DOMENICA «DELLA MISSIONE DEI DISCEPOLI»
In questi mesi estivi, verrebbe spontaneo accostare l’invio in missione dei Dodici all’esodo di tanti che partono per le vacanze con lo zaino in spalla e i sandali ai piedi, alla ricerca di un equilibrio così difficile da trovare in città. Ma la missione apostolica è qualcosa di ben diverso da un semplice ritorno alla natura.
Pur mantenendosi in disparte, attraverso l’invio dei discepoli Gesù vede allargarsi il raggio d’azione della sua influenza messianica: associati al suo compito e al suo destino, anch’essi sono impegnati nell’annuncio profetico del regno. Come un tempo aveva parlato per mezzo dei profeti, anche ora Dio si esprime attraverso parole umane, indubbiamente, alla stregua di Amos, semplice bovaro, questi pescatori della Galilea non sono preparati a una simile missione. Ma ciò che conta non è il fascino della loro intelligenza e della loro parola, o la nobiltà delle loro origini. Liberandosi dei bagagli inutili e delle sicurezze troppo umane, essi devono lasciar parlare e agire il Cristo attraverso di loro. E dal momento che il regno di Dio non va incontro alle attese superficiali degli uomini, il successo della loro missione non è per nulla garantito e l’accoglienza delle folle potrà essere modesta ed effimera, se non addirittura ostile. Non importa: afferrati da Dio, scelti dal suo figlio, i discepoli devono andare avanti e proclamare che il regno è vicino. Dunque il tempo dell’invio (il tempo della Chiesa) non è assolutamente un tempo in cui la parola profetica ha cessato di farsi udire, anzi, è la venticinquesima ora in cui è urgente proclamare, diffondere e moltiplicare l’evangelo. Nella fedeltà allo Spirito, sono le nostre parole di uomini, per quanto incerte e inadeguate, sono i nostri gesti di liberazione che devono risvegliare il nostro tempo al mistero di Gesù e del suo regno.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 16,15
Nella giustizia contemplerò il tuo volto,
al mio risveglio mi sazierò della tua presenza.
Nell’antifona d’ingresso, dal Sal 16,15, SI, l’orante che dal Signore ha ricevuto la sorte d’essere giusto, adesso vuole «comparire davanti al Volto», espressione che indica la volontà di visitare il Signore nel santuario, dove dimora in modo invisibile, imperscrutabile, misterioso sull’arca tra i Cherubini (62,3). Il salmista sa che dal Volto della divina Bontà emana la Luce trasformante (1 Gv 3,1-2). Questa supplica diventa oggi il nostro canto e la nostra preghiera, anche noi vogliamo stare “davanti al Volto”, ricevere la Luce trasformante che proviene dalla teofania, la manifestazione divina mediata dall’insegnamento della Parola e dal sacrificio seguito dal convito, unico cibo, unica sazietà meravigliosa per ogni fedele (15,11; Is 26,19; Dan 12,2).
Canto all’Evangelo Ef 1,17-18
Alleluia, alleluia.
Il Padre del Signore nostro Gesù Cristo
illumini gli occhi del nostro cuore
per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati.
Alleluia.
L’epiclesi al Padre del Signore Gesù Cristo orienta la proclamazione evangelica affinché illumini con la grazia dello Spirito Santo gli occhi della nostra fede e così giungiamo alla conoscenza profonda e piena della speranza che è il dono della nostra divina vocazione.
Noi celebriamo Cristo Signore Risorto, mentre Lo contempliamo in uno degli episodi della sua Vita tra gli uomini, quando insegna, o opera, o prega. La pericope evangelica in «lettura continua» (in verità presto sarà interrotta dalla lunga lettura del c. 6 di Giovanni) di Marco, presenta anzitutto, come sempre che il Signore, in vista della sua Vita pubblica tra gli uomini, dal Padre è battezzato con lo Spirito Santo e consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al Padre suo.
Le letture bibliche di questa domenica ci spingono a riflettere sul mandato di predicare l’evangelo da Gesù Cristo affidato alla sua Chiesa:
II Colletta
Donaci, o Padre,
di non avere nulla di più caro del tuo Figlio,
che rivela al mondo il mistero del tuo amore
e la vera dignità dell’uomo;
colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli
con la fede e con le opere.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
La pagina dell’evangelo, infatti, ci propone la missione dei discepoli da parte di Gesù. Dopo aver scelto i dodici all’interno di un gruppo più ampio, Egli li manda«a due a due» quasi a pregustare quella missione universale, che lo stesso evangelista Marco proporrà e testimoniera per il tempo successivo alla Pasqua (cf. 16,15-19).
L’iniziativa di Gesù ripresenta nella vita degli Apostoli l’iniziativa di Dio, cui si richiama il profeta Amos (cf. I Lettura) : il Signore mi ha mandato!
Ancora più radicalmente Paolo (cf. II Lettura) annuncia la vocazione eterna che Dio Padre ha voluto per ogni uomo e il fine stesso di questa chiamata: la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo.
L’elezione si verifica prima ancora della creazione del mondo ed è stata fatta in Cristo; fummo eletti perché già veduti uniti e solidali con lui, nuovo capo dell’umanità. Questo beneficio si realizza concretamente nel piano storico attraverso il sacrificio di Cristo redentore; tale sacrificio infatti ci libera da uno stato di peccato, condona i peccati e svela il misterioso piano di Dio, che vuole gli uomini tutti raccolti attorno ad un capo solo: il Cristo. Non è il caso o il destino ad agire nell’universo: Dio ha il suo progetto. Ha creato il mondo per noi, casa aperta ai figli di Dio. L’umanità non va alla deriva, essa avanza verso il compimento, verso la pienezza della sua realizzazione: tutti gli uomini riuniti attorno al Cristo: un corpo rigenerato, assiso alla mensa fraterna, il ricongiungimento definitivo degli uomini con Dio e tra di loro. Non è una parola vana o una promessa senza garanzia. C’è già stato un uomo che ha portato a compimento in sé il cambiamento che dovrà avvenire: Gesù Cristo, che è morto per risuscitare. Vi è già in noi il fermento della metamorfosi futura: lo Spirito santo. In ogni eucaristia, noi ricordiamo tale disegno di Dio e vi prendiamo parte, nell’attesa che si realizzi totalmente. Ogni giorno della settimana, ogni avvenimento della nostra vita è una tappa di questo progetto.
I lettura: Am 7,12-15
La pericope profetica, in parziale accordo con quella evangelica, presenta la tipologia di un Profeta dell’A. T. e la specificità della sua missione ricevuta dal Signore. Il profeta Amos è uno dei primi Profeti scrittori, del sec. 8° a. C. Egli era un pacifico mandriano di Tecoa (Teqoaʻ, nella regione montagnosa di Giuda, nel regno del meridione). Dal Signore riceve delle visioni per essere inviato a predicare nel regno settentrionale, in Israele (Am 1,1). In particolare è gratificato da tre visioni di punizione contro Israele, delle quali le prime due sono rimesse, ma non la terza (Am 7,1-9). Per questa predicazione di minaccia Amos si scontra con il geloso Amasia, sacerdote di Betel, dove stava un celebre santuario, che fu dei Patriarchi, ma adesso è idololatrico. Amasia lo denuncia al re Geroboamo II (783-743 a. C; Am 7,10-11).
Poi Amasia viene a scontrarsi direttamente con lui, intimandogli, con la tipica e inguaribile arroganza del “potere” sacerdotale, che come “straniero” deve andarsene, e tornare se vuole nella sua terra, Giuda, dove potrà vivere e profetizzare come desidera (v. 12). Egli deve cessare immediatamente di profetizzare a Betel, perché qui sta il santuario del re stesso, quello principale, anche perché nazionale (v. 13). Questo era contro la specifica norma della Legge, dell’unicità del santuario, posto come segno principale sacramentale dell’unità del popolo raccolto davanti al suo Signore (Dt 12). Ora, il Signore aveva permesso lo scisma di 10 tribù dalla casa di David, che così doveva essere punita per i peccati di Salomone (1 Re 12,1-25). Tuttavia non aveva tollerato che i re del regno scismatico del settentrione erigessero due vitelli, a Betel nel meridione, e a Dan agli estremi confini settentrionali della Palestina. Era il modo di impedire agli Israeliti di recarsi all’unico santuario, l’unico legittimo, di Gerusalemme, al fine di frustrarne ogni velleità di riunirsi con Giuda almeno nel culto divino. Così il “sacerdote” Amasia non era neppure della stirpe di Aronne, ma era un usurpatore, essendo un semplice laico arruolato e prezzolato dal re con l’investitura del culto di palazzo e del re soleva anche dimostrarsi come piccolo e zelante servitore. Questo tratto si servilismo clericale sarà fatale sotto imperatori e principi cristiani. E Amasia osa adesso vantare la legittimità del suo culto abusivo e infiltrato di idololatria.
Amos a sua volta lo investe e lo contesta proprio presentando la legittimità della propria profezia. Egli espone la sua condizione. Non era profeta, non faceva parte di confraternite profetiche, era un semplice mandriano dietro i suoi animali, ed era anche coltivatore di sicomori (o mori; il fatto che “punzecchiasse” i sicomori resta oscuro, non sapendo se tale pratica era sul tronco dell’albero o sui suoi frutti) (v. 14). Però il Signore lo rapì per la difficile missione in terra fraterna ma nemica, e lo inviò al “suo” popolo alienato, Israele. Infatti per la sua fedeltà e per la sua misericordia non può abbandonarlo (v. 15). Amos è dunque un profeta, suo malgrado, strappato da Dio a un mestiere tranquillo e a un ambiente confortevole. Questo distacco non voluto rende libera la parola di Dio e pura l’intenzione di chi l’annuncia.
Il Salmo responsoriale: 84,9ab-10.11-12.13-14, SC (supplica comunitaria)
Con il Versetto responsorio: «Mostraci, Signore, la tua misericordia» (v. 8), l’assemblea innalza l’epiclesi al Signore al fine che manifesti la sua Misericordia, che è la sua carità, il suo soccorso necessario, e che doni la sua salvezza.
Di questo Salmo, i vv. 9-14 sono 1’”oracolo”, ossia la parte che mostra come durante la preghiera il Signore ha voluto rivelare all’Orante qualche aspetto della sua Volontà. L’Orante allora canta consapevolmente che qualcuno come lui tuttavia accoglie quanto il Signore desidera attraverso la missione dei suoi inviati, affinché gli uomini ascoltino e compiano la sua divina Volontà per avere il bene. Infatti egli adesso esprime la sua intenzione di ascoltare (verbo che biblicamente significa anche e soprattutto obbedire) quanto parla il Signore (Ebr 2,1). Infatti nella sua esperienza di fede in Lui e di timore di Lui sa che Egli si rivolge al suo popolo, e dentro questo in specie ai suoi fedeli, i suoi “santi” (Sal 49,5; Dt 7,6), quelli che a Lui con volontà costante offrono il loro cuore. E sa che Egli annuncia la sua pace, che è condizione di integrità, di salute, di prosperità, di difesa dai nemici, di quiete davanti alla sua consolante Presenza (v. 9; Sal 121,8; Zacc 9,10; Ag 2,10). La Parola divina manifesta che è vicina la salvezza, che è l’intervento del Signore a favore dei suoi fedeli che hanno il “timore di Dio”, ovvero la consapevolezza di essere alla Sua presenza e che adempiono la sua Volontà (Is 46,13; Sal 144,18), e che la gloria divina sta per tornare nella terra promessa per porvi la sua dimora (Zacc 2,5; vedi Gv 1,14). Ora, la gloria divina per un pio e timorato del Signore è anzitutto la sua manifestazione regale, che avviene con la sua Presenza adorata nel santuario (v. 10), e si dilata per la terra intera.
La promessa della Parola divina completa l’evento nuovo con una serie di avanzamenti, operati da coppie di protagonisti. Così, come due persone liete di ritrovarsi, la misericordia e la fedeltà, che è il comportamento divino quale impegno nell’alleanza, stanno per incontrarsi e venire di nuovo tra i fedeli (v. 11; Is 32,7; Sal 71,3; Ef 2,13-17). Anche la giustizia, che è misericordia di intervento efficace, e la pace che essa produce, stanno per baciarsi onde convivere insieme (v. 12; Sal 88,15). Il Signore farà germogliare la fedeltà dalla terra (Is 45,8), mentre la giustizia, l’intervento soccorritore che ristabilisce la pace, guarda dal cielo e sta per venire (v. 13; Sal 96,6).
Con questo il Signore sarà il generoso elargitore di ogni bene (Giac 1,17) e dalla terra della promessa, come per un nuovo giubileo, farà germogliare il suo frutto (Lev 25,19; Sal 66,7). Così si farà precedere dalla sua giustizia, che è la misericordia (Sal 88,15; Is 52,12; 58,8), e questa spianerà la strada alla sua venuta tra gli uomini (v. 14).
Evangelo
La missione dei Dodici è un fatto conosciuto dai tre sinottici (Mt 9,35; 10,1.9-11,14; e Lc 8,1; 9,1-6), che tuttavia lo riferiscono in maniera diversa: Marco parla dell’invio dei dodici soltanto; Luca conosce due missioni: questa e quella dei 72 discepoli; Matteo fonde insieme i dati di Marco e Luca. L’evangelista Marco è più stringato: non parla né del tempo, né del luogo di partenza, né del campo dell’attività o della durata, degli scopi e dei risultati della missione; dice solo che i dodici furono investiti di poteri speciali (v. 7), che ebbero varie raccomandazioni (vv. 8-11) e che predicarono la penitenza, operando miracoli (vv. 12-13).
La missione dei discepoli occupa in Marco la sezione che và da 6,7-7,23. La sezione così circoscritta comincia con il racconto degli eventi avvenuti dopo l’insuccesso di Gesù nella sua terra e termina poco prima di uno stacco geografico importante: il viaggio di Gesù verso le frontiere di Israele (cf. 7,24), fuori da quella “patria” dove non è che un profeta disprezzato (cf. 6,4).
In questa tappa della narrazione, che va dal fallimento personale di Gesù a Nazaret al viaggio fuori da Israele, un primo blocco narrativo, con una struttura a sandwich, comprende l’invio dei discepoli in missione, la morte di Giovanni Battista, il ritorno dei discepoli e la prima moltiplicazione dei pani (cf. 6,7-44). Un breve episodio di traversata e un sommario redazionale (cf. 6,45-56) costituiscono un passo di transizione prima della pericope sul puro e sull’impuro (cf. 7,1-23) che preannuncia la seconda grande parte dell’evangelo, dove Gesù estenderà il suo ministero ai territori pagani (cf. 7,24-8,26). In ciascuno degli episodi di questa sezione i discepoli vengono coinvolti negli eventi in modo più o meno diretto.
Il racconto di invio in missione (cf. 6,7-13) è interrotto dall’episodio della morte del Battista (cf. 6,14-29), per riprende poi ai vv. 30-32 (cfr XVI Dom. T. Ord.) con la descrizione del ritorno degli apostoli. Tuttavia qui la costruzione è un po’ più complessa: infatti, i vv. 30-31, che concludono il racconto dell’invio in missione (e costituiscono quindi la terza parte del sandwich), servono anche da introduzione al racconto della moltiplicazione dei pani (cf. 6,30-44). Quindi non è solo alla luce della morte di Giovanni Battista che bisogna leggere il racconto dell’invio dei discepoli, ma anche alla luce dell’episodio della moltiplicazione dei pani.
Questo breve racconto si presenta davvero come un vero e proprio manuale del missionario:
- dopo il fondamento della missione (v. 6b: “Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando”),
- sono presentati in successione i protagonisti (v. 7a: “i dodici”), l’ordine, il contenuto e le modalità (cf. vv. 7b–11), la partenza e l’esecuzione (cf. vv. 12-13),
- e più avanti il ritorno (cf. vv. 30-32).
La strategia narrativa di Marco mira a suscitare nel lettore l’impressione che il racconto si svolga secondo uno schema logico e chiaro: Gesù si è scelto gli apostoli e, dopo averli formati e istruiti, li ha inviati in missione. Questa trama è però coerente solo a patto che ci sia la collaborazione di un lettore di buona volontà, collaborazione resa necessaria dalla configurazione stessa del racconto di invio. Infatti, in pochi versetti questo concentra un numero impressionante di termini tecnici della predicazione e dell’attività missionaria del cristianesimo primitivo: “insegnare” (v. 6); “inviare (o mandare)” (v. 7); “autorità sugli spiriti impuri” (v. 7); “ascoltare” (v. 11); “predicare affinché si convertano” (v. 12); “ungere d’olio” (v. 13). Ma l’evangelista resta silenzioso sul significato globale da attribuire a queste espressioni: nulla viene detto del contenuto dell’insegnamento e della predicazione fatta da questi discepoli, nulla dei destinatari. Qual è il contenuto dell’Evangelo, dal momento che, dal punto di vista della coerenza narrativa, Gesù non è ancora stato confessato come il Glorificato? Infine, se è vero che i discepoli operano esorcismi, unzioni d’olio, guarigioni, l’evangelista non precisa però secondo quale criterio vengono compiute queste guarigioni.
La tecnica tipica dell’evangelo di Marco, che consiste nell’usare un linguaggio preconfezionato senza precisare poi il significato teologico dei termini impiegati (cf. già in 1,1-13), mostra un aspetto fondamentale del processo di formazione del lettore da parte dell’evangelista: la collaborazione del primo viene richiesta sulla base di un sapere antecedente, che presuppone un linguaggio comune tra l’evangelo e i suoi destinatari. In questo senso, l’ipotetico uditorio dell’evangelo di Marco è cristiano o, quanto meno, ha consuetudine con il discorso religioso presente nella narrazione. Continuando poi la lettura sembra che l’evangelista Marco non resti passivo di fronte al processo interpretativo del lettore e di fronte al rischio di un’indebita valorizzazione della figura dei missionari. Diversi indizi manifestano infatti che, all’interno della sua narrazione, Marco guida e orienta l’apporto dei lettori interrogandoli sul significato che danno al racconto. Avremo modo tuttavia di approfondire ancora questa riflessione nel corso delle lectio di quest’estate.
Esaminiamo il brano
6a-7 «andava,- insegnando… mandò»: ritroviamo qui tutta la grandezza di Gesù: rifiutato dai suoi percorre i villaggi dei dintorni predicando. Il rifiuto non lo ferma nella sua missione, anzi lo impegna ancora di più e si fa persino aiutare dai suoi discepoli.
Gli altri villaggi erano assetati della sua parola; non potendo arrivare ovunque, manda i discepoli: è una risposta non solo al malvolere dei Nazaretani ma anche un conforto per i discepoli che possono così stabilire dei confronti e toccare con mano il successo del loro Maestro.
L’insuccesso di Nazaret non ha frenato affatto l’impegno evangelizzatore e salvifico di Gesù; il fatto ha danneggiato soltanto gli abitanti di Nazaret, dove Gesù «potè guarire solo pochi ammalati».
Abbiamo qui ripreso il v. 6b dove Marco insiste nel presentare Gesù come maestro; lo farà particolarmente nelle dichiarazioni riassuntive o di transizione (cfr. 1,21; 2,13; 4,1; 6,2.34; 9,31; 10,1). Gran parte dell’insegnamento di Gesù si svolge mentre è «in viaggio».
«Chiamò a se…»: L’uso di «chiamare» (proskaléomai) ricorda la scelta iniziale dei Dodici (3,13, «chiamò vicino a sé quelli che egli volle»). Il verbo denota una chiamata autoritaria (15,44). Gesù «chiama» anche i discepoli (mathetai, 8,1; 10,42; 12,43) e le folle (7,14; 8,34).
«i Dodici»: il termine più antico e quasi esclusivo di Vangeli ed Atti per indicare i seguaci immediati e costanti di Gesù è mathetes (= discepolo; 262 volte, di cui 46 in Marco); la denominazione «i Dodici», più collegiale e ristretta, è una precisazione ulteriore. È un modo caro a Marco per indicare quei discepoli che Gesù aveva prima chiamati a sé e poi scelti come «apostoli» per «inviarli a predicare col potere di scacciare i demoni» (cf. 3,13-15). Quanto al numero dodici in se stesso non c’è dubbio che esso risale a Gesù stesso, altrimenti non si spiegherebbe la preoccupazione degli apostoli per reintegrarlo dopo il tradimento di Giuda (cf. At 1,15-26). Esso comunque è in diretto riferimento con le dodici tribù d’Israele e attesta ancora una volta la volontà di Gesù di costituire un nuovo popolo di Dio, basato appunto sui dodici apostoli, come già l’antico popolo era basato sui dodici figli di Giacobbe,
«e prese a mandarli»: Qui è usato lo stesso verbo (apostéllō) che è stato usato in 3,13-14. Ma nella chiamata iniziale il verbo descrive la finalità di Gesù, «perché stessero con lui e per mandarli a predicare», mentre qui lo scopo è raggiunto. Il verbo contiene l’idea di un’autorità delegata e di rappresentanza, di modo che la missione dei Dodici è conferita da Gesù ed opera grazie al potere di Gesù.
«a due a due»: l’uso di andare a coppie è giudaico. Il vantaggio pratico era l’aiuto vicendevole e la possibilità di rafforzare il valore di testimonianza (cf. Dt 19,15), che essi erano chiamati a dare al loro maestro. Possiamo immaginare i discepoli che sfilando davanti a Gesù ricevono da Lui il nome della contrada dove recarsi e il potere. Nella comunità di Marco particolarmente ambito sembra essere il potere di cacciare i demoni.
«diede loro»: nell’originale il verbo è all’imperfetto, quasi a dire che tale potere era dato alla coppia e non al singolo (fraternità ed umiltà).
Il compito degli apostoli in questa prima missione non è qui precisato, risulterà ugualmente chiaro dalla relazione che Marco farà del loro giro missionario (cf. vv. 12-13).
«il potere sugli spiriti immondi»: il potere (exusia; cf Mt 28,18 ) e l’attività missionaria dei dodici è la continuazione ed estensione del potere e della missione sovrana di Gesù. Il Cristo non ha chiamato i Dodici per aprire una scuola o fondare un’accademia. Egli li manda in missione per moltiplicare la sua attività, per farli essere messaggeri di Dio come lui stesso.
Manca il verbo ”predicare” di 3,14 ma è sottinteso perché è la prima cosa che fanno gli inviati (cf. 6,12). Anche l’invito alla conversione (metanoeo è lo stesso verbo con cui è stato riassunto l’aspetto pratico della predicazione dì Gesù in Mc 1,15) fa parte del mandato di Gesù e i Dodici lo praticarono (v. 12), ben consapevoli che continuavano così la missione del loro Maestro (cf. 1,14-15).
8 – «per il viaggio»: Letteralmente «per la via» (hodós). Dato che hodós in Marco denota anche «la via» o il «modo di essere discepoli», le istruzioni non sono semplici direttive per il viaggio, ma sono anche il simbolo delle disposizioni necessarie per essere discepoli.
Inviando gli apostoli, Gesù si preoccupa di precisare il loro equipaggiamento da viaggio, che deve essere ridotto all’essenziale, alle cose veramente indispensabili: un bastone da viandante, un paio di sandali per schivare la durezza del suolo e una semplice tunica senza il mantello, che serviva solo per ripararsi dall’umidità della notte.
