XIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B
Il vangelo di Marco già dal secondo capitolo, nell’episodio del paralitico che viene calato dal tetto fa vedere che la questione non è della guarigione fisica ma della salvezza. La questione non è la morte ma quello che la produce, cioè il peccato: bisogna cominciare con la radice, partire dal perdono del peccato per essere riammessi all’unione con Dio, dopo c’è anche la guarigione, ma non è assolutamente necessaria. Si rende visibile il passaggio dal peccato alla morte e dalla salvezza alla guarigione. Si può però essere perdonati, ammessi all’unione con Dio da figli, ma rimanere malati. Nell’episodio del paralitico Cristo mostra che comunque nell’essere riammessi all’unione con Dio si salva l’intera vita dell’uomo, anche la sua carne. Nei vari passaggi dei capitoli successivi si vede come in questo gioco di morte è caduta anche la religione che isolando ed escludendo tutti quelli che sono segnati dal peccato o dalla morte finirà per condannare a morte Cristo stesso. Ma a cosa serve una religione se non per la vita?
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Nel vangelo di oggi Cristo torna nella sua terra dal paese dei pagani, dove ha cominciato la liberazione dal demonio. Questo suo ritorno è segnato dalla manifestazione di una nuova realtà, cioè la realtà della fede, la realtà che si basa e si realizza in pienezza solo in una relazione di affidamento totale ad una persona concreta che è Gesù di Nazareth, vero uomo e vero Dio. È la relazione che è costituiva dell’esistenza dell’uomo e perciò salva tutta la vita nella sua interezza, dice di dare da mangiare alla figlia di Giairo a far vedere che la vita che riceviamo da Lui – e che noi nel Battesimo abbiamo ricevuto veramente da Lui – non è alternativa alla vita che abbiamo ricevuto dai genitori, ma è una vita che assorbe l’altra salvandola. Non può evitare la morte, ma nell’unione con Cristo questa morte è un passaggio. È interessante perché in tutti e due gli esempi torna il numero 12. L’emorroissa soffre da dodici anni e dodici anni ha la bambina: dodici è il numero di Israele, le dodici tribù sono la pienezza del popolo ebraico, di tutto Israele. Tutte e due vengono chiamate figlie: una lo è e l’altra è così chiamata quando viene guarita. Questa immagine di Israele dice che stiamo parlando della figlia di Sion, colpita davvero da una ferita mortale (cf Ger 14,17). Nessun medico riesce a guarirla, anzi a causa dei medici l’emorroissa è peggiorata senza che servisse a nulla dare tutto ciò che aveva per guarire.
È l’immagine del popolo di Israele, l’immagine dell’Alleanza che è arrivata ad una sclerosi religiosa tale che non è più capace di dare la vita. Che il capo della sinagoga stia perdendo la figlia indica che i capi della religione non sono capaci di salvare il popolo, hanno alle spalle una religione sterile, una religione che veramente non serve la vita ma porta alla morte. Basta ricordare a quale emarginazione le prescrizioni del Levitico 15 sottoponevano la donna che perdeva il sangue dichiarando impuro tutto ciò che toccava.
Perciò adesso ci vuole una forza che irrompe, che spacca, che trasgredisce, perché la religione e la fede non possono convivere.
La donna con il suo gesto rischia la morte e Cristo rischia di essere punito perché ha toccato uno morto diventando a sua volta impuro. La donna tocca Cristo e non poteva toccarlo, Cristo tocca la fanciulla e non poteva toccarla: ci vuole una trasgressione davanti a ciò che la religione proibisce. In fondo forse la questione è sempre quella di osare una spaccatura, di osare trasgredire la religione. La decadenza va nella direzione di riportare la fede al livello della cultura umana, a qualcosa che l’uomo può gestire, in cui l’uomo può essere protagonista e che inevitabilmente apre a una cultura di morte appiattendo quella fede che una volta era la sorgente viva. Si comincia con lo Spirito e si finisce con la carne (cf Gal 3,3), con una serie di abitudini e di prescrizioni di cose ferree dove le cose diventano più importanti dell’amore, della persona e della comunione, dell’unione con Cristo.
Quando al primo posto non c’è la vita nuova in Cristo, la vita del Corpo di Cristo che siamo noi, allora si intravede l’inizio di un processo di sclerosi che ci rimette in una situazione dove vincono le cose scheletriche, non vive, i formalismi di tutte le specie che non lasciano pulsare la vita.
Alla donna dice: “La tua fede ti ha salvato” (Mc 5,34) e la sua fede è riassunta nel: “Se riuscirò anche solo a toccargli le vesti, sarò salva” (Mc 5,28). Questo ragionamento ha salvato la donna, perché, proprio come dice Solov’ev, è dalla fede che nasce un ragionamento giusto perché è un ragionamento che è partito da una relazione di fiducia e di affidamento assoluto. È questa fiducia, questo affidamento, questo amore per Cristo come Salvatore che mi fa nascere un pensiero, un ragionamento conforme a Cristo. La fede si vede sia nel modo di pensare sia nell’agire: “vista la loro fede” che faceva loro scoperchiare il tetto per calare il paralitico (cf Mc 2,5). È artificiale pensare che possa arrivare in modo inverso, fare le cose giuste per avere il pensiero giusto e conoscere Cristo, incontrarlo. Questa è l’angolatura sbagliata e oltretutto priva di libertà. A Giairo dice: “Non temere, tu solo continua ad aver fede” (Mc 5,36), tu solo affidati, tu solo continua a fare così come hai fatto, ti sei gettato ai piedi, che è lo stesso gesto che ha fatto anche un pagano (cf Mc 5,6). Questo è il punto di incontro tra il capo di una istituzione religiosa e un pagano indemoniato: la constatazione dell’insufficienza di sé che apre alla fede, fuori dalla religione prodotta che pensa a cosa bisognerebbe fare per far piacere a Dio, per essere salvati dalle proprie opere buone.
Il vangelo di oggi apre la prospettiva tra una relazione salvifica, che salva anche la carne, o una religione, cioè qualcosa che io creo o mi impegno a compiere per salvarmi ma che alla fine seppellisce me e gli altri intorno a me.
P. Marko Ivan Rupnik – Fonte