Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 9 Giugno 2019.
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Pentecoste: Lo Spirito, speranza di un mondo nuovo
I fenomeni naturali che più impressionano la fantasia dell’uomo – il fuoco, la folgore, l’uragano, il terremoto, i tuoni (Es 19,16-19) – sono impiegati nella Bibbia per raccontare le manifestazioni di Dio.
Anche per presentare l’effusione dello Spirito del Signore gli autori sacri sono ricorsi ad immagini. Hanno detto che lo Spirito è soffio di vita (Gen 2,7), pioggia che irrora la terra e trasforma il deserto in un giardino (Is 32,15; 44,3), forza che ridona vita (Ez 37,1-14), rombo dal cielo, vento che si abbatte gagliardo, fragore, lingue come di fuoco (At 2,1-3). Tutte immagini vigorose che suggeriscono l’idea di un’incontenibile esplosione di forza.
Dove giunge lo Spirito avvengono sempre sconvolgimenti e trasformazioni radicali: cadono barriere, si spalancano porte, tremano tutte le torri costruite dalle mani dell’uomo e progettate dalla “sapienza di questo mondo”, scompaiono la paura, la passività, il quietismo, si sviluppano iniziative e si fanno scelte coraggiose.
Chi è insoddisfatto e aspira al rinnovamento del mondo e dell’uomo può contare sullo Spirito: nulla resiste alla sua forza.
Un giorno il profeta Geremia si è chiesto sfiduciato: “Cambia forse un Etiope la sua pelle o un leopardo la sua picchiettatura? Allo stesso modo, potrete fare il bene voi abituati a fare il male?” (Ger 13,23).
Sì – gli si può rispondere – ogni prodigio è possibile là dove irrompe lo Spirito di Dio.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Lo Spirito del Signore riempie l’universo e rinnova la faccia della terra”.
Prima Lettura (At 2,1-11)
1 Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. 2 Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. 3 Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; 4 ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi.
5 Si trovavano allora in Gerusalemme giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. 6 Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua.
7 Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: “Costoro che parlano non sono forse tutti galilei? 8 E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? 9 Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, 10 della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, 11 Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”.
Gesù ha promesso ai suoi discepoli che non li avrebbe lasciati soli e che avrebbe inviato lo Spirito (Gv 14,16.26). Oggi celebriamo la festa di questo dono del Risorto.
Leggendo il brano degli Atti rimaniamo stupiti di fronte ai numerosi “prodigi” accaduti nel giorno di Pentecoste: tuoni e vento impetuoso, fiamme che scendono dal cielo, gli apostoli che parlano tutte le lingue.
Ci domandiamo anche per quale ragione Dio ha atteso cinquanta giorni prima di mandare sui discepoli il suo Spirito.
Per comprendere questa pagina di teologia (non di cronaca) dobbiamo addentrarci un poco nel linguaggio simbolico impiegato dall’autore.
Luca colloca la discesa dello Spirito nel giorno di Pentecoste. Eppure, proprio nel Vangelo di oggi, Giovanni racconta che Gesù ha comunicato lo Spirito il giorno stesso della risurrezione (Gv 20,22). Come si spiega questo mancato accordo sulla data?
Diciamo subito con chiarezza: il mistero pasquale è unico. Morte, Risurrezione, Ascensione e dono dello Spirito sono avvenuti nel medesimo istante, nel momento della morte di Gesù. Raccontando ciò che è accaduto sul Calvario in quel venerdì santo, Giovanni dice che, chinato il capo, Gesù diede lo Spirito (Gv 19,30).
Perché allora quest’unico, sublime, ineffabile mistero pasquale è stato presentato da Luca come se fosse accaduto in tre momenti successivi? Lo ha fatto per aiutare a comprenderne i molteplici aspetti.
Giovanni ha posto l’effusione dello Spirito nel giorno di Pasqua per mostrare che lo Spirito è dono del Risorto. Ora vediamo per quale ragione Luca la colloca nel contesto della festa di Pentecoste.
La Pentecoste era una festa ebraica molto antica, celebrata cinquanta giorni dopo la Pasqua: commemorava l’arrivo del popolo di Israele al monte Sinai. Tutti ricordiamo cosa è accaduto in quel luogo: Mosè è salito sul monte, ha incontrato Dio ed ha ricevuto la Legge da trasmettere al suo popolo.
Gli israeliti erano molto orgogliosi di questo dono: dicevano che, prima che a loro, Dio aveva offerto la Legge ad altri popoli, ma questi l’avevano rifiutata, preferendo continuare con i loro vizi e sregolatezze. Per ringraziare Dio di questa predilezione, gli israeliti avevano istituito una festa: la Pentecoste.
Dicendo che lo Spirito era sceso sui discepoli proprio nel giorno di Pentecoste, Luca vuole insegnare che lo Spirito ha sostituito l’antica legge ed è divenuto la nuova legge per il cristiano.
Per spiegare cosa intende dire ricorriamo a un paragone. Un giorno Gesù ha detto: “Si raccoglie forse uva dalle spine o fichi dai rovi?” (Mt 7,16). Sarebbe insensato immaginare che circondando di premure un rovo, potandolo, creandogli attorno un clima più mite potrebbe arrivare a produrre uva. Tuttavia, se – con un prodigio d’ingegneria genetica – si riuscisse a trasformarlo in una vite, allora non sarebbe più necessario alcun intervento esterno. Il rovo produrrebbe spontaneamente uva.
Prima di ricevere l’effusione dello Spirito, il mondo era come un grande rovo. Dio aveva dato agli uomini ottime indicazioni – un decalogo, dei precetti, tanti consigli – e si aspettava frutti, opere di giustizia e di amore (Mt 21,18-19), ma questi non sono arrivati perché l’albero rimaneva cattivo e “nessun albero cattivo dà frutti buoni… l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male” (Lc 6,43.45).
Che cosa ha fatto allora Dio? Ha deciso di cambiare il cuore degli uomini. Con un cuore nuovo – ha pensato – essi non avrebbero più avuto bisogno di alcuna legge esterna, avrebbero compiuto il bene seguendo gli impulsi venuti dal loro intimo.
Ecco cos’è la legge dello Spirito: è il cuore nuovo, è la vita di Dio che, quando entra nell’uomo, lo trasforma e da rovo lo fa divenire un albero fecondo, capace di produrre spontaneamente le opere di Dio.
Quando l’uomo è riempito dello Spirito, in lui accade qualcosa di inaudito: ama con l’amore stesso di Dio. Da quel momento “non ha più bisogno che alcuno lo ammaestri” (1 Gv 2,27), non gli occorre altra legge. Giovanni arriva a dire che l’uomo animato dallo Spirito diviene addirittura incapace di peccare: “Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché in lui dimora un germe divino, e non può peccare perché è nato da Dio” (1 Gv 3,9).
E i tuoni, il vento, il fuoco? Ma è chiaro: andiamo a vedere nel libro dell’Esodo quali fenomeni hanno accompagnato il dono dell’antica legge: “Al mattino presto ci furono tuoni, lampi, una nube densa sopra il monte e un suono fortissimo di tromba e tutto il popolo ebbe paura” (Es 19,16). “Tutto il popolo vedeva le voci, i tuoni, il suono della tromba e vedeva il monte che fumava” (Es 20,18).
I rabbini dicevano che sul Sinai, nel giorno di Pentecoste, quando Dio aveva dato la Legge, le sue parole avevano preso la forma di settanta lingue di fuoco, per indicare che la Torah era destinata a tutti i popoli (che in quel tempo si pensava fossero appunto settanta).
Se l’antica legge era stata data in mezzo a tuoni, lampi, fiamme di fuoco… come avrebbe potuto Luca presentare in modo diverso il dono dello Spirito – nuova legge? Se voleva farsi capire doveva impiegare le medesime immagini.
E le molte lingue parlate dagli apostoli?
Probabilmente Luca si richiama ad un fenomeno molto comune nella chiesa primitiva: dopo aver ricevuto lo Spirito, i credenti cominciavano a lodare Dio in uno stato di esaltazione e, come in estasi, pronunciavano parole strane in altre lingue.
Luca ha utilizzato questo fenomeno in un senso simbolico per insegnare l’universalismo della Chiesa. Lo Spirito è un dono destinato a tutti gli uomini e a tutti i popoli. Di fronte a questo dono di Dio crollano tutte le barriere di lingua, razza e tribù. Nel giorno di Pentecoste succede il contrario di quanto è accaduto a Babele (Gen 11,1-9).
Là gli uomini hanno cominciato a non capirsi e ad allontanarsi gli uni dagli altri; qui lo Spirito mette in atto un movimento opposto: riunisce coloro che si sono dispersi.
Chi si lascia guidare dalla parola del Vangelo e dallo Spirito parla una lingua che tutti comprendono e che tutti unisce: il linguaggio dell’amore. È lo Spirito che trasforma l’umanità in un’unica famiglia dove tutti si capiscono e si amano.
Seconda Lettura (Rom 8,8-17)
8 Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio.
9 Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10 E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione.
11 E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
12 Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; 13 poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete.
14 Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio.
15 E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!».
16 Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio.
17 E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
I rabbini del tempo di Paolo sostenevano che l’uomo è conteso da due inclinazioni che lo trascinano in direzioni opposte. Quella buona si manifesta soltanto all’età di tredici anni; quella cattiva invece è presente fin dal concepimento ed esercita il suo potere sin da quando l’uomo è in embrione.
Per contrastarla suggerivano un antidoto: occuparsi della Toráh, della Legge di Dio. “Se una tentazione spregevole vi viene incontro – insegnavano ai discepoli – conducetela fino alla casa dove si studia la Toràh” e sarà resa innocua.
Paolo è più pessimista. Nella Lettera ai galati elenca una drammatica lista di opere che derivano dall’impulso al male, da quella forza cattiva che egli chiama carne: “Rapporti sessuali illeciti, impurità, libertinaggio, culto idolatrico e arti magiche, inimicizie, liti, gelosie, collera, rivalità, spirito fazioso, scissioni, divisioni, invidie, ubriachezze e orge (Gal 5,19-21).
E diverge poi dai rabbini perché ritiene che le pulsioni della carne non possono essere vinte o rese inoffensive dalla conoscenza della Toràh.
L’uomo si trova quindi in una condizione disperata: “non fa quello che vuole, ma ciò che detesta… acconsente nel suo intimo alla legge di Dio, ma nelle sue membra ha un’altra legge che muove guerra alla legge della sua mente e lo rende schiavo della legge del peccato che è nelle sue membra” (Rm 7,14-23). Di fronte a questa incapacità di mantenersi fedeli a Dio, Paolo esclama: “Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rm 7,24).
Non certo la Legge – risponde – perchè, pur essendo santa, non comunica all’uomo la forza interiore per resistere al male. Essa può essere paragonata alla segnaletica stradale per chi si trova alla guida di un’auto scassata e senza benzina: non darebbe alcun aiuto, sarebbe lì unicamente per richiamare allo sfortunato autista la sua triste condizione e la distanza che lo separa dalla meta.
Solo il dono di una forza divina può cambiare radicalmente la situazione.
È a questo punto che Paolo introduce il discorso dello Spirito che, penetrando nell’intimo dell’uomo, ne trasforma il cuore, gli comunica l’energia di vita, gli infonde la capacità di essere fedele a Dio. La conseguenza di questa trasformazione è la libertà dalla schiavitù del peccato.
Nella prima parte della lettura di oggi (vv. 8-10) l’Apostolo sviluppa questo pensiero e ne deduce le conseguenze morali. Ora – ricorda ai cristiani di Roma – non siete più in balia della carne ma siete mossi dallo Spirito di Cristo. Coloro invece che chiudono il cuore allo Spirito non possono piacere a Dio e non appartengono a Cristo.
Nella seconda parte (v. 11) evidenzia un altro straordinario effetto della presenza nell’uomo dello Spirito di Cristo: la sconfitta definitiva della morte.
È vero che la vita biologica un giorno è destinata a concludersi, ma non sarà la fine di tutto. Lo Spirito che risuscitò Gesù e che abita in noi darà la vita eterna ai nostri corpi mortali.
L’Apostolo fa un nuovo, rapido richiamo alle conseguenze morali che derivano dalla condizione nuova di chi ha ricevuto lo Spirito di Cristo (vv. 12-13). Dal battezzato – dice – ci si aspettano opere in sintonia con la vita divina che è in lui. Se continuasse a “vivere secondo la carne” farebbe scelte di morte.
Poi, con parole commoventi, ricorda al cristiano che non è più una semplice creatura, non è uno schiavo sottomesso a un padrone, ma un figlio, perché ha ricevuto dal Signore la sua stessa vita.
Dio non solo ha posto la sua tenda in mezzo a noi, ma ci ha coinvolto nella sua vita, come spiega Pietro ai cristiani delle sue comunità: “La sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni bene. Ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste partecipi della natura divina” (2 Pt 1,4).
L’impulso interiore dello Spirito fa traboccare di incontenibile gioia il cuore e fa esclamare: “Abbà, Padre” (v. 15).
A questo punto Paolo sente il bisogno di chiarire la differenza fra la filiazione dell’Unigenito, Cristo, e la nostra (vv. 16-17). Lo fa ricorrendo all’immagine della figliolanza adottiva, un’istituzione sconosciuta in Israele, ma diffusa nel mondo greco-romano dove chi veniva adottato godeva degli stessi diritti dei figli naturali, compresa la partecipazione all’eredità familiare.
In modo simile, anzi, molto più vero – chiarisce Paolo – l’uomo è introdotto da Dio nella sua “famiglia”: gli è offerta gratuitamente una figliolanza piena e la stessa “eredità”, la stessa beatitudine di cui gode l’Unigenito del Padre.
La condizione dei figli di Dio è meravigliosa, tuttavia – come ricorda Giovanni nella sua lettera – “fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Gv 3,2).
Vangelo (Gv 14,15-16.23b-26)
In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: 15 “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. 16 Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre.
23 Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24 Chi non mi ama non osserva le mie parole; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
25 Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi.
26 Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”.
Siamo durante l’ultima cena e i discepoli si sono resi conto che Gesù sta per lasciarli. Il loro cuore è turbato, sono tristi e si chiedono che senso potrà mai avere la loro vita senza di lui.
Gesù li rassicura invitandoli anzitutto a mantenersi fedeli alla sua proposta di vita (v. 15). L’amore sarà il segno che sono in sintonia con lui.
Poi promette di non lasciarli soli, senza protezione e senza guida. Pregherà il Padre ed egli “invierà un altro Paraclito” che rimarrà per sempre con loro (v. 16).
È la promessa del dono di quello Spirito che Gesù possiede in pienezza (Lc 4,1.14.18) e che sarà effuso sui discepoli.
Lo Spirito è chiamato Consolatore, ma questa parola non è una buona traduzione del greco parákletos. Paraclito è un termine preso dal linguaggio forense e indica colui che è chiamato accanto all’accusato, il difensore, il soccorritore di chi si trova in difficoltà.
In questo senso anche Gesù paraclito, come ricorda Giovanni nella sua prima lettera: “Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un paraclito presso il Padre: Gesù Cristo giusto” (1 Gv 2,1).
Gesù è paraclito in quanto nostro avvocato presso il Padre, non perché ci difende dall’ira di Dio, il Padre infatti non è mai contro di noi, sta sempre dalla nostra parte, ma perché ci protegge dal nostro accusatore, dal nostro avversario, il peccato. Il nemico è il peccato e Gesù sa come ridurlo all’impotenza.
Ora promette un altro paraclito che non ha il compito di sostituire lui, ma di portare a compimento la sua stessa missione. Lo Spirito è paraclito perché viene in soccorso dei discepoli nella loro lotta contro il mondo, cioè contro le forze del male (Gv 16,7-11).
A questo punto sorge un interrogativo: se il Paraclito è un difensore così potente, perché il male continua a prevalere sul bene e perché il peccato così spesso ci domina?
Anche i cristiani delle comunità dell’Asia Minore alla fine del I secolo si chiedevano come mai il mondo nuovo non si imponeva subito e in modo prodigioso.
A questi dubbi e incertezze Gesù risponde: “Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (v. 23).
Gesù vuole manifestarsi, assieme al Padre, non attraverso i miracoli, ma venendo a dimorare nei discepoli.
Gli israeliti ritenevano che il luogo della presenza di Dio fosse il tempio di Gerusalemme.
Tuttavia, già nel re Salomone era sorto il dubbio che una casa fatta da mani d’uomo non potesse contenere il Signore dell’universo (1 Re 8,27).
Per bocca dei profeti Dio aveva promesso che sarebbe venuto ad abitare in mezzo al suo popolo: “Gioisci, esulta, figlia di Sion, perché, ecco, io vengo ad abitare in te” (Zc 2,14).
Non si riferiva a un santuario materiale.
È nell’uomo Gesù che Dio ha realizzato la promessa e si è reso presente (Gv 1,14).
Ora – assicura Gesù – Dio prende dimora e si rende visibile nel discepolo che ama come egli ha amato.
Per questo non è difficile riconoscere se e quando in un uomo è presente il maligno e quando invece sono presenti e agiscono Gesù e il Padre.
Nell’ultimo versetto Gesù promette lo Spirito Santo, “il Paraclito che insegnerà e ricorderà” tutto ciò che egli ha detto (v. 26).
Gesù ha detto tutto, non ha tralasciato nulla, eppure è necessario che lo Spirito continui ad insegnare perché egli non ha potuto esplicitare tutte le conseguenze e le applicazioni concrete del suo messaggio. Nella storia del mondo – egli lo sapeva – i discepoli si sarebbero confrontati con situazioni e interrogativi sempre nuovi cui avrebbero dovuto rispondere alla luce del vangelo.
Gesù assicura: se si manterranno in sintonia con gli impulsi dello Spirito presente in loro, troveranno sempre la risposta conforme al suo insegnamento.
Lo Spirito chiederà spesso cambiamenti di rotta tanto inattesi quanto radicali, ma non condurrà per vie diverse da quelle indicate da Gesù.
Alla luce della Scrittura, il verbo insegnare ha però un senso più profondo.
Lo Spirito non istruisce come fa il professore a scuola quando spiega la lezione. Egli insegna in modo dinamico, diviene impulso interiore, spinge in modo irresistibile nella giusta direzione, stimola al bene, induce a fare scelte conformi al Vangelo.
“Egli vi guiderà alla verità tutta intera” – spiega ancora Gesù durante l’ultima cena (Gv 16,13) – e, nella sua prima lettera, Giovanni chiarisce: “L’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna” (1 Gv 2,27-28).
Il secondo compito dello Spirito è quello di ricordare.
Ci sono molte parole di Gesù che, pur trovandosi nei Vangeli, corrono il rischio di essere sottaciute o dimenticate. Capita, soprattutto, con quelle proposte che non sono facili da assimilare perché sono in contrasto con il “buon senso” del mondo.
Sono queste che hanno bisogno di essere continuamente richiamate.