AMORE DI DIO E RISPOSTA DELL’UOMO
La Quaresima è un cammino, un pellegrinaggio che ha per meta la Pasqua, la commemorazione annuale del mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù che si compì in Gerusalemme. Di questa città, la città santa, ci parla la la lettura per ricordarne la distruzione ad opera dei nemici del popolo eletto, quando «il tempio che il Signore si era consacrato in Gerusalemme», già contaminato dagli Ebrei, fu incendiato, demolite le mura, dati alle fiamme i palazzi e abbattute le case. A Gerusalemme andrà, dalle rive dei fiumi di Babilonia, il nostalgico ricordo dei suoi cittadini colà deportati, ricordo espresso in tono così accorato dal salmo responsoriale.
Al mistero pasquale, che ebbe per teatro Gerusalemme, si richiamano la seconda lettura e il Vangelo, per segnalare il modo con cui esso si realizza – l’«innalzamento» del Figlio dell’uomo sulla croce -, per rivelarcene la chiave, la spiegazione profonda – l’amore di Dio per gli uomini – e per indicarci la risposta che Dio attende, la fede sincera e operosa.
Una storia d’amore
La rivelazione dell’amore illumina il racconto della dolorosa vicenda di Gerusalemme distrutta, dei suoi abitanti uccisi o deportati nel paese nemico. «Il Signore Dio dei loro padri… amava il suo popolo e la sua dimora». Anche se i capi, i sacerdoti e il popolo si erano mostrati ingrati e infedeli, Dio non cessò di amarli: perciò «mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli». Al termine della lunga prova, poi, Dio si servirà d’un re pagano, Ciro, per restituire il popolo ebreo alla sua patria e ricostruire il tempio.
Amore che ammonisce, che, non ascoltato, permette la caduta della città e la deportazione con tutto il seguito di indicibili sofferenze, che, infine, fa spuntare il giorno della liberazione. E un invito a leggere la storia, quella di ciascuno di noi, dei gruppi umani e di tutta l’umanità, alla luce della fede, nella certezza che un divino disegno di amore opera, in modo misterioso, attraverso il groviglio delle vicende umane.
Ma la piena rivelazione dell’amore l’ascoltiamo da colui che il Padre ci ha dato con un atto d’infinito amore: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna». Qui è tutto il Vangelo, il «lieto messaggio». Il paradosso di un Dio che si fa uomo, dell’Eterno che chiude la sua esistenza in poco più di trent’anni, del Re della gloria che accetta lo scherno le torture il patibolo, è tutto qui: nell’amore che Dio ha per il «mondo», per tutti gli uomini, per ogni uomo.
[better-ads type=”banner” banner=”84722″ campaign=”none” count=”2″ columns=”1″ orderby=”rand” order=”ASC” align=”right” show-caption=”1″][/better-ads]
È l’amore che vuol salvare, liberare dal peccato. Un amore che giunge a un tale eccesso, commenta s. Giovanni Crisostomo, di un Dio che per salvarci non risparmia il suo unico Figlio, deve farci arrossire. Soprattutto, aggiunge, se si confronta con l’incoscienza di quei cristiani che coprono d’oro le livree dei servi e i finimenti dei muli e dei cavalli, mentre trascurano e guardano con dispetto il Signore che, nella persona dei poveri, se ne va in giro nudo, mendicando di porta in porta, tendendo la mano agli angoli delle strade. Aggiornandone le componenti, questo quadro, familiare al Crisostomo, non vale anche per il nostro tempo? Per esempio, per chi spende ogni giorno diverse decine di curo di carne per il suo cane? Vale, su scala mondiale, per quella «crisi di civiltà e di solidarietà» denunciata da Paolo VI ai partecipanti alla Conferenza mondiale dell’alimentazione (cf 2ª domenica di Quaresima).
È per amore, spiega s. Paolo, che Dio «ci ha fatti rivivere con Cristo», comunicandoci la «vita eterna», di cui parla Gesù, che ha inizio in questa esistenza terrena e avrà il suo compimento «nei cieli».
S. Paolo insiste sulla gratuità dell’amore, amore misericordioso perché si dona a chi ha peccato: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati». Come se non fosse stato abbastanza chiaro, esclude che la salvezza venga da noi, sia merito e conquista dell’uomo: «Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere perché nessuno possa vantarsene». L’insistenza di Paolo non è fuor di luogo neanche oggi, di fronte all’uomo che si proclama autosufficiente, negando Dio. Questo vale per l’ateo che considera l’uomo «fine a se stesso, unico artefice e demiurgo della propria storia», inorgoglito da «quel senso di potenza che l’odierno progresso tecnico immette nell’uomo»; che «aspetta la liberazione dell’uomo soprattutto dalla sua liberazione economica e sociale», e considera la religione come un ostacolo a tale liberazione. «Perciò i fautori di tale dottrina, quando arrivano a prendere in mano il governo, combattono con violenza la religione, e diffondono l’ateismo anche ricorrendo agli strumenti di pressione, di cui dispone il pubblico potere, specialmente nel campo dell’educazione dei giovani» (Gaudium et Spes, 20). Ma Paolo riprova anche l’orgoglio del «buon cristiano» che aspetta la salvezza dai propri meriti, pago di sé perché convinto di non fare male a nessuno e di fare tutto il bene che deve. Anche oggi, all’inizio della Messa, ci siamo riconosciuti peccatori; anche oggi, prima della comunione, pregheremo: «Rimetti a noi i nostri debiti». Siamo convinti che ne abbiamo bisogno, che solo il perdono d’un Dio che ci ama ci può salvare?
«Salvi mediante la fede»
La salvezza è dono, è grazia. Ma dono, grazia, fatti a un essere che Dio ha creato libero di accettare o rifiutare, di rispondere sì o no. Il sì che Dio attende dall’uomo è la fede. Per non morire, per avere la vita eterna, è necessario credere nel Figlio unigenito, mandato per amore dal Padre a salvare il mondo. Perciò Paolo non si contraddice quando, proclamata la gratuità della salvezza, dichiara: «Siete salvi mediante la fede».
Fede è accettare la parola di Dio come verità assoluta. Quella che troviamo nella Bibbia che la «Chiesa ha sempre considerato e considera, insieme con la sacra Tradizione, come la regola suprema della propria fede» (Dei Verbum, 21 ).
Fede che è ancora dono, poiché «per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente si conforma, accoglie non la parola degli uomini, ma, qual è in realtà, la parola di Dio, aderisce indefettibilmente “alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi” (Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica alla vita» (Lumen Gentium, 12). «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che pre-viene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”» (Dei Verbum, 5). Fede è fidarsi di Dio: del perdono ch’egli accorda ai suoi figli peccatori, dell’aiuto con cui sostiene la nostra debolezza, della bontà con cui esaudisce la nostra preghiera. È abbandonarsi fiduciosamente a Dio come nelle braccia d’un padre. È guardare a Cristo in croce come gli Ebrei colpiti dalla peste guardavano al serpente di bronzo innalzato da Mosè, per avere da lui, e non dai nostri meriti, il perdono, la grazia, la salvezza.
S. Agostino introduce così il commento alla menzione che fa Gesù del serpente innalzato da Mosè nel deserto: «Gesù allude ad un famoso fatto misterioso, ben noto a quanti hanno letto la Bibbia. Ma ascoltino anche quelli che non hanno letto l’episodio, e quanti, pur avendolo letto o ascoltato, lo hanno dimenticato. Il popolo d’Israele cadeva nel deserto morsicato dai serpenti, e l’ecatombe cresceva paurosamente. Era un flagello con cui Dio li colpiva per correggerli e ammaestrarli. Ma proprio in quella circostanza apparve un gran segno della realtà futura».
«Creati in Cristo per le opere buone»
Gli Ebrei furono puniti perché «moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio»; di più, richiamati da coloro che il Signore Dio aveva mandato «ad ammonirli, perché amava il suo popolo e la sua dimora… si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti». Ciò perché non vollero credere a Dio che parlava per mezzo dei suoi inviati, non si pentirono e continuarono nella loro condotta riprovevole. Dio li chiamava a credere, a desistere dal male, a operare il bene: il loro ostinato rifiuto meritò il castigo.
Si richiede la fede o le opere? La risposta non ammette dubbi: la fede e le opere. «La fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5,6). Questa parola di Paolo è confermata da quanto egli ci ha detto nella lettura di oggi. Dopo aver ribadito che la salvezza «non viene da voi, ma è dono di Dio, né viene dalle opere», soggiunge che siamo «creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo». Potrebbe essere più chiaro? S. Giacomo ripete la stessa cosa con un esempio concreto e sempre attuale: «Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa» (2,14-17).
È un avvertimento per chi fa della fede l’abito della festa che s’indossa per andare in chiesa, salvo poi a dimenticarsene durante la settimana, in famiglia, sul lavoro, negli affari, nella politica. E le «opere buone» sono i fatti concreti, l’impegno per gli altri, per chi è povero, malato, bambino o anziano privo di assistenza, oppresso, sfruttato, emarginato. Gesù denuncia chi «fa il male», si rende colpevole di «opere malvagie», e perciò rifiuta e odia la luce portata da lui e preferisce le tenebre. Ci insegna che dobbiamo «operare la verità». Cosa vuol dire? S. Agostino risponde: «Intendo dire che non inganni te stesso, non ti blandisci, non ti lusinghi; non dici che sei giusto mentre sei colpevole. Allora cominci a operare la verità, allora vieni alla luce, affinché sia manifesto che le tue opere sono state fatte in Dio. E infatti il tuo peccato, che ti è dispiaciuto, non ti sarebbe dispiaciuto se Dio non ti avesse illuminato e se la sua verità non te l’avesse manifestato».
Tratto da “Omelie per un anno 1 e 2 – Anno A” – a cura di M. Gobbin – LDC
ACQUISTA IL LIBRO SU
LEGGI IL BRANO DEL VANGELO
della IV Domenica del Tempo di Quaresima – Anno B
Puoi leggere (o vedere) altri commenti al Vangelo di domenica 11 Marzo 2018 anche qui.
- Colore liturgico: Viola
- 2 Cr 36, 14-16. 19-23; Sal. 136; Ef 2, 4-10; Gv 3, 14-21
Gv 3, 14-21
Dal Vangelo secondo Giovanni
14E come Mosé innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. 16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. 19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
- 11 – 17 Marzo 2018
- Tempo di Quaresima IV
- Colore Viola
- Lezionario: Ciclo B
- Anno: II
- Salterio: sett. 4
Fonte: LaSacraBibbia.net
LEGGI ALTRI COMMENTI AL VANGELO