che si manifesta nella lebbra?
Il contesto e l’esperienza in altri episodi simili (cfr. ad esempio la guarigione dell’emorroissa Mc 5,25-35) ci autorizza a rivolgere il moto d’ira nei confronti della legge ebraica che trasformava un bisognoso di misericordia in uno “scomunicato”, condannandolo alla segregazione.
«stese la mano, lo toccò e gli disse»: Avviene un fatto inaudito: Gesù osa toccare il lebbroso, e così agli occhi di tutti fatalmente è considerato lebbroso anche lui.
Prima di tutto egli assume su di sé la drammatica condizione dell’uomo: «Non ha apparenza né bellezza… per le sue piaghe siamo stati guariti (leggi Is 53,2-5. il 4° carme del “servo di Jahveh”). Il servo del Signore diventa “lebbroso” (piagato) per noi.
In 2 Re 5,10-14, Naaman, che viene curato dalla lebbra eseguendo l’ordine di Eliseo di lavarsi nel Giordano sette volte, all’inizio va in collera perché Eliseo non si è limitato a passare la sua mano sulla lebbra. In contrasto con Eliseo, Gesù tocca il lebbroso e in tal modo colma il divario tra il santo e l’immondo.
«lo toccò»: la mano che tocca l’ammalato è un gesto frequente di guarigione (cfr. 1,31; 7;33; 8,22) e simboleggia il passaggio della forza risanatrice; la Santità tocca la miseria e non si contamina, tocca la contaminazione e la distrugge.
«gli disse: lo voglio, guarisci »: con queste parole Gesù supera radicalmente le guarigioni della lebbra che si trovano nell’AT. Eliseo potè soltanto promettere la guarigione a Nàaman il Siro se si fosse lavato nel Giordano (2 Re 5,10); Gesù invece comanda con autorità, con la sua volontà. La guarigione effettiva viene operata dalla parola di Gesù più che dal gesto di toccare la persona.
42 – «Subito la lebbra scomparve»: L’immediatezza della guarigione sottolinea il carattere straordinario. La guarigione è immediata (kai euthys) e completa, il che è normale per gli esorcismi e le guarigioni di Gesù.
«ed egli guarì» questa aggiunta evidenzia la potenza di Gesù che fa accadere secondo la sua volontà ciò che succede.
43-44 – «ammonendolo severamente lo mandò via»: In contraddizione con quanto ha appena fatto, colpisce subito l’allontanamento rude e severo del povero guarito con l’ordine di perentorio di tacere.
Fatto apparentemente incomprensibile all’esegesi, questo gesto ha un senso di durezza che non si può e non si deve mitigare, proprio per fedeltà al dettato evangelico.
Questo versetto tuttavia è davvero un cumulo di problemi. Il participio iniziale, embrimēsámenos, letteralmente significa «sbuffare» o «ringhiare» o anche «brontolare» ed è più adatto per gli esorcismi. Il termine usato per congedare l’uomo guarito (ekbállō lett. «mandar via») è quello più frequentemente usato per «scacciare» i demòni (1,39; 3,15.22-23; 6,13; 7,26; 9,18.28) ed in altri passi compare con una connotazione negativa (5,40; 11,15; 12,8).
Perché mai Gesù avrebbe dovuto «scacciare» il lebbroso guarito che aveva già toccato? E ancora, nel versetto seguente l’uomo che apparentemente era stato congedato in modo brusco è ancora presente, e le parole di Gesù in questo caso non suonano affatto come un congedo brusco. Alcuni studiosi vedono nel versetto il residuo di una tradizione precedente nella quale la guarigione era un esorcismo, tenuto conto dello stretto legame tra malattia e possessione diabolica (vedi anche 7,24-30 la siro-fenicia; 9,14-29 l’epilettico indemoniato).
«ammonendolo severamente»: è la traduzione della CEI del verbo embrimáomai. La traduzione di questo verbo per la verità è molto più diffìcile; può tradurre una gamma di emozioni che vanno dal “fremere di collera, infuriato, sbuffante” (cf. Mc 14,5) all’assumere un tono severo (Mt 9,30) fino al turbamento che provoca commozione (cf. Gv 11,33. 38).
Verbo discusso nel suo significato, ma che indica fondamentalmente una reazione che si manifesta gradualmente, dall’interno all’esterno, come un profondo gemito, sempre più distinto: ciò può essere provocato sia dall’ira contro qualcuno, sia da una commozione o per altri motivi.
Per capire meglio continuiamo nella lettura della reazione di Gesù al miracolo appena compiuto.
«lo rimandò»: lett. “subito lo cacciò fuori”; qui Marco utilizza lo stesso verbo usato per indicare la cacciata dei demoni (exebalen; cfr. 1,34.39; 3,15.22).
Il racconto sembra sottolineare la seconda reazione di Gesù quasi in contraddizione con la prima: in realtà le cose stanno ben diversamente!
la ipotesi: Gesù quasi forzato dalla sua pietà a compiere il miracolo è venuto meno ad un piano prestabilito (conservare un prudente silenzio sulla sua persona) e subito vivacemente, obbliga il lebbroso ad allontanarsi e a tacere perchè il segreto messianico sia conservato. Raccomandazione inutile!
«non dire niente»: Questo comando di tenere la cosa segreta dato in forma alquanto solenne è evidenziato dall’uso della doppia negazione mèdeni meden («niente a nessuno»). Questo versetto contiene però anche un certo contrasto perché Gesù manda il lebbroso guarito dal sacerdote al quale non potrà tener nascosta la sua precedente condizione e l’avvenuta guarigione.
Siamo di fronte a quello che gli esegeti chiamano il segreto messianico di Gesù, l’epifania velata; Gesù lo richiede perché vuole che dalla esperienza e ammirazione per i fatti straordinari (Mc 1,14-8,26) si passi alla comprensione più profonda e alla sequela di lui, vero messia e vero Dio (Mc 8,27-15,39).
2a ipotesi: la compassione che aveva portato Gesù a compiere il miracolo era un misto di compassione e di ira per la miserevole condizione nella quale era costretto a vivere il lebbroso. L’eccitazione che prende Gesù subito dopo il miracolo (oltre all’aver restituito l’uomo ad un consesso umano e liturgico) si rivolge verso coloro che lo avevano condannato.
«presentati al sacerdote »: Anche lo stesso ordine di andare dai sacerdoti per fare l’offerta, secondo le prescrizioni legali (cfr. Lv 14,1-32), dissente con la guarigione operata da Gesù con un gesto contrario alle norme rituali di segregazione (cfr. Lc 17,11-19 i dieci lebbrosi).
Ai sacerdoti tuttavia spettava dare l’attestato di riammissione nel consorzio sociale.
«a testimonianza per loro»: la frase più che ai sacerdoti sembra riferirsi al popolo in genere, a cui l’interessato doveva presentare la dichiarazione dell’avvenuta guarigione.
Facendo quanto prescritto dalla legge, l’uomo dimostrava a tutti di essere stato guarito perfettamente mediante l’opera di Gesù (cf. Mc 6,11 e 13,9).
Non si deve credere al prodigio compiuto da Gesù, anzi deve restare nascosto, ciò che si deve sapere è che l’ammalato è guarito, prova e testimonianza del tempo nuovo.
Il lebbroso non tace ma fa tale pubblicità della sua guarigione da trasformare paradossalmente Gesù quasi in un lebbroso; perché è lui adesso a non poter più entrare pubblicamente in una città e a dover stare fuori in luoghi deserti. Si direbbe che l’evangelista senta gusto nel mostrare come veramente Gesù facesse ogni sforzo per presentarsi a tutti nell’umiltà del «Servo di Jahveh» e tuttavia c’era in lui tale virtù di Spirito Santo che diffìcilmente il mistero della sua persona potava restare nascosto per intero, giacché qualcosa di lui traspariva sempre, nonostante tutto;
[? Leggi la Liturgia di domenica prossima]
Antif. Comunione Sal 77,29-30 (DSt)
Hanno mangiato e si sono saziati
e Dio li ha soddisfatti nel loro desiderio,
la loro brama non è stata delusa.
Si ricorda il cupo episodio dell’esodo quando Israele che aveva mormorato contro il Signore ebbe cibo in abbondanza, ma cadde nella punizione della morte.
Qui è letto positivamente con un’ardita applicazione: l’ascolto della Parola e la Mensa sono il Convito del Regno, che porta la divina sazietà. Donando le sue delizie il Signore attua i desideri del cuore dei fedeli.
I Colletta
O Dio, che hai promesso
di essere presente in coloro che ti amano
e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola,
rendici degni di diventare tua stabile dimora.
Per il nostro Signore …
II Colletta
Risanaci, o Padre,
dal peccato che ci divide,
e dalle discriminazioni che ci avviliscono;
aiutaci a scorgere anche nel volto del lebbroso
l’immagine del Cristo sanguinante sulla croce,
per collaborare all’opera della redenzione
e narrare ai fratelli la tua misericordia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
La I colletta chiede che come Dio promette di abitare dentro cuori retti e sinceri, così dia ai suoi fedeli la sua grazia per cui possa degnarsi di dimorare in essi.
La II colletta invoca ancora la misericordia del Padre perché ci mondi dal peccato e così comprendendo la visione del Figlio in Croce possiamo annunciarlo risorto collaborando alla missione Sua.
[1] Midrash halakico: è un testo letterario contenente la spiegazione di un libro del Pentateuco, ad eccezione della Genesi che non contiene leggi religiose. Sifra: il commento al Levitico ha lo stesso nome del libro cui è dedicato e cioè Sifra (in aramaico «libra»), evidentemente perché il Levitico costituiva il primo libro di scuola su cui si imparava a leggere e a scrivere.
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano