Commento al Vangelo di domenica 10 Ottobre 2021 – Comunità di Pulsano

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DOMENICA «DEL GIOVANE RICCO»

«Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Il racconto evangelico ci presenta un uomo appassionato e sincero, che esprime il desiderio più profondo e radicato nel cuore umano: quello della vita. Un uomo senza nome: potrebbe essere ciascuno di noi. Ma se cerca la vita, si pone per questo il problema di Dio? «Nessuno è buono, se non Dio solo»: per prima cosa, Gesù lo richiama all’essenziale. Dalle brevi parole che egli scambia col Cristo, si capisce che per lui è ovvio che la vita eterna si trovi al termine di un’esistenza virtuosa. Ha sempre osservato i comandamenti enumerati da Gesù, che non sono altro che la seconda parte del decalogo, quella che riguarda i rapporti con il prossimo. Senza saperlo, si trova in una condizione favorevole, non per «salvarsi», ma per lasciarsi salvare da Dio.

Tuttavia gli manca ancora qualcosa, forse tutto. Non abbiamo dato nulla a Dio se non siamo pronti a dare tutto. A questo ci chiama l’amore del Cristo: «Ama Dio rinunciando a tutti gli idoli. Sta qui la sostanza della prima parte del decalogo, ed è ciò che ancora ti manca!». È l’invito a un dono totale, che si concretizza in una chiamata precisa: «Vieni e seguimi». Non si tratta più di legge morale, né di ascesi; si tratta di mettersi in cammino con Gesù verso l’amore esclusivo di Dio. Insegnaci, Signore, a passare da una morale della ricerca della perfezione (una ben limitata perfezione…) alla logica della fede, che consiste nel non mettere più al centro noi stessi, ma nello scegliere di vivere secondo l’evangelo, al seguito di Gesù. In questa prospettiva non ha più senso distinguere fra «precetti» e «consigli». O si segue il Cristo o non lo si segue. O la borsa o la vita. E al di là dell’illusione molto umana di «guadagnarsi il paradiso», di «lavorare per la propria salvezza», seguire il Cristo significa lasciare via libera a Dio, a cui tutto è possibile. Questa è la buona notizia.

Cominciamo il nostro cammino con l’eucologia del giorno:

Antifona d’Ingresso Sal 129,3-4

Se consideri le nostre colpe, Signore,

chi potrà resistere?

Ma presso di te è il perdono,

o Dio di Israele. 

Il Sal 129,3-4 (SI) apre la celebrazione liturgica con una decisa proclamazione di fede del salmista che diventa così la preghiera dell’assemblea intera. Nell’uso della Sinagoga e poi delle Chiese cristiane il salmo 129 ha assunto un rilievo singolare, formando generazioni di fedeli a pregare il Signore Vivente e Redentore dalle profondità insondabili della miseria e della necessità che attanagliano in modo che si può dire costitutivo tutti gli uomini, che lo riconoscano, oppure no. Così nella Chiesa bizantina esso è uno dei 4 Salmi lucernali, fissi per la celebrazione del Vespro. Nella Chiesa latina esso faceva parte dei cosiddetti «Sette Salmi penitenziali» (Sal 6; 31; 37; 50; 101; 142, tutte SI, a eccezione del Sal 31, che è un’AGI). Il Sal 129 proviene da un’anima carica di sentimenti, di sensibilità e di potenza espressiva, impregnata di senso della preghiera forte, ed insieme sommessa, di una profondità spirituale poco comune. Anche il suo vocabolario è concentrato sull’aspetto orante dell’esistenza di fede. Perciò il corpo del Salmo (vv. 2-8) comincia con una ben fondata supplica, l’epiclesi per ottenere l’ascolto divino, con la solita immagine del Signore che “si tende” verso il suo fedele “con le orecchie”, cioè con tutta la Persona che si fa presente ed operante (v. 2). Ben fondata, in quanto il Salmista ha la certezza della irrisoria facilità con cui il Signore supera ogni possibile abisso umano. Questo è esplicitato poi nella riaffermazione della fede (vv. 3-4) dell’Orante.

Il Signore, è detto in forma interrogativa, non sta ad osservare, come divino ma triste e meccanico contabile, le iniquità, l’unico prodotto dell’abisso della malizia degli uomini viventi. Se esistesse tale contabilità, sotto la legge inesorabile del pagano «do ut des», a cui corrisponderebbe una specie di inerziale «da ut dem» divino, la partita commerciale per gli uomini sarebbe sempre in irreparabile perdita e il “dio giustiziere” annichilerebbe tutti gli uomini. Ma la domanda del Salmista al v. 3 non ammette questa “immagine e somiglianza dell’uomo” che è il “dio giustiziere” di tipo calvinista, vero ectoplasma di coscienze non realmente bibliche e cristiane; come quando da tante parti si chiede, come pretesto per impegnarsi il meno possibile nella fede: “Ma come permette “Dio” tanti diabolici disastri, guerre, fame, genocidi, stragi di bambini…?”; ma nell’ottusità dell’animo umano ripieno di odio contro se stessi, Dio, il prossimo ed il mondo, non ci si chiarifica che tutti quei mali sono sempre e solo prodotto umano.

Per nostra fortuna l’uomo può ancora “sussistere” (v. 3b) perché esiste solo il Signore Dio Vivente infinitamente misericordioso, che accetta di affacciarsi sull’abisso umano, per trasformarlo in luogo dell’Abisso della divina misericordia. Questo è spiegato subito dopo. «Poiché presso Te la propiziazione esiste»: il v. 4 esplicita dunque la professione di fede, affermando che solo presso il Signore sta il hilasmós, la propiziazione (da hiláskomai, rendere propizio, vedi l’aggettivo hileós, propizio, favorevole, benevolo, placato, benigno, cortese, buono, anche hilaós; e vedi il termine hilastêrion, strumento di propiziazione, il coperchio dell’arca su cui si spruzzava il sangue del sacrificio propiziatorio). Il termine ebraico qui è šelîhah, invia, missione, dimissione, perdono, abbuono. Solo il Signore dunque è sempre propizio, favorevole, pronto a perdonare e all’abbuono universale delle colpe. È uno dei modi di manifestare il suo éleos dell’alleanza. Qui la fede e la fiducia dell’orante è totale, basata, ancora una volta, sulla esperienza storica e spirituale.

Canto all’Evangelo Mt 5,3

Alleluia, alleluia.

Beati i poveri in spirito,

perché di essi è il regno dei cieli.

Alleluia.

Il canto che precede la proclamazione evangelica ci dispone ad accogliere la parola dell’Evangelo di Resurrezione evocando la prima tra tutte le beatitudini, quella che annuncia che i poveri in spirito sono i soli possessori del Regno dei cieli. È la condizione ideale e necessaria per accogliere nel cuore e quindi nella propria vita la Sua vita di salvezza.

La Chiesa lungo questo Tempo, privilegiato tra tutti gli altri dell’Anno liturgico, che è il Tempo Ordinario, celebra Cristo Signore Risorto, mentre Lo contempla in uno degli episodi della sua Vita tra gli uomini, quando insegna, o opera, o prega. Egli sta operando la divina Liturgia del Padre, la divina «opera per il popolo», mentre battezzato dal Padre con lo Spirito Santo e consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al Padre suo, e come Sposo per acquistarsi la Sposa d’Amore e di Sangue.

La lettura continua di Marco porta oggi la narrazione dell’incontro del Signore con il giovane ricco e con l’occasione come Profeta e Maestro divino propone la vocazione alla sua sequela, e al suo rifiuto procede alla conseguente ennesima catechesi sulla povertà. Questa Domenica così il Signore appare mentre insegna la dottrina del Regno di Dio, che i suoi discepoli conseguono in forza della sequela fedele di Lui, il Povero per definizione, anche essi perciò spogli di tutto.

