9 maggio 2010 VI Domenica di Pasqua (Anno C)
At 15,1-2.22-29 / Sal 66 / Ap 21,10-14.22-23 / Gv 14,23-29
Pacificati
Giuda e Pietro sono travolti dalle tenebre: Giuda dal male, Pietro dal “bene”. Gesù li salverà entrambi: egli è il Pastore che cerca proprio la pecora perduta, che non è venuto per i sani ma per i malati, che manifesta la sua gloria proprio perché, tradito, continua ad amare. Siamo ormai nel cuore del tempo Pasquale: all’orizzonte già vediamo la Pentecoste. Oggi il Signore, durante il lungo discorso che fa dopo l’ultima Cena nel Vangelo di Giovanni, ci chiede di dimorare in lui, di custodire e vivere le sue parole, di sperimentare la pace del cuore che proviene dallo Spirito. La prima comunità deve affrontare problemi contingenti molto seri, restando fedele al mandato del Signore: sarà proprio lo Spirito ad aiutarli a decidere, discutendo.
Concretezza
Domenica scorsa Giovanni sostituiva il sacramento della Cena col sacramento dell’amore nella comunità. Siamo riconosciuti dall’amore che abbiamo gli uni per gli altri, amore che non è il frutto delle nostre simpatie ma dell’accoglienza dell’amore di Cristo. Possiamo amarci gli uni gli altri con l’amore che Cristo ci ha donato. Siamo fatti capaci di amare, donando noi stessi nella concretezza. Gesù è molto concreto: l’amore verso di lui significa vivere le sue Pparole, i suoi insegnamenti, la sua dottrina. Quanta scollatura vedo in me tra la fede che proclamo e la fede che vivo! Quanta abissale lontananza tra la nostra appartenenza al cattolicesimo e la nostra vita poco evangelica. Osserviamo la sua Parola, meditiamola, mettiamola al centro, nel cuore, diventi essenziale nella nostra vita, sia la bussola della nostra navigazione. Senza interpretare la Parola riducendola ad un vago, non piegandola ad una asfittica visione socio-culturale ma accogliendola con la forza sferzante, con l’energia potente che emana l’incontro con Cristo. Lasciamo che il Vangelo contagi le nostre scelte, le nostre città, le nostre economie, il nostro invivibile mondo del lavoro.
Scelte
La prima comunità affronta un dilemma grave: occorre essere ebrei per diventare cristiani? Giacomo e la comunità di Gerusalemme spingono in questa direzione, Paolo e Barnaba, al contrario affermano che Gesù è venuto per ogni uomo, e lo dimostra il fatto di vedere la Parola convertire il cuore dei pagani. Lo scontro è duro, ma leale: a Gerusalemme gli apostoli discutono rudemente e, alla fine, danno ragione a Paolo. Questo è lo stile dell’essere Chiesa, decidere insieme nel rispetto dei propri ministeri e carismi, ascoltando il suggerimento dello Spirito. Questo è lo stile delle nostre comunità che prendono a cuore i problemi e cercano le soluzioni non a partire dall’emozione o dalle proprie opinioni, ma alla continua ricerca della volontà del Maestro.
Pacificati
“Vi do la mia pace, non come la dà il mondo”: il confine del male e del bene è nel nostro cuore, il nemico è dentro di noi, non fuori, e la prima autentica pacificazione deve avvenire nel nostro intimo con noi stessi e la nostra violenza e la nostra rabbia, la parte oscura che i discepoli chiamano “peccato”. I cristiani, spesso, quando parlano di pace… pensano al cimitero! Una scorretta e parziale visione di fede, là dove il cristianesimo è fiacca e svogliata appartenenza ad una serie di credenze e di gesti rituali, parla di pace il primo novembre, pensando ai nostri defunti che riposano “in pace” (e che devono fare, ballare la samba?). La pace, secondo la Parola di Gesù, è il primo dono che egli fa’, risorto, apparendo agli impauriti discepoli. Un cuore pacificato è un cuore saldo, irremovibile, che ha colto il suo posto nel mondo, che non si spaventa nelle avversità, non si dispera nel dolore, non si scoraggia nella fatica. La scoperta di Dio, nella propria vita, l’incontro gioioso con lui, la percezione della sua bellezza, la conversione al Signore Gesù riconosciuto come Dio, suscita nel cuore delle persone una gioia profonda, sconosciuta, diversa da ogni altra gioia. È la gioia del sapersi conosciuti, amati, preziosi. E la scoperta dell’amore di Dio mi apre a scenari nuovi, inattesi: il mondo ha un destino di bene, un amorevole disegno che, malgrado la fatica della storia e dell’umanità, confluisce verso Dio. E in questo progetto io, se voglio, ho un ruolo determinante. Sono una tessera di un mosaico immenso, grandioso, luminoso, sono parte di un tutto che realizzo amando e lasciandomi amare. Scoprire il proprio destino, la propria chiamata intima, la propria vocazione, mi mette le ali, mi cambia l’umore. Malgrado i miei limiti, le mie fragilità, le mie paure, posso amare e, amando, cambia il mondo intorno a me.
Dono di Cristo
Ecco, questa è la pace: sapersi nel cuore di una volontà benefica e salvifica, scoprirsi dentro il mistero nascosto del mondo. Credere in questo, adesione alla fede quasi sempre tormentata e sofferta, non immediata e leggera, dona la pace del cuore. Io sono amato, tu, amico lettore, sei amato. Insieme a Dio, se vuoi, possiamo cambiare il mondo. Questa pace è pace profonda, pace salda, pace irremovibile, ben diversa dalla pace del mondo, pace che viene venduta come assenza di guerra o, peggio guerra che viene ritenuta necessaria per imporre la pace. Pace del sapersi amati che permette di affrontare con serenità anche le paure. Paura del futuro, della malattia, del lavoro precario, del non sapersi amati, paura. La pace del cuore, dono e conquista, fiamma da alimentare continuamente alla fiamma del risorto, aiuta ad affrontare la paura con fiducia, a non avere il cuore turbato. Alla fine di questi splendidi giorni di Pasqua, invochiamo il Consolatore, donato dal Padre, per affrontare la nostra quotidianità con la certezza della presenza del Signore, giorno dopo giorno, passo dopo passo.
Altrove
Ma tutto questo è un già e un non ancora, il mondo che vediamo fiorire porterà frutto solo nel dopo, nell’altrove. Giovanni guarda alla Chiesa e vede una sposa radiosa e luminosa, adorna, pronta per il suo sposo, Cristo. Non perdiamo mai di vista il fatto che tutto ciò che viviamo vive un senso di incompletezza, una tensione verso una pienezza che ancora non vediamo, ma che siamo in grado di incarnare, di sognare, di inseguire, di realizzare come caparra del Regno.