L’apostolo deve contare sulla generosità e sul senso di ospitalità della gente dei luoghi in cui si reca. Soprattutto l’apostolo, con il suo esempio di distacco da tutte le cose, deve dar prova della sua fiducia in Dio, che provvede anche agli uccelli dell’aria e ai gigli del campo (cf. Mt 6,25-34; cf anche Antif. alla Comunione[1])».
Compreso così l’insegnamento di Cristo, non costituisce una difficoltà il fatto che tra Marco e gli altri sinottici ci sia una certa diversità nell’enumerare le cose da prendere o da non prendere con sé nel viaggio.
Gli evangelisti hanno voluto dare soltanto un’idea dello spirito da cui deve essere animato il missionario e non dettare norme troppo vincolanti e meticolose .
«Bastone e sandali»: Marco ha voluto conservare agli apostoli un aspetto più biblico ma corretto con un pensiero nuovo: senza pane, bisaccia e soldi.
«nient’altro che un bastone»: Sul piano pratico il bastone serve da supporto e da protezione. Nell’AT il bastone è anche un simbolo di potere e di autorità (frequente in Esodo e Numeri per il bastone di Mose o di Aronne; es.: Es 4,20; 7,9-20; 8,16-17; 14,16; vedi anche Mic 7,14; Sal 23,4). I passi paralleli in Mt 10,10 e in Lc 9,3 vietano espressamente il bastone. In 2 Re 4,29-37 Eliseo ordina al suo servo Giezi di prendere il suo bastone e di posarlo sulla faccia del figlio della donna sunammita come preliminare alla guarigione effettiva operata da Eliseo.
Pane: sta per qualsiasi provvista di cibo, di cui il pane è l’elemento principale ed insostituibile.
bisaccia: probabilmente la bisaccia dei mendicanti, non la sacca dei viaggiatori; se infatti non portavano provviste, non dovevano avere la sacca: la bisaccia invece chiedeva da se stessa un’elemosina; l’inviato deve presentarsi come uno che socialmente ed economicamente non conta;
denaro: lett. rame, che come il bronzo, era usato per le monete spicciole: quindi nemmeno gli spiccioli!
9 – «ma di calzare sandali»: Anche qui, al contrario di Mt 10,10 e di Lc 10,4, Marco i sandali li concede. I missionari di Marco assomigliano agli Israeliti che si apprestano a consumare il pasto di Pasqua prima della loro partenza dall’Egitto «con i sandali ai piedi e il bastone in mano» (Es 12,11). Se qui c’è un motivo dell’esodo, esso è molto sottile, forse come preludio alla moltiplicazione dei pani in luogo deserto (6,32-44), alla messa alla prova del popolo (come i discepoli sono messi alla prova e falliscono; vedi 8,14-21) e alla rivelazione sulla cima del monte (9,2-8).
«due tuniche»: le due vesti servivano per eventuali intemperie in un viaggio discretamente lungo, i discepoli invece stanno in cammino per poco tempo ed entrano nelle case.
10 – Compreso nel suo compito, l’apostolo riceve nel modo più semplice l’ospitalità che gli viene offerta, senza andare in giro per cercare un alloggio migliore del primo.
11 – «scuotete la polvere…»: è il gesto che ogni giudeo compiva al rientro da una terra pagana, quasi a lasciarsi dietro ogni impurità legale, che egli avesse potuto contrarre nel contatto con i gentili.
Il gesto stava a significare che ci si voleva separare completamente dal mondo «impuro» ed incredulo. Compiendo tale gesto verso gli stessi Israeliti ostili e increduli (cf. At 13,51; 18,6), gli apostoli avrebbero offerto loro un motivo dì riflessione e di richiamo alla conversione. In Marco viene così sottolineata, rispetto al brano parallelo di Mt 10,11-16, più la possibilità del rifiuto che quella dell’ accoglienza. Non per nulla, la missione dei Dodici è inserita tra il rifiuto di Gesù a Nazaret (6,1-6a) e il rifiuto del Battista (6,14-29).