Ancora un insegnamento di Gesù ai suoi discepoli nel suo andare a Gerusalemme: la necessità di un criterio saggio nel valutare la vita ed il suo significato; un insegnamento valido per tutti che la preghiera liturgica ha sintetizzato mirabilmente nel ritornello del salmo responsoriale: Saziaci, Signore, con il tuo amore: gioiremo per sempre.

La bella preghiera del salmo 89 è la meditazione di un saggio sulla fragilità umana e sulla brevità della vita che chiede a Dio compassione e comprensione. La speranza e la fede possono illuminare anche il quadro più fosco della miseria umana. Bisogna cercare una sapienza che valga più della vita stessa, perché senza di essa, la vita, anche con tutte le ricchezze possibili, resta senza significato (cf I lettura).

I lettura: Sap 7,7-11

L’autore qui introduce simbolicamente Salomone a parlare della divina Sapienza, della sua essenza, delle sue qualità, delle sue attitudini verso gli uomini mortali. Salomone confessa come ebbe la generazione da una madre, non in modo privilegiato, bensì come tutti gli uomini, e come entrò così nel mondo, così come tutti gli uomini ne uscirà (7,1-6). Tuttavia rispetto agli uomini ebbe la ventura di comprendere che doveva pregare il Signore per ottenere l’intelligenza, e così rivolse al suo Signore l’epiclesi sapienziale e in dono da Lui conseguì questa intelligenza (v. 7a; l’episodio in 1 Re 3,9-12; 4,29; Sal 15,7; Sir 51,18-19; Giac 1,5). Ma seguitò a implorare il Signore, e allora venne in lui lo Spirito della Sapienza (v. 7b), ossia la Sapienza che è lo Spirito, e Spirito Santo (1,4-5).

Ancora giovane, il re è già assennato, reso sapiente dalla Sapienza prima che la chiedesse al Signore. E ormai ella risiede in lui, e Salomone comprende che deve preferirla a regni magnifici e a troni gloriosi, e stima le ricchezze, che danno potenza e quindi sono massimamente appetite, come fatto trascurabile (v. 8; 1 Re 3,11; Giob 28,15-19; Pr 3,14-15; 8,11; 15,16; Sal 18,11). Così, rispetto alla Sapienza, nulla stima le gemme preziose (v. 9a), la mania degli orientali di ogni tempo (ma gli occidentali non scherzano quanto a malattia mentale da gioielli), e inutile rena del mare considera ogni quantità d’oro, altra mania degli orientali (e occidentali), e l’argento come spregevole fanghiglia (v. 9b; 2 Cron 1,15; Sir 47,20; Bar 3,30).

Spingendo la comparazione ai suoi limiti, Salomone ama e predilige (Sir 4,13) la Sapienza più della salute e della bellezza (v. 10a). È probabile che qui l’autore alluda da lontano a Platone, che aveva posto tra i valori umani in primo luogo la salute per tutti e la bellezza per le donne. Salomone si propose di avere sempre davanti a lui il folgorio della Sapienza come luce (v. 10b), ma luce inestinguibile, che sta sempre al suo zenit e mai conosce tramonto (v. 10c; v. 26; 6,13; Bar 4,2).

L’epiclesi sapienziale ha provocato la costante del Signore quando dona, in quanto Egli «opera sempre per sovrabbondanza». Così, se promette, dona poi sempre più della promessa. Quando il suo fedele si rivolge a Lui con fede e fiducia, il Signore elargisce sempre il plus divino. Di fatto, come in questo caso, l’orante gli ha chiesto la Sapienza divina che è lo Spirito Santo. Il Signore si compiace di questa richiesta pia e devota, che supera ogni richiesta, e la esaudisce concedendo la sua Sapienza, ma per illimitata a magnifica generosità accompagna questo Dono anche con altri doni non richiesti: con la Sapienza vengono infatti a Salomone «tutti i beni», ricchezze incalcolabili e la gloria quale nessun re ebbe mai (v. 11; 1 Re 3,13; Pr 3,16; Sir 51,36; Sal 33,11; 1 Tim 4,8), Quando però il cuore di Salomone si corruppe, proprio questo fu la sua colpevole rovina. L’esempio proprio della vita di Salomone ci ricorda che se viene meno l’ascolto  dello Spirito si cade nell’idolatria e dunque nel rifiuto di Dio come nell’Evangelo di oggi. Alla Parola, efficace e tagliente (II lettura), viene attribuito un potere di discernimento che spesso la coscienza non possiede, perché intrappolata da false valutazioni.

