Commento al Vangelo di domenica 12 Settembre 2021 – Comunità di Pulsano

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DOMENICA «DELLA GUARIGIONE DEL SORDOMUTO»

L’opposizione dei farisei cresce, gli erodiani complottano per uccidere Gesù, il Battista è stato decapitato. Gesù predice che seguirà la stessa sorte dolorosa dei profeti. Ma per Pietro e gli apostoli questo discorso è inaccettabile. La loro difficoltà è anche la nostra, ogni volta che la croce, da semplice ornamento, diventa una sconcertante realtà della nostra vita; sempre pronti a riaffermare in astratto la nostra fede, ma poi sempre cosi restii a riconoscere che anche l’insicurezza e la sconfitta sono rivelatrici del disegno salvifico di Dio.

Chi è Gesù Cristo? Che cosa significa essere cristiani? La domanda è sempre attuale. La persona di Gesù non ha mai mancato di suscitare interrogativi nella gente, fin da quando egli era ancora su questa terra. Sorpresi dall’autorità della sua parola, alcuni dicevano: «Costui non è il figlio di Giuseppe, il carpentiere?».

Altri vedevano in lui un sedizioso, un contestatore, o addirittura un uomo posseduto dal demonio. Altri ancora lo consideravano un profeta. Pietro non ha dubbi: Gesù è il Messia, e sarà il liberatore, il salvatore di Israele. Ma quale liberazione, quale salvezza porterà al suo popolo? Quando Gesù svela ai discepoli che il suo destino passerà attraverso la croce, Pietro insorge, attirandosi subito un severo rimprovero: «La tua idea sul Messia è quella degli uomini, non quella di Dio!». Gesù non è il messia politico atteso dalla gente; la sua opera non può essere rinchiusa in nessuna ideologia umana.

E oggi, che cosa si dice di Gesù? È un Gandhi, un Martin Luther King, un Che Guevara? È un Gesù superstar, idolo passeggero o evasione di moda? Fermarsi a quello che si dice di Gesù significa condannarsi a non saper cosa pensare di lui. Per cogliere qualcosa del suo mistero, bisogna aprirsi alla domanda personale che egli pone a ciascuno di noi: Per te, chi sono io?

Una somma di conoscenze acquisite su di lui non potrà mai sostituire la conoscenza personale di Gesù, la condivisione sempre più completa della sua vita, fino a perdere se stessi, fino ad incontrare un giorno, con lui, la propria croce. La croce è il momento della verità per il cristiano, è la verifica del suo essere veramente discepolo di quel Messia inatteso, nascosto sotto le fattezze di un servo sofferente. La logica dell’amicizia e dell’amore non porta forse a condividere la vita di colui che si ama? È una vocazione di amicizia, di amore con Gesù quella a cui siamo chiamati. Essere cristiani non è altro che questo.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Cf Sir 36,18

Da’, o Signore, la pace a coloro che sperano in te;

i tuoi profeti siano trovati degni di fede;

ascolta la preghiera dei tuoi fedeli

e del tuo popolo, Israele.

L’epiclesi iniziale (Sir 36,18, adattato) chiede la pace per quanti sono trovati fedeli al Signore, affinché anzitutto siano fedeli alla loro missione i «profeti», i porta-parola di Dio nella comunità e al mondo. L’epiclesi finale sigilla la richiesta, insistendo sull’ascolto da parte del Signore delle preghiere dei servi suoi e del popolo suo Israele.

Canto all’Evangelo Gal 6,14

Alleluia, alleluia.

Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore,

per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso,

come io per il mondo.

Alleluia.

Il canto all’Evangelo ci invita ad accogliere la gioiosa proclamazione dell’Evangelo di Resurrezione nell’acclamazione dell’Apostolo, che si gloria solo della Croce del Signore, sulla quale fu crocifisso il mondo e i suoi peccati, ma anche lui fu crocifisso e morì al mondo e alle sue vanità rovinose.

Lungo il Tempo per l’Anno, privilegiato tra tutti gli altri perché è il Tempo più forte, la Chiesa celebra il suo Signore e Sposo Risorto nel suo Mistero, mentre Lo contempla in uno degli episodi della sua Vita tra gli uomini, quando insegna, o opera, o prega. Questa Domenica Egli insegna come Profeta e Maestro divino la dottrina del Regno di Dio e la fede in forza della quale esso si debba conseguire.

Il Signore da Betsaida porta i discepoli fuori del territorio palestinese, a Cesarea di Filippo, sotto l’imponente Monte Hermon, in una regione pagana, celebre per le fonti che vi nascevano, e che erano dedicate a culti idololatrici (Mc 8,27a). Il cammino a piedi dura qualche giorno, ed è tipico per poter colloquiare in modo agevole e familiare.

L’Evangelo di Marco narra la Vita del Signore tra gli uomini in due riprese, alle quali grosso modo la Trasfigurazione (9,2-13) fa da cerniera. Nella prima parte si è manifestato come il Battezzato dal Padre con lo Spirito Santo e consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al Padre suo, e come Sposo per acquistarsi la Sposa d’Amore e di Sangue. Ai discepoli che Lo seguono e alle folle che gli si fanno intorno il Signore appare come un Uomo mite e buono, ammirato per i suoi discorsi sapienti e ricercato per i prodigi mirabili con cui sfama i poveri, e i miracoli che sui malati e sui posseduti dal demonio opera senza clamore e nulla chiedendo in compenso, un uomo ancora mai visto, che fa nascere alcune speranze sul Messia atteso.

In realtà, il Signore passa predicando per annunciare l’Evangelo del Regno e chiedendo quindi la conversione del cuore e la fede (Mc 1,14-15), il che significa di seguire Lui accettando di essere missionari del Regno.

Di fatto, il Signore come punto d’arrivo della sua Vita sulla terra, del suo stesso ministero messianico, ha la Croce e come meta finale la Resurrezione. Ma si ritrova con soli “Dodici”, che in realtà saranno i capi di un gruppo di alcune decine (come è presentato in At 1,14-15), dentro cui si debbono contare alcuni parenti e alcune Donne fedeli (Lc 8,1-3). Insieme, ha la stretta necessità di far proseguire l’opera della sua redenzione a partire dalla predicazione messianica, con l’annuncio della Croce e della Resurrezione, che è «l’Evangelo» per definizione (Mc 16,15). Quindi ha la stretta necessità di trovare discepoli fedeli, che esprimano la loro fede in Lui anche solo incipiente e che poi dopo la Resurrezione accettino di portare l’Evangelo ai confini del mondo. E a questi può cominciare a rivelare la sua sorte prossima, la Croce e la Resurrezione. E a rivelare quale debba essere il discepolo suo in vista del Regno.

I lettura: Is 50,5-9

Il profeta, perseguitato dai suoi compatrioti, affida la sua difesa, a Dio stesso, perché è proprio per lui che sta soffrendo. Così sarà di Gesù Cristo, che accoglie le ingiurie affinché il cuore dell’uomo sia purificato dall’odio. L’amore deve seguire la logica impietosa della croce: morire per l’odio degli altri, affinché gli altri rivivano per il nostro amore.

Nei vv. 4-11 del cap. 50 di Isaia si identifica il «III° canto del Servo sofferente» (gli altri sono: I) 42,1-9; II) 49,1-6; IV) 52,13 – 52,12). La rivelazione donata al Servo va in crescendo: dal dono dello Spirito del Signore, che lo costituisce nella sua missione profetica e regale per il popolo e per le nazioni, di essere alleanza e Luce (I°canto), alla conferma di questo (II° canto), alla prospettiva del fallimento della sua missione tra gli uomini, ma confermata davanti al Signore (III° canto), alla morte volontaria e redentrice alla quale il Signore lo chiama quale culmine della sua missione, che adesso si rivela anche sacerdotale (IV° canto). Vedi anche la Domenica delle Palme.

Il Servo proclama qui, all’inizio, che il Signore stesso per la sua missione gli ha donato l’orecchio docile all’ascolto della sua Parola e la lingua abile nel predicarla per dare sostegno agli sfiduciati (v. 4, non si sa perché qui espunto). E ripete anzitutto l’autenticità della sua missione, che viene dalla Parola che il Signore gli ha donato, aprendo anche il suo orecchio, ossia rendendolo aperto alla Parola, docile e consapevole all’ascolto. E poi dotandolo della fedeltà a questa sua missione, poiché egli si fa obbediente e non si tira indietro spaventato dalle difficoltà (v. 5; Gv 14,31; Fil 2,8: Ebr 5,8: 10,7).

Per questo non ha mai indietreggiato e non sì è sottratto neppure alla violenza anche fisica di chi lo rigettava mentre annunciava la Parola divina e lo percuoteva nel corpo e sul volto, e lo irrideva; egli ha subito anche gli sputi, che rendono impuro per il culto (v. 6; poi 53,5; Lc 6,29; Mt 26,67-68; 27,26; Lc 22,63; Mc 15,19; Gv 19,1).

Egli ha l’irremovibile fede nel Signore, il suo Aiuto, che non permette che resti confuso, ossia deluso e disperato (v. 7a; 49,23; Sal 24,3; Dan 3;40). Anzi egli ritenne tutto questo come motivo di forza e si diede un volto insensibile ai colpi, come di pietra durissima, quale si richiede dai Profeti (Ez 3,8-9; Ger 1,18). Così esattamente fece Cristo Signore quando dopo la Trasfigurazione cominciò il suo itinerario verso Gerusalemme (Lc 9,51). Il Servo ha la salda sicurezza che non resterà confuso (v. 7b).

E si pone egli stesso come una roccia che nessuno sposta. Conosce bene che gli sta sempre vicino il Signore come Aiuto che non viene meno (Rom 8,33-34), che lo rende “giusto” e quindi misericordioso e paziente, e sfida il mondo degli uomini: chi potrà mai contraddirlo? Chiama alla contestazione giudiziaria il nemico, sicuro che questo, per il suo torto e per la sua falsità nell’accusa, sarà condannato (v. 8). Il Signore sta in alto come suo Aiuto, che si fa presente a lui anche nel giudizio. Così sfida di nuovo: chi potrà mai condannarlo? (v. 9a). Gesù ripeterà questo di sé (Gv 8,56; Pr 20,9). Tutti gli avversari saranno consumati come un vestito vecchio (42,16; Mich 7,8), essi saranno divorati e disfatti dalla tignola inesorabile (v. 9b).

Il Salmo responsoriale: 114,1-2.3-4.5-6.8-9, AGI

Il  Versetto responsorio: «Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi» (v. 9), fa cantare all’assemblea la gioia di vivere davanti al Signore.

L’Orante per rendere grazie al Signore esordisce nel salmo con una dichiarazione d’amore verso di Lui: «Io amai!» (come il Re messianico, Sal 17,2: “Ti amo Signore mia forza”), e con la riaffermazione della sua fede: per questo il Signore esaudisce sempre la sua preghiera (v. 1; Sal 65,19; 117,21). Egli tiene sempre il suo orecchio teso all’ascolto del suo fedele (Sal 30,3), e l’Orante durante la sua esistenza Lo può sempre invocare con fiducia (v. 2). Questo anche quando intorno a lui si levarono a stringerlo i dolori della morte che sembrava imminente e senza scampo (come per il Re messianico, Sa 17,5), e ormai si vedeva nel pericolo di essere ingoiato dagli inferi, la «terra del non ritorno», il «luogo della tenebrae della polvere». Tanto più, poi, che, intorno a lui che cercava sollievo, trovò solo tribolazione e lo sconforto del dolore (v. 3). Ma allora il suo scampo unico fu invocare il Nome del Signore (Sal 98,6; 14,1; 115,13.17; 117,5; e anche qui, come il Re messianico, Sal 17,7): «Signore, libera l’anima mia!», ossia, salva la mia vita (v, 4). Lì e allora il Signore si manifestò quale è, il Misericordioso (Sal 85,15), ossia Colui che interviene con bontà e senza merito del chiedente e insieme il Giusto (Es 9,27; Esr 9,15; Neh 9,8.33; Ger 12,1; Dan 6,7; Sal 118,137; 128,4; 144,17), Colui che ha come proprio la bontà spontanea e soccorrevole per riportare gli innocenti nella condizione della vita degna di vivere secondo la sua divina Volontà (v. 5).

In realtà il Signore custodisce i suoi piccoli e umili, innocenti e indifesi, come è l’Orante, che giunse alla massima umiliazione infertagli dagli uomini e tuttavia il Signore venne a liberarlo (v. 6), e scampò la sua vita dalla morte (Sal 48,16; Dan 3,88), asciugò soavemente il suo pianto e rese il suo piede fermo, in modo che non scivolasse nell’abisso (v. 8). In questo modo il Signore si compiacque di farlo vivere alla sua presenza, nella gioia dell’esistenza ritrovata, in mezzo agli uomini viventi (v. 9; Sal 26,13; 55,13).

Esaminiamo il brano

27 – «Gesù partì con i suoi discepoli»: l’evangelista sente il bisogno di presentare i personaggi che saranno in primo piano nel racconto del viaggio (8,27-10,45) visto che in Mc 8,22-26 né Gesù né i suoi discepoli sono nominati espressamente.

«verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo»: Il termine «villaggi» si riferisce ai piccoli centri abitati (come «sobborghi») intorno a una città più grande. Situata sulle falde meridionali del monte Ermon e vicina ad una delle sorgenti del fiume Giordano, questa zona rappresenta la punta settentrionale del territorio d’Israele. L’imperatore Augusto aveva dato la città (che allora si chiamava Panion, dal nome del dio greco Pan) a Erode il Grande. Il figlio di Erode, Pilippo, ricostruì la città e le cambiò il nome in onore dello stesso imperatore (di qui Cesarea di Filippo, da non confondere con Cesarea Marittima sulla costa del Mediterraneo).

«per la strada»: Il viaggio intrapreso da Gesù e dai suoi discepoli andrà da Cesarea di Filippo (8,27) a Gerusalemme (11,1).

Lungo il percorso ci saranno:

  1. una fermata al monte della Trasfigurazione (9,2),
  2. un’attraversata della Galilea (9,30)
  3. e una fermata a Cafarnao (9,33),
  4. l’arrivo nella regione della Giudea
  5. e oltre il Giordano (10,1),
  6. la risoluta volontà di salire a Gerusalemme (10,33)
  7. e l’arrivo a Gerico (10,46).

Più importante dell’itinerario geografico, tuttavia, è l’itinerario spirituale nel quale i lettori di Marco sono portati ad affrontare il mistero della croce e le relative implicazioni per il modo di essere discepoli.

«interrogava… dicendo»: Ci si aspetterebbe che fossero i discepoli ad interrogare il maestro. In 8,27-30 il verbo dominante è «dire» (legein) e diverse affermazioni sono introdotte con il doppio verbo «dire»: «interrogava… dicendo» (v 27b), «risposero dicendo» (v. 28a), e «Pietro rispose dicendo» (v. 29b).

28 – «Giovanni il Battista… Elia… dei profeti»: La stessa serie di identificazioni popolari di Gesù si è avuta nell’introduzione al resoconto della morte di Giovanni il Battista sotto Erode Antipa (Mc 6,14-15). Dato che Gesù aveva ricevuto il battesimo di Giovanni (Mc 1,9) e ad un certo momento era stato in relazione con il movimento di Giovanni e condivideva con lui almeno alcune delle sue aspettative riguardo alla venuta del regno di Dio, non è sorprendente che Gesù dovesse essere identificato con Giovanni risuscitato dai morti. Le tradizioni che riguardano la misteriosa dipartita di Elia (2 Re 2,1-12) e il suo ruolo come precursore del «giorno grande e terribile del Signore» (Ml 3,23) probabilmente avevano portato alla speculazione che Gesù, come il profeta del regno di Dio, fosse Elia (ma vedi Mc 9,11-13).

Era del tutto naturale che Gesù, che sosteneva di parlare in nome di Dio dell’imminente venuta del suo regno, fosse considerato un profeta. Ci potrebbe anche essere un accenno al Gesù visto come il profeta di cui Mosè parla in Dt 18,15. In ciascuna di queste identificazioni c’è sì un fondo di verità, ma l’identità di Gesù è molto più complessa di quello che ognuna di esse riesca a far intravedere.

I discepoli amano il loro Maestro e credono di fargli piacere rispondendo quanto pensano «gli uomini» di Lui, non sapendo ancora che al Signore non interessa il concetto su di sé di una folla interessata più ad avere da Lui che a seguirlo; così oggi si va ai santuari celebri, luoghi di raccolta di fondi immani, e si implorano grazie e si lasciano offerte, poi si torna, in questo poco “seguendo” il Signore (l’ammonimento severo di Gv 4,21-22).

28 – «Pietro gli rispose»: Come spesso accade nell’Evangelo di Marco (vedi 8,32; 9,5; 10,28; 11,12), Pietro è il portavoce dei discepoli di Gesù. Ricordiamo che per i sinottici era stato tra i primi discepoli ad essere chiamato (1,16-20) ed il suo nome è primo nell’elenco dei Dodici (3,16). Non così per il IV° Evangelo.

«Tu sei il Cristo»: Il greco christòs e l’ebraico mashiah significano entrambi «l’unto». Nell’A.T. i sacerdoti, i profeti e i re venivano unti con olio in riti che contenevano anche l’idea della loro elezione divina. Ai tempi di Gesù il termine Messia/Cristo/Unto non era affatto univoco e perciò si può giustamente parlare di varie forme di giudaismo con i rispettivi messia. Tuttavia, una delle forme di messianismo più diffuse nel periodo del Secondo Tempio è rappresentata dalla speranza di un futuro re davidico che avrebbe ristabilito la giustizia e il benessere per il popolo di Dio. Un tale messia avrebbe naturalmente costituito una minaccia per i funzionari romani e per i loro collaboratori giudaici nel territorio d’Israele. Considerato quello che Gesù aveva fatto (in particolare i suoi prodigi) e detto (la rivendicazione di essere Figlio di Dio, il suo ruolo centrale nel piano di Dio e i suoi detti riguardo al Tempio), è probabile che molti effettivamente vedessero in Gesù questo genere di messia – e comunque questo è ciò che ci suggerisce Marco (vedi 1,1).

30 – «E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno»: Dal punto di vista storico sarebbe stato pericoloso se i discepoli si fossero messi a proclamare che Gesù era il Messia, poiché ciò avrebbe mandato su tutte le furie le autorità romane e giudaiche. In effetti, tali speculazioni popolari possono aver contribuito a creare il clima che ha portato alla morte di Gesù (vedi Mc 14,61). Dal punto di vista narrativo e teologico di Marco invece i discepoli (e i lettori di Marco) hanno ancora bisogno di chiarimenti riguardo al genere di messia che Gesù è in realtà e quali siano le implicazioni della messianicità di Gesù per i suoi discepoli (non certamente quella di essere i governanti di un regno terreno). Durante il racconto del viaggio il segreto messianico verrà svelato almeno in parte: Gesù è un Messia sofferente.

30 – «E cominciò a insegnare loro»: Marco usa il verbo ausiliare archesthai («cominciare») ventisei volte in tutto l’Evangelo e due volte qui in due versetti successivi (erxato). Preso atto della confessione di Pietro che lui è il Messia, Gesù adesso comincia a spiegare la vera natura della sua messianicità e ciò che essa comporta per i suoi seguaci. E infatti «cominciò a istruirli» con una vera rivelazione, che sarà ripetuta tre volte quasi con le medesime parole, ma in crescendo via via che si avvicina il termine (qui, e in 9,31-32; 10,32-34), e sarà allusa di continuo, fino alla Cena. Ora questa divina “istruzione” si deve imprimere nell’anima dei discepoli per sempre, perché deve diventare il contenuto della loro predicazione futura al mondo: «Si deve che il Figlio dell’uomo molto soffra, e sia sconfessato dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi, e sia messo a morte, e dopo tre giorni risorga».

è una vera profezia e si vede bene dalla sua oscurità, e da una sua certa genericità, come sono le profezie antiche, che non precisano date e luoghi. Perciò non è un testo inventato dagli Evangelisti dopo i fatti visti e accertati, che avrebbero così arricchito e meglio spiegato. La profezia riguarda diversi fatti. Anzitutto il «Si deve» è il déi greco, una forma impersonale per indicare che il Disegno divino del Padre, che il Signore cerca di non nominare per venerazione, sta in opera, e che corre al suo adempimento, e che non conosce ostacoli nella volontà umana.

«il Figlio dell’uomo»: Usato per l’ultima volta in 2,28, questo titolo di Gesù diventerà di spicco anche nel seguito del racconto (vedi 8,38; 9,9.12.31; 10,33.45; 13,26; 14,21.41.62). È usato in tutte e tre le predizioni della passione (8,31; 9,31; 10,33-34). Nell’AT (Ezechiele e Daniele) non c’è un collegamento diretto tra il Figlio dell’uomo e la sofferenza.

«doveva soffrire molto»: Il verbo impersonale déiè necessario»), usato qui per la prima volta, ha la connotazione di un determinismo apocalittico e diventerà sempre più importante con il progredire del racconto (vedi 9,11; 13,7.10.14; 14,31). Introduce l’idea della volontà divina man man che il piano di Dio si concretizza nella passione di Gesù e negli eventi della fine dei tempi (usato tre volte nel cap. 13). Preannuncia anche la preghiera di Gesù nel Getsemani quando egli riconosce ed accetta la sua morte imminente come volontà di Dio (vedi 14,36). Tutto ciò accadrà secondo la volontà di Dio.

«ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi»: Nel racconto marciano della passione questi tre gruppi costituiscono gli istigatori dell’opposizione giudaica a Gesù. I farisei, tanto attivi nelle controversie con Gesù durante il suo ministero pubblico, nel racconto della passione non compaiono. Gli «anziani» rappresentano i capi giudaici, probabilmente membri del sinedrio ed altre personalità influenti. I «capi dei sacerdoti» sono in primo luogo Anna e Caifa, e poi i dirigenti del personale del Tempio. Gli «scribi» sono gli «intellettuali», non solo esperti nell’arte di scrivere e leggere ma anche versati nella sapienza tradizionale e nella Torah (la legge dei Giudei); per una descrizione dello scriba ideale vedi Sir 39,1-11.

«venire ucciso»: Lo stesso verbo apokteinein è usato anche nelle altre due predizioni della passione (vedi 9,31; 10,34).

«e, dopo tre giorni, risorgere»: La terminologia usata più frequentemente nel N.T. per la risurrezione di Gesù è «il terzo giorno» (vedi Os 6,2) e «essere risuscitato» (passivo divino). Nelle predizioni marciane della passione invece viene sempre usato «dopo tre giorni» (a quanto pare computando le frazioni del venerdì santo e della domenica di Pasqua come giorni interi) e il verbo anastenai («risorgere») al posto di egeirein («essere risuscitato»). È abitudine considerare Mc 8,31 e 10,33-34 come predizioni della passione, ma queste raggiungono il loro punto culminante in relazione alla risurrezione di Gesù.

32 – «Gesù faceva questo discorso apertamente»: L’imperfetto elalei indica un’azione ripetitiva da parte di Gesù (vedi 2,2; 4,33). L’avverbio parresia deriva dal sostantivo che significa «coraggio, franchezza», e qui ha il senso di «apertamente, palesemente». Ciò nonostante, i discepoli non capiscono cosa Gesù voglia dire.

«Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo»: Il motivo esatto di questo intervento di Pietro non è specificato, ma il contesto indica che Pietro non riesce a fare il collegamento tra il Messia (8,29) o il Figlio dell’uomo (8,31) e la sofferenza. Vedi per contro Mt 16,16-22, dove Pietro amplia e puntualizza la sua confessione dell’identità di Gesù («il Cristo, il Figlio del Dio vivente», 16,16b) ed è chiamato «fortunato» per essere il destinatario di una rivelazione divina, facendo inoltre una dichiarazione esplicita riguardo alla morte di Gesù («Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai», 16,22).

33. – «Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro»: Mentre Pietro vuole che il suo rimprovero a Gesù sia in privato («in disparte»), quello che Gesù rivolge a Pietro deve essere fatto davanti ai discepoli come testimoni, facendone in tal modo un’occasione di insegnamento. I due rimproveri sono collegati dal verbo epitiman, un termine usato in precedenza nel contesto di un esorcismo (1,25) e per sedare la tempesta (4,39).

«Va’ dietro a me, satana!»: Il linguaggio usato ricorda Mt 4,10. Ma naturalmente il racconto marciano delle tentazioni di Gesù è molto più breve (1,12-13) e non riporta questa frase. Il verbo ebraico satan significa «nemico, avversario» colui che «mette alla prova» o «tenta», che esprime bene il ruolo del personaggio Satana in Giobbe 1-2 e Zc 3,1-2. Ai tempi del N.T. la figura di Satana diventa il principio del male nella lotta cosmica che condiziona la storia umana fino al momento dell’eschaton (vedi Mc 1,12-13). Rifiutandosi di accettare il piano di Dio che prevede un messia/Figlio dell’uomo sofferente, Pietro si schiera sul versante sbagliato della lotta.

«non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini»: Per una costruzione analoga con il verbo phronéō vedi Rm 8,5 («Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito») e Col 3,2 («pensate le cose di lassù, non quelle della terra»). L’accusa che Gesù rivolge a Pietro ricorda ai lettori di Marco che la storia di Gesù ha una portata cosmico-escatologica, tema che è già stato presentato nel prologo (1,1-13).

34 – «Convocata la folla insieme ai suoi discepoli»: Le istruzioni seguenti sul tema dell’essere discepoli sono intese non solo per coloro che sono già discepoli ma anche per tutti coloro che vogliono saperne di più e magari entrare a far parte del movimento di Gesù.

«Se qualcuno vuol venire dietro a me»: Il verbo akolouthéō («andar dietro», «seguire») è stato il termine preferito da Marco per diventare discepoli di Gesù fin dalla chiamata dei primi discepoli (vedi 1,18; 2,14-15).

«rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»: Il significato fondamentale di aparnéomai («rinnegare se stessi») è l’agire in modo disinteressato e rinunciare ad essere al centro di tutto. Il riferimento alla croce (staurós) evoca immediatamente in noi (e certamente anche nei primi lettori di Marco) il pensiero della crocifissione e fa risaltare la fondamentale dinamica dell’intero racconto del viaggio: quelli che vogliono diventare discepoli devono essere disposti a condividere il «cammino» di Gesù, il Messia/Figlio dell’uomo sofferente. Il detto riguardo alla croce evoca prima di tutto la situazione venutasi a creare dopo la risurrezione, ma non è escluso che lo stesso Gesù storico abbia usato questo linguaggio.

La crocifissione era una punizione pubblica inflitta ai ribelli e agli schiavi e il condannato era costretto a portare il braccio orizzontale della croce al luogo dell’esecuzione (vedi 15,21, dove Simone di Cirene viene costretto ad aiutare Gesù in questo compito).

La terza condizione («e mi segua») ripete la parola chiave dell’introduzione («venire dietro a me»). Mentre nel primo caso «seguire» si riferisce al fatto di diventare discepoli, nel secondo caso evidenzia l’importanza di perseverare nel seguire Gesù.

35 – «chi vuole salvare la propria vita, la perderà»: Il termine greco psychḗ rappresenta un problema per i traduttori, poiché può significare o «vita» o «anima». La traduzione tradizionale di «anima» ha connotazioni più filosofiche (specialmente platoniche) rispetto all’ebraico nepesh dell’antropologia semitica. D’altra parte traducendo psychḗ con “vita” (come fanno molte traduzioni moderne) probabilmente si dice meno di quello che intendeva dire Marco. Ciò di cui si parla è la sostanza intima della persona, ciò che costituisce l’«io», forse nel contesto marciano in una situazione di potenziale martirio. La terminologia del «salvare» e del «perdere» suggerisce che c’è anche una dimensione escatologica o dell’«aldilà» nel detto (vedi 9,1) e che è in palio qualcosa di più della felicità terrena e della pace del cuore al presente.

«per causa mia e dell’Evangelo»: Alcuni manoscritti omettono «mia». Sia Mt 16,5 che Lc 9,24 invece hanno «mia», ma né l’uno né l’altro hanno «e dell’Evangelo». Per altri casi in cui Marco usa euangélion nel senso del lieto annunzio riguardo alla morte e risurrezione di Gesù si veda 1,14.15; 10,29; 13,10 e 14,9 (vedi anche 16,15). L’espressione dice più di quanto appare. Poiché il Signore non è una realtà diversa dal suo Evangelo. Marco infatti comincia la sua narrazione con il titolo grandioso: «Principio dell’Evangelo di Gesù Cristo, il Figlio di Dio», un greco che fa trapelare l’ebraico, e che va interpretato così: «Come Principio eterno è l’Evangelo, che è Gesù Cristo, il Figlio di Dio». E il Principio eterno è nominato molte volte nella divina Rivelazione: Gen 1,1; Pr 8,22; Gv 1,1; 1 Gv 1,1. Chi vuole raggiungere Gesù Cristo deve toccare prima il suo Evangelo. Chi tocca l’Evangelo nella conversione sincera del cuore, raggiunge Gesù Cristo.

36 – «giova… guadagnare… perdere»: La terminologia commerciale mette in risalto il contrasto con la dimensione spirituale contenuta in psychḗ e conferma il fatto che il vocabolo significa qualcosa di più della “vita” intesa come sopravvivenza fisica in questo mondo.

37 – «in cambio»: Il termine antállagma («qualcosa dato al posto di», vedi Sir 26,14: «È un dono del Signore una donna silenziosa, non c’ è compenso per una donna educata») insiste sull’immagine commerciale e sul contrasto con psychḗ vista come l’aspetto più prezioso della persona (ossia, un qualcosa che non si può acquistare col denaro).

38 – «Chi si vergognerà di me e delle mie parole»: Vedi «per causa mia e dell’Evangelo» al v. 35. Alcuni manoscritti omettono lógos («parole», «insegnamento») ed hanno invece «di me e dei miei».

questa generazione adultera e peccatrice: Vedi Mt 12,39: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno!». Influenzata da diverse frasi dell’A.T. (Is 1,4; Os 2,4; ecc.), questa espressione (che nel N.T. si trova solo in questo passo) critica il comportamento morale e religioso dei contemporanei di Gesù (con l’«adulterio» forse preso a simbolo dell’idolatria e dell’apostasia come in Osea ed in altri passi dell’A.T.).

«il Figlio dell’uomo»: Mentre in 8,31 è usato nel contesto della passione e risurrezione di Gesù, qui il contesto è quello del giudizio escatologico. È possibile che a un certo momento nella tradizione pre-marciana «Figlio dell’uomo» si riferisse ad una figura gloriosa diversa da Gesù (come in Dn 7,13-14), ma per Marco il Figlio dell’uomo escatologico è Gesù. Questa identificazione è confermata da Mt 10,33: «Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

«quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi»: Questa «istantanea» della parusia di Gesù prelude a Mc 13,26 («Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria») e a 14,62 («E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio e venire con le nubi del cielo»). La presenza della frase a conclusione delle istruzioni di Gesù conferisce a tutto il suo insegnamento riguardo all’essere discepoli in 8,34-38 un’inquadratura escatologica (vedi Dn 7,13-14) e conferma che psychḗ deve significare qualcosa di più della “vita”.

II Colletta

O Padre, conforto dei poveri e dei sofferenti,

non abbandonarci nella nostra miseria:

il tuo Spirito Santo ci aiuti a credere con il cuore,

e a confessare con le opere che Gesù è il Cristo,

per vivere secondo la sua parola e il suo esempio,

certi di salvare la nostra vita

solo quando avremo il coraggio di perderla.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…