«come testimonianza per loro»: L’atto è spiegato in termini di «prova» o «testimonianza» (eis martýrion autoîs) «contro» o «per» loro come segno di condanna o di richiamo al pentimento. Marco usa la stessa espressione in 1,44 quando Gesù ordina al lebbroso di presentarsi al sacerdote. In 13,9 la comparizione dei cristiani davanti alle assemblee, ai governanti o ai re a causa del nome di Gesù sarà anche in quel caso eis martýrion autoîs.
12-13 I Dodici mettono subito in esecuzione il comando del Maestro. L’evangelista non precisa né il territorio né la durata del loro giro missionario.
Per il territorio è probabile che non siano usciti dai confini della Galilea (cf. Mt 10,5-6); per il tempo invece, dato che Marco parlerà del ritorno al v. 30 di questo stesso capitolo, dopo aver riferito della morte del Battista, si può supporre che sia passato qualche tempo.
«ungevano con olio molti infermi»: l’uso dell’olio come medicina era costume diffuso in oriente già dai tempi di Isaia (cf. Is 1,6; Lc 10,34). Per gli apostoli doveva essere soltanto un segno esteriore delle guarigioni che ottenevano mediante la fede e la preghiera, in virtù del potere concesso loro da Cristo. Alcuni studiosi vedono in questo gesto un’anticipazione del sacramento dell’unzione degli infermi (Gc 5,14-15).
L’importanza teologica di questo passo credo stia nel ruolo che ha di richiamo per la Chiesa a non dimenticare di aver avuto origine in una comunità di missionari; i Dodici sono anche tra i primi destinatari delle apparizioni del Gesù risorto in 1 Cor 15,3-7, una tradizione che è stata definita «fondatrice della comunità» e inauguratrice della missione. La Chiesa si identifica in una comunità che è mandata; deve «viaggiare leggera» e proclamare la parola liberamente e senza timore. Al pari di Gesù, essa deve confrontarsi con le forze del male e servire da agente del potere guaritore di Dio. Mentre al giorno d’oggi (vedi “Nuova evangelizzazione”, “Anno della Fede” ecc.) la Chiesa sembra impegnata in una continua ricerca di una propria identità in un mondo complesso ma sorda ad ogni testimonianza e, dispiace dirlo, alla “Parola Proclamata e Celebrata”. Questo racconto abbastanza semplice dovrebbe sempre rimanere un compagno di conversazione.
Vorrei qui chiudere con alcune riflessioni del sacerdote Romano Guardini (1885-1968) teologo e scrittore italiano per nascita, tedesco per formazione:
“Non si rende nessun servizio a un apostolo considerandolo come «una grande personalità religiosa»; non di rado l’incredulità comincia proprio da qui. Ciò che contraddistingue l’apostolo non è il suo valore umano, la sua creatività spirituale, la sua influenza religiosa, ma la chiamata di Gesù Cristo, la missione che ha ricevuto, il sigillo che gli è stato impresso. …L’apostolo non parla in nome proprio, ma in nome di Cristo. Non si lascia guidare dalla propria scienza o dalla propria esperienza, ma dalla parola di Dio e dalla missione ricevuta. È colmo di Cristo, impregnato del suo pensiero. Il Signore è la sostanza della sua vita. Lui egli porta, non in virtù della propria esperienza religiosa personale, ma perché il Signore lo ha scelto per questo”. (R. Guardini, Il Signore)
I Colletta
O Dio, che mostri agli erranti la luce della tua verità,
perché possano tornare sulla retta via,
concedi a tutti coloro che si professano cristiani
di respingere ciò che è contrario a questo nome
e di seguire ciò che gli è conforme.
Per il nostro Signore…
[1] Antifona alla Comunione Sal 83,4-5
Il passero trova la casa,
la rondine il nido dove porre i suoi piccoli,
presso i tuoi altari, Signore degli eserciti,
mio re e mio Dio.
Beato chi abita la tua casa:
sempre canta le tue lodi.
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano