Dio dei padri nostri o Dio Padre Nostro?
L’Eucaristia è dono gratuito e universale, donato a tutti, indistintamente; l’Eucaristia non è un segno miracoloso, ma l’opera di Dio che richiede una risposta di fede da parte dell’umanità. Sono questi i primi due concetti emersi nelle scorse domeniche dall’ascolto del capitolo 6 di Giovanni, che ci sta accompagnando in questo percorso “estivo e festivo”. E come abbiamo già avuto modo di osservare, non è un percorso facile; non lo è per noi, in quanto richiede un notevole sforzo di comprensione, ma non lo fu neppure per gli interlocutori di Gesù che, suddivisi in tre gruppi tra loro ben distinti – la folla, i Giudei e i discepoli – e con motivazioni e comprensioni molto differenti, giungeranno comunque alla medesima conclusione, ovvero che questo messaggio è troppo duro da comprendere e da accettare.
[ads2] Qual è la difficoltà degli interlocutori del brano di quest’oggi i cui primi versetti ci dicono essere non sono più le folle, ma i Giudei? Va innanzitutto precisato che i Giudei, nel Vangelo di Giovanni, rappresentano sempre le autorità religiose del suo tempo. E non poteva che avvenire un contrasto, con loro, cosa che accade in molte altre occasioni della predicazione di Gesù. Il contrasto nasce dal fatto che Gesù, semplice e umile falegname di Galilea di cui tutti quanti conoscono le origini, ha la pretesa di presentarsi come “il pane disceso dal cielo”. In realtà, ciò che fa loro specie non è tanto il fatto che si dica “disceso dal cielo” (mentre in realtà è figlio di questa terra come tutti i suoi parenti, tema, questo, già ascoltato qualche settimana fa nel Vangelo di Marco), quanto il fatto che per ben due volte in questo brano (e lo farà ancora in seguito) Gesù parla di sé usando una locuzione che stride terribilmente ai loro orecchi: “Io sono”. A noi, questa suona come una pura espressione soggetto-verbo; ma per il pio ebreo non è così. “Io sono” è il nome di Dio, è Jawhé che si rivela nel roveto a Mosè: compararsi al Dio dell’Esodo, rafforzando poi il paragone con “il pane disceso dal cielo”, ovvero la manna, suona come una bestemmia, come il tentativo di essere identico a Dio. Gesù è nel pieno della sua predicazione, e per di più ci troviamo in prossimità della Pasqua, la seconda delle tre vissute da Gesù; egli sa bene che la prossima sarà quella decisiva, per cui non vuole perdere l’occasione di rivelarsi apertamente e di costringere i suoi discepoli a una scelta definitiva, stare con lui o senza di lui, cosa che, infatti, avverrà alla fine del capitolo. La richiesta da parte dei Giudei (avanzata già al secondo capitolo di Giovanni) di dire loro apertamente quale fosse la sua identità e la sua missione arriva ora ad una risposta significativa: la sua identità è data dalla sua vicinanza con Dio, una vicinanza talmente grande che diviene figliolanza e che lo porta a chiamare Dio con il nome di “Padre”, identificandosi con la sua volontà, e invitando chi crede in lui a fare altrettanto. Figuriamoci cosa doveva significare questo per i capi del popolo che ritenevano doveroso costruire il rapporto tra Dio e il popolo sulla base di dinamiche di privilegio, di gerarchia: tra Dio e il popolo esiste una distanza naturale che solo chi è investito di autorità può cercare di colmare, in nome appunto dell’incarico (sacerdote, scriba, dottore della Legge, membro del Sinedrio, ecc.) che lo autorizza a fare da intermediario tra Dio e il popolo, soprattutto attraverso l’interpretazione della Legge. Quando questo rapporto di mediazione viene messo in crisi – se non addirittura eliminato – da un messaggio che fa cadere le barriere tra Dio e l’uomo, giungendo addirittura a chiamare Dio con il nome di “Padre”, chiaramente crolla anche tutto un sistema religioso che rendeva Dio appannaggio di una classe di privilegiati.
Ma Dio non è appannaggio di nessuno: Dio è dono gratuito d’amore, e sceglie i suoi non in base alle loro doti, ai loro titoli e alle loro facoltà intellettuali. Dio sceglie per amore, e proprio per questo sceglie tutti, senza distinzioni e in maniera assolutamente gratuita. Nessuno, quindi, può pretendere di avere l’esclusiva su Dio, sia perché nessuno lo ha visto di persona (“Solo colui che viene da Dio ha visto il Padre”), sia perché è Dio che dona all’uomo la possibilità di conoscerlo (“E tutti saranno istruiti da Dio”), e non viceversa, attraverso chissà quale indagine teologica o culturale: ma soprattutto, il rapporto con Dio si basa sulla figliolanza, donata all’uomo attraverso il Figlio unigenito di Dio, e non attraverso la discendenza da un popolo che si ritiene “eletto” da Dio.
È violento il contrasto che Gesù crea tra la figura dei “vostri padri” riferita ai Giudei (con i quali non s’identifica), e la figura del “Padre mio” credendo nel quale tutti quanto sono figli. “I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti”, quasi a dire che i privilegi che vengono dall’essere discendenti del popolo dell’Esodo non servono ad avere salva la vita, laddove non c’è fede nel Dio Padre Nostro, ben distinto dal “Dio dei nostri padri”. Per questo chi crede nel Figlio di Dio ha la vita eterna. Ma la cosa più sconvolgente è che questa “vita eterna” (ben più forte della vita dei padri nel deserto), si acquisisce assimilandosi al Figlio unigenito attraverso “la sua carne”, “mangiando la sua carne”. Questo sconvolgimento sarà evidente soprattutto nei Vangeli delle prossime domeniche, in quanto il contrasto si estenderà anche ai discepoli, i quali faticheranno a comprendere e a seguire un Maestro del quale dovranno mangiare la carne; sconvolge non tanto questo aspetto di “presunto cannibalismo” (cosa di cui accusavano i primi cristiani, tra l’altro), quanto il fatto che per entrare in comunione con Dio occorra passare attraverso “la carne”, che nella terminologia giovannea indica la natura umana nella sua più estrema debolezza.
Fare la comunione, mangiare il corpo di Gesù e bere il suo sangue, ci permette quindi di diventare Figli di Dio non sulla scorta di privilegi o di nobili genealogie, ma perché partecipi di un’umanità debole, calpestata, oppressa e talmente insignificante da terminare inchiodata alla croce: del resto, è quella che Dio ha deciso di fare propria con l’incarnazione del suo unico Figlio. Questo discorso sull’Eucaristia si fa sempre più impegnativo ma anche sempre più esaltante, perché sconvolge la nostra idea di Dio: non più il Dio dei nostri padri, da noi custodito e racchiuso come un tesoro prezioso di cui sentirsi privilegiati depositari, ma il Dio Padre Nostro, padre di ognuno di noi, amati senza condizioni, indipendentemente dalle nostre capacità, dalle nostre origini, dalla nostra religione. L’unica condizione richiesta, un po’ di fede: “Chi crede, ha la vita eterna”.
don Alberto Brignoli | via Qumran
[toggle title=”Vangelo di Giovanni 6,41-51 – XIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno B – ” state=”close”]In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».
Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.[/toggle]