Dobbiamo purtroppo riconoscere che l’opinione comune, diffusa e generalizzata vede nel denaro uno dei mezzi più efficienti ed efficaci per conseguire la felicità.

Tra le ricchezze che il cristiano deve ricercare e possedere, va senz’altro annoverata la Parola di Dio, ci ricorda Paolo nella lettera agli Efesini (II Lett).

La Parola di Dio svolge la preziosa funzione di illuminare ed orientare; una vera bussola che il Signore pone sul cammino del credente e della comunità, per rendere più sicuro il cammino.

Il tema della ricchezza è anche il collante che tiene unite le diverse parti della narrazione evangelica (un racconto di vocazione, un ammonimento, una richiesta di Pietro). Al tempo di Gesù la ricchezza era considerata un segno della benedizione di Dio; comprendiamo quindi lo smarrimento di Pietro: se non si salvano i ricchi, allora che si può salvare (v. 26)?

Per Gesù sono proprio le ricchezze a rendere difficili l’entrata nel regno. Per essere discepoli, non basta osservare i comandamenti, bisogna rinunciare a se stessi, dare il primo posto a Gesù e seguirlo sulla strada della croce. Gesù è stato crocifisso a causa della sua opposizione con “fatti e parole” (At 1,1) ai potenti che tenevano schiave moltitudini umane. Martire di carità, quindi, non vittima di espiazione verso l’Altissimo, mai adirato con nessuno, tanto meno con gli esseri umani, i suoi figli prediletti (1 Gv 3,1). Allora si troverà una vita piena: il centuplo già al presente (insieme a persecuzioni! aggiunge Marco) e al futuro la vita eterna (v. 30). Da sottolineare come tutto il brano evangelico è strutturato attorno al triplice sguardo di Gesù: uno sguardo di predilezione (v. 21), uno sguardo di preoccupazione (v. 23), uno sguardo di incoraggiamento (v. 27).

Esaminiamo il brano

17-18 «Mentre andava per la strada»: La nota geografica tiene vivo il tema del viaggio (vedi 8,27;9,2.9.14.30.33; 10,1). Come fa di frequente, Marco comincia un nuovo episodio senza fare il nome di Gesù, anche se è ovvio che si tratta di Gesù. L’inizio entusiasmante dell’evangelo lascia da subito presagire qualcosa di interessante: un tale corre incontro a Gesù. Mentre per Matteo 19,22 si tratta di un giovanotto (neaniskos) e secondo Lc 18,18 è un «notabile» (archón), per Marco è chiaramente un adulto, perché rispondendo dirà «fin dalla mia giovinezza» (v. 20).

«gettatosi ai suoi piedi»: lett. “caduto ginocchioni”. Questo gesto (cf. 1,40 e 5,22) già nell’A.T. era praticato anche verso gli uomini come segno di rispetto e di deferenza (cf. Ester 3,2; ecc.). L’unico passo oltre a questo in cui Marco usa il verbo «inginocchiarsi» (gonypetéō) è 1,40, dove un lebbroso chiede a Gesù di essere guarito.

«cosa devo fare per avere»: lett. “per ereditare”, espressione ebraica, per indicare il premio che Jahvé dà ai membri del suo popolo, che sono suoi figli e quindi hanno diritto all’eredità paterna. Molto usato nella bibbia come sinonimo di avere in dono, entrare in possesso, ecc. (cf. Mt 5,5; 25,34; 1 Cor 6,9-10; 15,50; Gal 5,21; ecc.). Sottolinea l’aspetto gratuito della concessione.

«la vita eterna»: l’espressione si trova per la prima volta in Dn 12,2 ed è collegata alla resurrezione dei morti. Come in molti testi biblici (ad es. 2 Mac 7,9) e apocrifi (Enoch 37,4; 40,9; ecc.) indica la vita dei giusti presso Dio dopo la resurrezione, vita in cui si entra (Mc 9,43.45) e che si riceve (10,30) o si eredita (10,17).

«Perché mi chiami buono»: le prime parole di Gesù sembrano di rifiuto. Nessuno è buono se non Dio. La bontà infatti è un attributo di Dio (cf. Sal 118,1-2; 1 Cr 16,34; 2 Cr 5,13) e non può riferirsi a nessuna creatura. Non sappiamo perché Gesù pur riconoscendo e riaffermando questa verità, rifiuti di essere chiamato buono. Lo credeva un semplice gesto di cortesia o peggio di adulazione? Voleva indirizzare l’interlocutore a riferire ogni cosa a Dio? Nel passo precedente (10,13-16) ha insistito sull’idea che l’entrata nel regno di Dio è un dono di Dio. Sicuramente la comunità primitiva non trovò in questo rifiuto alcunché contro la fede nella sua divinità (altrove più volte riaffermata) altrimenti non sarebbe stato riportato. Matteo rende più liscio il colloquio modificando la domanda dell’uomo: «Maestro, che cosa devo fare di buono…?», e la risposta di Gesù: «Perché mi interroghi su ciò che è buono» (Mt 19,17).

«Nessuno è buono, se non Dio solo»: Nella tradizione ebraica l’aggettivo «buono» si applica ovviamente a Dio, però è usato anche per molte altre cose (vedi Gen 1,4.10.12.18, ecc.). Per alcuni esegeti questa dichiarazione presenta un problema teologico. Forse Gesù sta ammettendo la propria inadeguatezza nei confronti di Dio? Oppure è una rivendicazione implicita della propria divinità? In questo caso agathós significa qualcosa di più di «buono» – come «grazioso» o «gratuito» – nel senso che il regno (come già in 10,13-16) è un dono che viene solo da Dio?

19 Gesù tuttavia non respinge la domanda e risponde citando i comandamenti idonei a far conseguire la vita eterna se osservati. Anche se l’ordine è insolito (5°, 6°, 9°, il 7°, l’8°, il 10°, il 4°) di nuovo e sempre la Tavola IIa del Decalogo, quella che riguarda il prossimo, come se i comandamenti su Dio fossero posti su una linea arretrata.

«non frodare»: questo precetto, introdotto tra i comandamenti del decalogo, può essere stato suggerito dalla condizione sociale dell’interlocutore, uomo ricco e quindi soggetto alla tentazione di accumulare, negando o ritardando agli operai la loro giusta paga (cf. Lv 19,13; Ml 3,5). Il comandamento potrebbe derivare da Es 20,17 (vedi anche Es 21,10 e Dt 24,14). La sua omissione in alcuni manoscritti di Marco e in Mt 19,18 e in Lc 18,20 dall’elenco dei Dieci Comandamenti sta a dimostrare che faceva veramente parte del testo di Marco.

20 Con franchezza e candore, il ricco risponde di aver obbedito ai precetti del Signore, fin da piccolo.

Il Signore ha scoperto un uomo eccezionale, un discepolo straordinario.

21 – «fissatolo lo amò»: notazione propria di Marco si rileva tutta la soddisfazione di Gesù per aver incontrato un uomo sinceramente religioso e desideroso di perfezione.

Gesù pone in atto i 3 verbi della vocazione: passava (v. 17), adesso guarda e chiama, ma prima lo ama di amore divino spontaneo (il verbo amare è agapáō).

«Una cosa sola ti manca»: Gesù vuole estendere all’uomo l’invito ad entrare nel suo movimento e diventare suo discepolo («e vieni, seguimi!»). Matteo interpreta questo invito in termini di perfezione: «Se vuoi essere perfetto…» (Mt 19,21).

«và vendi quello che hai e dallo ai -poveri»: sono imperativi; i comandi della salvezza e dell’incontro con il Signore. Come mostra l’esempio di Giobbe, ci si aspettava che un uomo pio prosperasse e poi diventasse un benefattore per i bisognosi (vedi Gb 1,1-5; 29,1-25). L’essere un benefattore a sua volta suscitava la gratitudine dei beneficiari e una buona reputazione nella società in genere. Gesù sta chiedendo all’uomo di spogliarsi non solo di tutti i suoi beni una volta per sempre ma di rinunciare anche al suo ruolo di benefattore.

«e avrai un tesoro in cielo»: Per questo tema vedi Mt 6,19-21 («Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov`è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore»). Vedi anche 4 Esdra 7,77 dove a Esdra viene detto: «Perché tu hai un tesoro di opere in custodia presso l’Altissimo; ma non ti verrà mostrato sino alla fine dei tempi». Gesù vuole indurre l’uomo ad ammettere che ci sono beni anche più grandi dell’essere ricco in questa vita e del fare la parte del benefattore.

«seguimi»: imp. presente. Il giovane con la sua richiesta si è già messo praticamente al seguito ordinario di Gesù; ora si tratta di passare a un seguito che dall’insieme prometterebbe di essere straordinario (cf. di Atanasio, Vita di An tonio). Le parole di Gesù rispondono al desiderio di perfezione del giovane e vogliono indicare in modo concreto ciò che egli deve fare per realizzare quell’unica cosa che gli manca.

Le parole di Gesù non contengono un obbligo assoluto per tutti, ma solo un consiglio di maggior perfezione. Per gli ebrei del tempo le ricchezze erano una benedizione di Dio, che permettevano di aiutare il prossimo con opere di bene come le elemosine (cf. Mt 6,2-4). Per Gesù, che più realisticamente vi vedeva un pericolo o un impedimento al raggiungimento del regno di Dio (cf. vv. 23-27), spogliarsi di esse era come rendersi liberi per poter camminare più speditamente. Per Luca è la condizione indispensabile per poter essere discepoli (cf. Lc 14,33).

22 – «rattristatosi»: Lett “corrugò la fronte”. L’uomo non ha il coraggio di rispondere in modo positivo all’invito di Gesù a diventare suo discepolo. Efficacissima la descrizione di Marco che mostra da una parte il sincero rincrescimento dell’uomo, ma dall’altra la sua incapacità a comprendere pienamente il valore dell’insegnamento di Gesù, verso il quale pur si sente attratto. È per lui una richiesta impossibile a compiersi.

23 – «volgendo lo sguardo attorno»: come in altre occasioni Gesù si guarda attorno, quasi a voler richiamare l’attenzione dei presenti sull’importanza di ciò che sta per dire.

«Quanto difficilmente»: Già nell’A.T. troviamo qualche avvertimento diretto a far riflettere sulla difficoltà a mettere insieme giustizia (in senso biblico) e ricchezza (cf. Sir 31,5-14).

Su questo tema insiste molto Luca (cfr 3,11; 6,30; 7,5; 11,41; 12,33-34; ecc.).

24-27 – «I discepoli erano stupefatti»: Per altri passi in cui Marco usa il termine thambéō vedi 1,27 e 10,32. Lo stupore dei discepoli probabilmente è causato dal presupposto comune che la ricchezza è un segno del favore e della benedizione di Dio (vedi Dt 28,1-14).

«Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!»: Questo è l’unico passo in Marco in cui Gesù si rivolge ai discepoli chiamandoli «figli» (tékna); ma vedi 2,5, dove il singolare téknon è rivolto al paralitico in senso affettivo. Mentre il v. 23 parla della difficoltà per i ricchi ad entrare nel regno di Dio, il v. 24 è un’affermazione generale della difficoltà di entrare nel regno per chiunque. In alcuni manoscritti l’affermazione generale è accompagnata da frasi quali «per quelli che fanno affidamento sulle ricchezze», «per quelli che sono ricchi», «per quelli che hanno molti beni».

