“Come io ho amato voi”
Continua col lezionario odierno il brano del Vangelo di Giovanni che ci ha accompagnato domenica scorsa. Siamo nel contesto dell’ultimo saluto di Gesù ai discepoli, nel lungo discorso della cena giovannea.
Nel primo versetto del testo troviamo la parola “amore”, che, come sappiamo, è uno dei temi propri del Quarto Vangelo; qui, infatti, si registra la più alta frequenza del termine in tutto il Nuovo Testamento: solo il verbo amare ricorre 37 volte, e il sostantivo amore 7 volte. Già all’inizio del Vangelo – nelle parole dette da Gesù a Nicodemo – vediamo scritto che «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). La prima volta che si parla di amore, Giovanni parla dell’amore di Dio per gli uomini. Ma subito dopo, l’evangelista aggiunge: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (3,35). Un’affermazione simile a questa apre il nostro lezionario, quando viene detto che quell’amore del Padre verso il Figlio non si ferma a lui, ma viene nuovamente comunicato e sempre ridonato: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi» (15,9).
Ma prima di approfondire, ritorniamo all’idea che Dio ha amato il mondo, che possiamo commentare con le parole di Benedetto XVI dalla sua enciclica Deus Caritas Est. Lì si cerca di spiegare perché – come scritto nel Quarto Vangelo – Dio ama il mondo. La risposta è: perché l’ha fatto lui: «Egli stesso è l’autore dell’intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui fatta». Quindi Dio ama il mondo, e in esso l’uomo, come una madre ama il figlio che ha generato, portato in grembo, nutrito e partorito. Per questa ragione l’uomo può sentire su di sé un vero amore personale, particolare, da parte del suo Signore. Ancora Benedetto XVI: «L’uomo, vivendo nella fedeltà all’unico Dio, sperimenta se stesso come colui che è amato da Dio e scopre la gioia nella verità, nella giustizia, la gioia in Dio che diventa la sua essenziale felicità: “Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra… Il mio bene è stare vicino a Dio”».
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Ecco allora cosa viene richiesto ai credenti: di rimanere nell’amore ricevuto dal Padre e dal Figlio. Per far questo, anche i discepoli devono amare. È quella che è stata chiamata la “catena d’amore”, interamente giovannea: «L’amore può sussistere solo se produce altro amore. Il Padre ama Gesù; Gesù ama i discepoli; essi devono amarsi l’un l’altro» (R. Brown). Qualcosa di simile troviamo anche nel Vangelo di Matteo, quando questi scrive «Amate i vostri nemici… perché siate figli del Padre vostro celeste» (Mt 5,44-45), e dove appunto si mostra il legame stretto tra l’amore per gli altri e l’amore ricevuto dal Padre.
“Amare” significa però molte cose: in quale senso avrà usato Gesù questa parola, che – come ci ha insegnato Benedetto XVI – può avere molti significati? Scriveva il papa emerito: «Il termine amore è oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate, alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti. [… Oltre all’amore tra uomo e donna, infatti] si parla di amor di patria, di amore per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro, di amore tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell’amore per il prossimo e dell’amore per Dio». Nel brano di Giovanni, pare che l’insistenza venga posta sulla modalità dell’amore, un amore “totale”, l’amore che diventa quello tipicamente cristiano, ovvero quello indicato dall’espressione “come io vi ho amati” (15,12). Qui è la differenza, spiegata ulteriormente da Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (v. 13). Ecco cosa intende il Cristo quando parla di amore: un amore che non si risparmia, ed è disposto a dare tutto, anche la vita. Se non è fino in fondo, l’amore cristiano – al pari di ogni sentimento umano – diventa pura retorica, buon proposito, teoria… e anche noi credenti rischiamo a volte di svuotare di senso la parola, se non le conferiamo quello usato da Gesù col dare la sua vita. Ecco allora che anche la gioia, non quella passeggera, effimera, sguaiata o falsa, può venire solo da un amore vero, che non si risparmia.
Un’ultima considerazione che riguarda l’amicizia,
a partire dal v. 13, «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici», che ora approfondiamo. Essa anzitutto deve essere spiegata in un senso inclusivo e non esclusivo, in quanto «afferma in maniera assoluta che la dimostrazione più grande dell’amore che si ha per le persone amate è arrivare a dare la propria vita per loro e non certo che l’amore cristiano debba limitarsi ai soli amici» (R. Infante). Detto questo, gli studiosi si chiedono se le parole di Gesù sull’amicizia debbano essere lette sullo sfondo della concezione biblica o di quella greco-ellenistica. Chi sceglie di interpretare il detto di Gesù sul dare la vita per gli amici sullo sfondo biblico giudaico, mette l’accento sul fatto che «gli amici di Gesù sono coloro che si aprono alla sua rivelazione e al suo amore» (R. Infante), proprio Abramo e Mosè e tutti coloro che dopo di lui sono stati amici di Dio. Chi, invece, cerca dei precedenti nelle letterature e filosofie classiche, e ritiene che «l’interpretazione giovannea dell’amore in termini di amicizia è con molta probabilità ripresa dal mondo greco-ellenistico per interpretare la morte di Gesù come suprema espressione di dedizione» (S. Grasso), trova soprattutto un termine di confronto con l’Etica Nicomachea di Aristotele (384-322 a.C.), i cui libri VIII e IX sono dedicati all’amicizia. Il passo che normalmente viene avvicinato alle parole di Gesù sul dare la vita per gli amici è il seguente: «Per quanto riguarda l’uomo eccellente, è vero che egli compie molte cose per gli amici e per la patria, anche se dovesse morire per loro: sacrificherà ricchezze, onori e in generale i beni che sono oggetto di contesa, riservando per sé il bell’agire» (IX, 8, 1169a). La frase di Aristotele dimostrerebbe, perciò, che l’evangelista Giovanni «ha rivestito con un linguaggio biblico una classica regola sull’amicizia, in modo da applicarla alla relazione di Gesù coi suoi discepoli, e a quella dei discepoli tra loro» (G.R. Beasley-Murray).
Se rileggiamo alcuni tratti del Quarto vangelo da questa prospettiva, emerge un altro elemento non ancora notato: davvero Gesù ha dato la vita per quelli che ha chiamato amici, e ha iniziato a farlo dal momento in cui ha rianimato Lazzaro, l’“amico” di Gesù (Gv 11,11). È infatti dopo la sua risurrezione che, scrive Giovanni, radunatosi il sinedrio (che nei vangeli sinottici si ritrova invece in un altro momento) «decisero di uccidere» Gesù (Gv 11,53). Quanto è accaduto e ha coinvolto Lazzaro è talmente grande che non lascia indifferenti: e se molti hanno creduto, grazie a questo segno, a Gesù, «la notizia di Lazzaro, tornato in vita dopo essere stato quattro giorni nel sepolcro, deve aver seminato il panico tra le autorità che, in gran fretta, decidono una riunione straordinaria del Sinedrio» (R. Infante). Davvero il gesto di amore che Gesù compie nei confronti dell’amico gli costa la vita. Il rapporto tra morte e amore si sviluppa nel Nuovo Testamento nel senso che amare è dare la vita per chi si ama (cfr. Gv 15,13); si tratta però di un amore da cui nessuno può separarci, perché è un amore che nasce dalla morte e risurrezione del Cristo (cfr. Rm 8,35-39» (L. Mazzinghi).
Non servi ma amici (Gv 15,14-15). L’amicizia sincera, oltre a dare la vita per l’altro, permette di descrivere uno speciale rapporto tra persone che non sono più considerate come servi, in una dipendenza da un padrone, ma amici, in una relazione paritaria, come dice Gesù in Gv 15,14-15. Anche se l’essere “servi” nel linguaggio biblico non implica qualcosa di negativo – si pensi al «Servo di Yhwh» nel libro del profeta Isaia, o a Gesù che è paragonato alla stessa figura di Servo dall’evangelista Matteo (8,17; 12,17-21), o, ancora, a Maria che si dichiara «serva del Signore» (Lc 1,38) – qui probabilmente Giovanni ha in mente la stessa distinzione che il filosofo ebreo della diaspora Filone faceva a proposito della sapienza, che «è amica di Dio, piuttosto che sua serva» (De sobrietate 11). La differenza che pone Giovanni tra l’essere servi o amici di Gesù corrisponde alla differenza, nota agli ebrei, tra l’essere servi o amici di Dio. Gesù ha sollevato i suoi discepoli da una condizione servile e li ha elevati ad un amore sincero, che si esprime nell’amicizia, la quale non implica semplicemente la fedeltà e il servizio, ma anche la condivisione profonda dei cuori: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).
È ancora nel trattato filosofico di Aristotele Etica Nicomachea che si trovano elementi illuminanti. L’amicizia per Aristotele implica, tra altre cose, la reciprocità e non può rimanere nascosta, ma deve essere visibile, cerca il bene dell’altro e non il proprio interesse, perdura nel tempo e, come si diceva, rende uguali: «In tutte le amicizie che si basano sulla superiorità [come ad esempio quella del padre per il figlio e in generale del più anziano verso il più giovane, del marito verso la moglie e di ogni specie di governante per il sottoposto] deve essere proporzionale anche l’affetto, cioè, per esempio, il migliore deve essere amato più di quanto deve amare, e ciò vale anche per il più utile e per tutti gli altri; quando l’affetto si genera secondo il valore allora si produce in qualche modo un’uguaglianza, la quale, in conclusione, pare essere la caratteristica tipica dell’amicizia» (VIII, 8, 1158b).
Per tutte queste ragioni – e altre che non possiamo elencare qui (si veda a proposito il nostro G. Michelini, «Due modi per dire lo stesso amore. Rileggere il Quarto vangelo alla luce del Cantico dei cantici», in M. Zattoni – G. Gillini – G. Michelini, Il Cantico di tutti i cantici. La gioia della relazione tra uomo e donna, Edizioni Porziuncola, S. Maria degli Angeli – Assisi 2016, 115-169) – si può affermare che la categoria dell’amicizia è una delle punte più importanti della teologia giovannea, quella che esprime la relazione più stretta con l’altro. Per usare le parole di una esegeta che si è soffermata a lungo sulla questione, se l’«amicizia è normalmente relegata alla sfera secolare […], la citazione dal vangelo di Giovanni [Gv 15,12-15] dimostra che niente è più lontano dalla verità. Per Gesù l’amicizia è la punta più alta del rapporto con Dio e con gli altri» (G. O’Day). Infatti «l’amicizia nel Quarto vangelo è l’emanazione dell’amore di Dio che si incarna in Gesù e che Gesù coraggiosamente mette a disposizione al mondo» (G. O’Day). L’amicizia, insomma, è il centro teologico del vangelo di Giovanni.