«Noi ci rivolgiamo ai pagani»: è una frase che ha cambiato la storia. Pronunciata da Paolo dinanzi ai Giudei che rifiutavano il suo annunzio della «parola di Dio», ovvero di Gesù Cristo, essa rappresenta il cambiamento radicale della strategia della Chiesa. Fino a quel fatto nella sinagoga di Antiochia, l’annuncio cristiano era stato rivolto dagli Apostoli principalmente ai Giudei: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio». Solo in realtà particolari e in situazioni episodiche, grazie alla spinta dello Spirito Santo, si era cominciato a parlare del Vangelo alle persone che non provenivano dalla religione ebraica (cfr. At 11,19-26). Da ora in avanti, invece, la predicazione evangelica sarà rivolta a tutti.
Non è il cambiamento di un piano pastorale: si parte dalla convinzione che «la parola di Dio non è incatenata» (2 tm 2,9). Perciò, se alcuni la rifiutano, questo è il segno che bisogna allargare gli orizzonti e avvicinarsi ai più lontani. Da un rifiuto è venuta una grande grazia (cfr. Rm 11,1-32), e noi ne possiamo godere in quanto non appartenenti, per origine, al popolo del Signore.
Oggi la partecipazione alla vita della Chiesa sta subendo un tracollo numerico: è sotto gli occhi di tutti. Invece di prolungarsi in piagnistei o sognare anacronistiche riconquiste, bisogna fare come i primi cristiani di cui ci parla il libro degli Atti degli Apostoli: bisogna rivolgersi ad altri orizzonti umani, caratterizzati dall’esclusione religiosa e dalla povertà umana. È così che la Chiesa si è diffusa in tutto il mondo per far conoscere Gesù Cristo. La religione tende spesso a chiudere, la fede, invece, poiché ricerca l’uomo nella sua ricerca di Dio, è sempre aperta a nuove strade.
Anche la seconda Lettura – parlando del frutto della Pasqua che è «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare», conquistata alla partecipazione alla vita divina – parla di un superamento di ogni frontiera.
Perché l’ampiezza non è data tanto dal numero incalcolabile, ma dalla provenienza da «ogni nazione, tribù, popolo e lingua». Significa che possono godere della salvezza tutti coloro che venivano considerati, per la loro origine e condizione, esclusi da essa: è questa estensione senza limitazioni umane e religiose che rende vasto l’orizzonte della fede.
Tutto ciò rivela l’efficacia della Pasqua di Cristo: la sua incisività sulla storia. A tutti gli uomini è donato di partecipare alla vita di Dio, rappresentata dalle «vesti candide», rese tali dal «sangue dell’Agnello»: la sua morte e risurrezione ha liberato l’uomo dalla definitività del male e lo ha aperto al bene di Dio. Per questo, tutti coloro che partecipano a questa «moltitudine immensa» presta un culto perenne a Dio, perché il Signore abita ormai in mezzo a loro («Stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro»). Le loro esigenze spirituali di vita, di verità e di giustizia saranno abbondantemente soddisfatte («Non avranno più fame né avranno più sete»), perché il Signore Gesù, l’Agnello, orienterà la loro vita umana alla pienezza («Sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita»). È Dio stesso che, così, si assume tutto il dramma e la pena umana, perché l’uomo, in qualsiasi condizioni si trovi, possa guardare con fiducia alla sua vita («E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi»).
Al tempo dell’Apocalisse, come al nostro tempo, la storia sembra consegnata nelle mani degli interessi di chi detiene ed esercita un potere che cura il proprio successo: pensiamo, oggi, al tema dell’ecologia, della giustizia, dell’economia, dell’uguaglianza. In verità, nel Signore e nella Pasqua di Gesù Cristo è avvenuto il totale ribaltamento della storia: questi poteri non hanno più il potere di vincere in maniera definitiva. Dio realizza il cambiamento che apre un nuovo futuro. Sta ai cristiani crederlo, viverlo e annunciarlo.
Sulla stessa linea è il brano del Vangelo. Dio esercita un potere vittorioso nella storia: il potere dell’amore. Gesù parla degli uomini come di pecore che nessuno può strappare dalla sua mano e da quella del Padre. Ebbene, la «mano» è simbolo, in Giovanni, dell’amore dato e ricevuto: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,35); «Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani», cominciò a lavare i piedi ai discepoli, segno di amore (Gv 13,3ss). È così che siamo tenuti dal Signore. E questo non determina un’appartenenza identitaria, ma una coscienza che non c’è peccato che possa strapparci da tale mano. La fede non è un antidoto contro il peccato, né un’assicurazione contro il male, è, invece, la sicurezza che siamo tenuti per mano sempre, e soprattutto quando sperimentiamo la caduta: «Il Signore rende sicuri i passi dell’uomo. Se egli cade, non rimane a terra, perché il Signore lo sostiene per la mano» (Sal 37,24).
Ma Gesù può affermare queste cose – proponendoci così di affidarci senza riserve a Lui – non perché fosse convinto di avere dei super poteri o perché si sentisse depositario di grandi onori, ma per il suo rapporto con il Padre. Quando, alla fine del brano, Egli afferma «Io e il Padre siamo una cosa sola», Gesù rivela di essere in grado di custodire e di non perdere nessuno, tenendo tutti per mano, perché è convinto di rimanere fondamentalmente nella relazione con il Padre, e, in questa relazione di amore, ogni credente è chiamato ad entrare e ad abitare. Gesù non ci comunica una forza, ma chi partecipa una relazione: quella del suo essere Figlio con il Padre celeste. È questa la «salvezza», da portare «fino all’estremità della terra».
A cura di Alberto Vianello – Monastero di Marango