«È più facile che …»: in modo tipicamente orientale Gesù non disdegna di utilizzare immagini forti ed iperboliche (cf. Mt 7,3-5; 23,24). Vari commentatori hanno cercato di attenuare la gravità del detto di Gesù proponendo di leggere kamilon («corda») a kamelon («cammello») o vedendo nella “cruna di un ago” il riferimento ad una porta angusta e bassa che si sarebbe trovata in Gerusalemme. Tentativi inutili e lontani dal pensiero dì Gesù: la salvezza è esclusiva opera di Dio e della sua Sapienza e Bontà.

«Essi, ancora più sbigottiti»: L’accresciuto sbigottimento dei discepoli deriva dunque dall’affermazione generale di Gesù nel v. 24 e dal suo detto riguardo al cammello nel v. 25. Se i ricchi, che hanno il tempo e i mezzi per osservare i comandamenti di Dio e la possibilità di poter fare l’elemosina, trovano tanto difficile potersi salvare, quanto più difficile sarà per chiunque altro!

«E chi può essere salvato?»: Gesù ha portato i discepoli a porgli la domanda teologica più fondamentale riguardo all’entrata nel regno di Dio e nella vita eterna. Essi sono costretti a riconoscere il carattere di «donazione» della salvezza e il fatto che l’iniziativa parte da Dio.

27 – «Impossibile agli uomini, ma non a Dio!»: La presenza di questo detto con la sua connotazione positiva («tutto è possibile a Dio») sposta l’insegnamento di Gesù riguardo all’entrata nel regno di Dio dall’enfasi su ciò che l’uomo deve fare (vedi i vv. 19 e 21) al riconoscimento del fatto che è Dio che dà corso al processo della salvezza e che invita la gente ad entrare nel regno (come in 10,13-16). Qui si può scorgere un’eco di Gen 18,14 («C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore?», vedi anche Gb 10,13; 42,2; Zc 8,6).

28-30 – 1 discepoli non sono ancora convinti di tutto e avendo abbandonato tutto per seguire il Signore, si propongono come candidati per un premio. Il solito Pietro prende la parola per i discepoli meditabondi, e timidamente avanza per sé e per i suoi confratelli la candidatura alla salvezza: vedi, Signore, noi ormai abbiamo rinunciato proprio a tutto (Mc 1,18.20), e certo non dice: dunque noi stiamo a posto, perché gli resta un dubbio, e vuole che glielo dica il Maestro (v. 28). E il Maestro risponde e parla a tutti i discepoli in modo solenne, con l’“amen” come premessa, enunciando le conseguenze della vocazione, dell’accettazione di essa. Lo spogliamento a causa di Lui e dell’Evangelo (v. 29), è relativo alla casa, alla famiglia, ai terreni. Chi ha abbandonato questi beni veri, che sono anche dei valori reali, ne riceverà, ovviamente in altra forma, cento volte altrettanto «adesso e in questo tempo». La risposta di Gesù è simile alla chiamata per il ricco: aver abbandonato tutto merita un premio grande da parte di Dio, certamente!

Ma non basta, il Signore lascia per ultimo l’avviso crudo: riceverà tutto quello «insieme con persecuzioni», da accettare. E poi, ma dopo tutto questo, nel secolo e mondo che viene, riceverà la vita eterna. (v. 30).

Tale premio adesso è cento volte (grande quantità) quanto è stato lasciato «sotto forma di persecuzioni» e poi la vita etema.

Il v.31 non appartenente alla lettura liturgica è un avvertimento valido sia per il ricco che per i discepoli (che per primi hanno abbandonato tutto per seguire Gesù). L’idea che vuole trasmettere è il capovolgimento dei valori che accompagnerà la venuta del regno di Dio nella sua pienezza.

La II preghiera di colletta ci prepara all’ascolto delle letture pregando con le seguenti parole:

O Dio, nostro Padre,

che scruti i sentimenti e i pensieri dell’uomo,

non c’è creatura che possa nascondersi davanti a te;

penetra nei nostri cuori con la spada della tua parola,

perché alla luce della tua sapienza

possiamo valutare le cose terrene ed eterne,

e diventare liberi e poveri per il tuo regno.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…