Ogni anno la liturgia ci introduce nella Settimana Santa contemplando Gesù che entra a Gerusalemme acclamato come il Messia. Questo episodio mi interroga sempre molto, pensando all’estrema renitenza, al pudore più profondo, all’ostinato silenzio che Gesù ha tenuto, per tutta la sua vita, riguardo al suo essere il Messia, soprattutto per non alimentare attese sbagliate nel popolo. Ma ora è Lui stesso che prende l’iniziativa nel porre i segni della proclamazione messianica della sua persona, proprio ora che questa figura rischia di essere più equivocata che negli altri momenti della sua vita. Infatti siamo nei giorni della Pasqua, quando, nei Giudei, la celebrazione della liberazione dell’Egitto si coniugava senza soluzione di continuità come istanza di essere liberati dai romani.
E siamo nei giorni che precedono l’arresto e la passione di Gesù, di cui Lui aveva piena coscienza: la proclamazione messianica non rischiava di alimentare false attese anche nei suoi discepoli? Come tenere insieme la figura della «re che viene nel nome del Signore» con quella del disgraziato appeso alla croce con la scritta «costui è il re dei Giudei»? Possiamo attribuire tutto alla colpevole volubilità della gente che prima lo acclama e poi lo condanna? Certamente il «popolo» cerca sempre vittime da sacrificare. Perché la gente ama il potere e adora chi lo esercita, come appare in modo chiarissimo oggi, nella nostra società. Al contrario, la gente detesta il debole perché è uno specchio di se stessa, nel quale non vuole riflettersi: da qui l’intolleranza, la disumanità e il razzismo dei nostri giorni. Ma, proprio per questo, Gesù non doveva essere più avvertito e più prudente nel farsi proclamare il Messia, all’ingresso di Gerusalemme e all’ingresso della Pasqua?
Eppure, il racconto evangelico è chiarissimo nell’indicarci che Gesù non si è lasciato prendere la mano dell’entusiasmo della gente, bensì è Lui che ha provocato tutto: dei 12 versetti di cui è composto il brano, i 9 iniziali sono dedicati alla descrizione di ciò che Gesù stabilisce che deve avvenire e poi effettivamente avviene. È Lui che provoca e governa gli avvenimenti. E quando, alla fine del racconto, i farisei lo invitano a rimproverare i suoi discepoli per le proclamazioni messianiche che affermavano di Lui, Gesù dice perentoriamente: «Se questi taceranno, grideranno le pietre». È perciò evidente che è Gesù stesso a voler essere riconosciuto come Messia, a Pasqua e prima della sua Pasqua.
Certamente la simbologia messianica di cui si fa regista rinvia a una figura di inviato di Dio che non è come i re della terra: non si serve dell’autorità e della forza. È un Messia debole e povero, come avevano profetizzato i testi antichi, scritti in quelle epoche nelle quali si era tragicamente sperimentata la durezza e la cattiveria del potere umano, quando questo si faceva più assoluto e totalizzante. In tali contesti non si poteva pensare a un Dio che intervenisse a favore del suo popolo essendo più forte negli eserciti, nelle armi, nelle strategie politiche che asservivano la gente. Così la coscienza di fede si alimentava di valori di non contrapposizione, di non violenza, di apertura positiva, di fraternità, che solo un Messia che arrivava su un povero puledro preso in prestito – invece che sui carri da guerra – poteva portare. La pace non la possono realizzare le armi, la fraternità non si può instaurare con la divisione.
Perciò Gesù ci tiene in modo essenziale di rivestire tale figura di Messia e si fa Signore degli eventi così piccoli come il prevedere di trovare un puledro e far sì che venga lasciato in prestito dai suoi proprietari.
Dunque un Messia così diverso dalle logiche umane, ma, comunque e soprattutto, un Messia. Evidentemente Gesù vuole essere riconosciuto come tale soprattutto in quello che vivrà da ora in avanti: le mani che laveranno i piedi ai discepoli saranno quelle del Messia, il corpo che verrà legato come quello di un delinquente sarà quello del Messia, le accuse che gli verranno mosse saranno quelle di essere il Messia, il capo che verrà percosso sarà quello del Messia, le membra che verranno inchiodate alla croce saranno quelle del Messia, l’umanità piena che risorgerà da morte sarà quella del Messia.
Per noi cristiani, quello che ci unisce di più e, insieme, ci distanzia maggiormente dall’Israele della fede è proprio la figura del Messia: per loro e per noi è il tutto della fede, solo che loro lo attendono ancora, mentre noi lo contempliamo in un povero uomo crocifisso, il Figlio di Dio. Non so dire se la scommessa nella quale ci giochiamo sia più grande per loro oppure per noi.
Signore, sia loro che noi ti attendiamo: loro per veder cambiare il mondo, noi per riconoscerlo già cambiato.
Stiamo per vivere la settimana della Passione, che ci chiama a riconoscere la realtà umana trasformata dagli eventi che celebriamo in essa. E’ la Passione di un Messia totalmente impastato con la condizione umana da assumerne tutta la tragedia e la sconfitta. Ma è il Messia: Colui che Dio ha consacrato e inviato. Quindi è Colui in cui Dio si riconosce pienamente in ordine al suo piano di salvezza per l’umanità. Oggi, tutti coloro che cercano e trovano il consenso della gente, in sostanza, si presentano come nuovi e veri messia: «Io lavoro per risolvere tutti i vostri problemi e per garantirvi un futuro di felicità…». Il vero Messia, Gesù, non ha risolto i problemi immediati della gente né ha promesso la felicità facile delle pubblicità.
Invece, con la sua morte in croce, ha demolito una religione fatta di prescrizioni e di leggi, armi in mano alle buone anime contro i pubblici peccatori, e ha aperto la strada ad un’umanità che, seppur minoritaria, sa assumere la cura dei poveri e degli emarginati. In questi giorni penso molto alle persone che, in silenzio e con amore, si adoperano per aprire un futuro nella nostra società a quelli che, per solo odio, vengono rifiutati dai falsi messia e da chi li segue.
Buona Settimana Santa a tutti.
A cura di Alberto Vianello – Monastero di Marango