Commento al Vangelo del 7 marzo 2010 – Paolo Curtaz

Terza domenica di Quaresima, anno di Luca
Es 3,1-8,13-15/ 1Cor 10,1-6,10-12/ Lc 13,1-9

Da dio al Dio

Dio è magnifico, splendido, luminoso.

Ci siamo dati un tempo per (ri)scoprirlo, per ritrovare il suo vero volto, e per ritrovare noi stessi.

Per combattere le tentazioni, per vincere il sonno che prende Pietro, Giacomo e Giovanni e noi, travolti dal fare, dimentichi dell’essere, naufraghi di un tempo che ha azzerato lo spirito, scordato l’anima, sminuito l’essenziale. È un tempo forte, quello della quaresima, un tempo di quelli che possono convertire (almeno un poco) la vita, riaccenderla, ri-orientarla.

Come Abram, domenica scorsa, possiamo anche avere conosciuto il volto di Dio (ed è solo l’inizio di un lungo percorso) e avergli offerto la nostra vita, come fa Abram con l’olocausto ma, poi, bisogna difendere l’offerta gli uccelli che calano dall’alto per divorare le vittime sacrificali. Anche noi, come il primo cercatore di Dio, dobbiamo tenere lontani i rapaci, portatori di morte, che ci strappano all’intuizione cristiana.

Convertirsi significa cambiare mentalità, ridefinire il proprio pensiero a partire dal vangelo.

E la prima conversione da operare, la più difficile, è quella di passare dal Dio che abbiamo nella testa al Dio di Gesù Cristo.

Non basta dirsi (essere?) cristiani per credere nel Dio di Gesù. Occorre andare oltre, molto oltre.

Dal dio indifferente al Dio presente

Dio si occupa delle nostre vite? O, distratto, si bea della sua perfezione?

A Mosé che tentenna nell’andare a parlare di Dio al popolo, Jawhé racconta di sé, dice il suo nome, e si svela come un Dio che conosce le sofferenze del popolo. Se anche la nostra vita attraversa momenti di fatica, Dio non è lontano ed interviene, chiedendo a qualcuno di agire in nome suo. Dio non guarda, indifferente, alle tragedie del mondo, ma chiede a noi, come a Mosé, di renderlo presente accanto a chi soffre.

Al popolo che aspetta liberazione Dio manda un pastore pauroso, Mosé, come liberatore.

Quando chiediamo a Dio di liberarci dal dolore, il Signore ci invita a non coltivare il dolore, a sradicarne le radici e a diventare noi il volto solidale e sorridente di Dio per il popolo.

I cristiani, ingenui, continuano, bene o male, a farsi prossimi là dove c’è dolore e ingiustizia.

Siamo noi il sorriso di Dio, il balsamo che Dio dona all’umanità per superare ogni dolore e crescere in una più vera umanità basata sulla giustizia e sul perdono.

Di questo siamo testimoni. Questa è la prima conversione.

Dalla disgrazia come tragedia, alla disgrazia come occasione

«Cosa ho fatto di male per meritarmi questo!», «Che croce mi ha mandato Dio!»: quante volte ho sentito pronunciare queste lamentazioni, queste imprecazioni verso Dio.

Se Dio è buono, perché non (mi) evita il male?

Gesù, citando due noti eventi di cronaca dei suoi tempi, smonta una credenza popolare molto diffusa allora (e oggi). Un devoto medio pensava che le disgrazie, come appunto il crollo della torre di Siloe, punissero delle persone che – in qualche modo – avessero commesso degli orribili peccati. Così come la malattia, o l’handicap, la disgrazia era letta come un intervento corrucciato di Dio che, dall’altro della sua somma giustizia, scatenava la sua ira divina.

Oggi non siamo più così crudeli e diretti, ma la sostanza non cambia.

Molte persone, nei momenti di dolore e di sofferenza, se la prendono con Dio che, evidentemente, non sa fare il suo mestiere.

Ciò che Gesù dice è sorprendente, sconcertante: la vita ha una sua logica, una sua libertà.

La causa del crollo della torre di Siloe è da imputarsi al calcolo delle strutture errato, o al lucro compiuto dall’impresa che ha usato materiali scadenti; l’intervento crudele dei romani è causa della loro politica di espansione che usa la violenza come strumento di oppressione.

Non esiste un intervento diretto e puntuale di Dio, le cose possiedono una loro autonomia e noi possiamo conoscerne le leggi.

Gesù ristabilisce le responsabilità: gran parte del dolore che viviamo ce lo siamo creato.

La croce ce la danno gli altri o ce la diamo noi stessi con uno sguardo contorto e mondano della realtà. Ho scoperto, dopo molti anni, che molti passano la vita a piallare e carteggiare la propria croce, attribuendone a Dio la responsabilità.

Dio fa quel che può; anche lui si ferma di fronte alla nostra ostinazione e durezza di cuore.

Dio è limitato, quindi?

No, ma ferma la sua mano e ci lascia liberi, perché vuole dei figli, non dei sudditi.

E, conclude Gesù, noi discepoli siamo chiamati a leggere questi eventi disastrosi come un monito che la vita, non Dio, ci fa: sotto la torre crollata potremmo esserci noi.

Il tempo è serenamente fugace, amici, tragicamente breve, approfittiamo di questi giorni come giorni di salvezza e di conversione, non aspettiamo, non temporeggiamo.

Oggi il Signore passa e ci salva, oggi siamo chiamati a usare bene la nostra libertà ed andare a vedere il grande prodigio del roveto ardente, di un Dio che conosce il nostro nome e la nostra condizione.

Dal dio feroce al Dio paziente

E Gesù conclude: Dio non è come se lo immaginava il Battista, pronto a tagliare l’albero improduttivo, con l’ascia alla radice per sradicare il fico che non porta frutto. Quanti, anche nella Chiesa!, davanti al generale rilassamento dei costumi, propongono cure forti, azioni estreme.

Quanti genitori bussano alle nostre parrocchie per chiedere i sacramenti senza consapevolezza.

Quanti sposi chiedono il matrimonio cristiano senza reale coinvolgimento!

Che fare? Essere intransigenti, fare delle selezioni? Alzare l’asticella?

Certo, è importante essere seri. Ma è molto più importanti essere pazienti.

Al padrone che, giustamente, vuole togliere il fico, il contadino propone si aspettare; sarà lui a zappettare e a concimare l’albero. Se non darà frutti, lo taglieranno.

Dio ha pazienza con noi: ci zappetta intorno (le prove della vita!) e ci concima (e chi lo dice che il letame sia sempre e solo negativo?) perché portiamo frutti.

Noi, la nostra comunità, è chiamata ad essere pazienta, a prendersi cura di chi bussa alla nostra porta, non a diventare dei giudici impietosi e severi.

La vita è un’opportunità da cogliere per scoprire chi è Dio e chi siamo noi e il deserto è il luogo in cui esercitiamo la nostra libertà. Non esiste una vita più o meno semplice, ma ogni vita è un soffio breve che siamo chiamati a vivere con intensità e gioia. Gesù ci svela il volto di un Dio che pazienta, che insiste perché il fico produca frutti. La conversione, il cambiare atteggiamento, il ri-orientare la nostra vita è il frutto che ci è chiesto.

Fermiamoci davanti agli eventi tristi della vita senza incolpare Dio, né scuotere la testa e tirare innanzi, ma guardiamoli come un monito che la vita stessa ci rivolge per giocare bene la nostra partita. Dio – da parte sua – è un Dio che conosce, che interviene, ma che rispetta, trattandoci da adulti, le nostre scelte, anche se catastrofiche e schiavizzanti.

www.paolocurtaz.it

Table of contents

Read more

Local News