Commento al Vangelo della Santa Domenica a cura di Giulio Michelini
Gesù, l’adultera e la misericordia
Il peccato non ha l’ultima parola
«Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui». Questa frase del vangelo di Giovanni (3,17), spiega bene il brano della donna adultera. Nel nostro racconto i farisei e gli scribi si avvicinano a Gesù per metterlo finalmente alla prova su un caso “concreto”. Nel quarto vangelo ormai si è prossimi alla fine del ministero di Gesù, e i gruppi e i movimenti del giudaismo di allora devono essere venuti a conoscenza del suo insegnamento sul regno di Dio incentrato sull’apertura ai peccatori. Gesù ha già mangiato con loro, ha già detto al paralitico «Non peccare più» (Gv 5,14), ed ecco che ora viene interpellato su un caso di flagrante peccato, e tanto più grave perché riguarda un peccato sociale, l’adulterio.
Probabilmente non si tratta di adulterio, però, e per spiegare si deve ricorrere al vangelo di Matteo, dove, all’interno del Discorso della montagna, si trova una frase di Gesù che può essere collegata alla nostra pagina: «Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio» (Mt 5,31-32).
Secondo le parole di Gesù appena viste sopra, il ripudio della moglie – anche se ammesso dalla Torà (cf. Dt 34) – per Gesù comporta che la divorziata debba essere considerata un’adultera (Mt 5,32a). Il libello di divorzio però aveva proprio come scopo la limitazione dell’arbitrio maschile e la concessione alla donna, dopo la separazione, della possibilità di risposarsi senza essere accusata di adulterio. Non ci è del tutto chiaro cosa voglia dire Gesù nell’affermare che ripudiare la moglie la rende adultera, e se tante spiegazioni sono state avanzate, almeno comprendiamo che per Gesù il divorzio è comunque un atto contro l’amore verso la moglie. Se però colleghiamo le parole di Gesù del Discorso della montagna alla scena di Gv 7,53–8,11 le cose si semplificano. In breve, è possibile che quella donna presentata a Gesù fosse una divorziata risposata, la quale, secondo quanto stiamo dicendo, se per i farisei non poteva essere riprovata (in quanto ripudiata dal marito con un libello ufficiale), per Gesù invece sarebbe stata una vera adultera (cf. Mt 5,32: «la espone all’adulterio» = cioè, la rende adultera). I farisei e gli scribi del primo vangelo, insomma, sarebbero gli stessi che avrebbero appreso di questa nuova ermeneutica sulla legge del divorzio, e che si rivolgono a Gesù per «metterlo alla prova» (cf. Gv 8,6 e Mt 19,3): gli presentano una donna in “flagrante” (sempre secondo Gesù) adulterio per vedere se, conseguentemente al suo insegnamento, questa a suo giudizio avrebbe meritato la lapidazione.
La peccatrice e il peccato. Se estendiamo il ragionamento, e usciamo dalla questione vista sopra, alquanto complessa, vediamo anche che a Gesù non interessa solo la Legge, che comunque rispetta e che mostra di saper interpretare meglio e anche in modo più radicale di quanto non facciano i farisei. A lui preme soprattutto il destino della peccatrice; non guarda solo al peccato, ma a chi l’ha commesso. Il peccato per Gesù non ha l’ultima parola.
Gesù non condanna nessuno, perché Dio Padre l’ha mandato non per giudicare e castigare, ma per dire che Dio è più grande di ogni nostro peccato. Con tale atteggiamento nei confronti dei peccatori, egli opera una liberazione che non ha niente a che fare con il permissivismo: infatti sa bene che il peccato conduce alla morte, come l’adulterio porta alla lapidazione. Ma indica un’altra strada, dona una nuova vita: “neanch’io ti condanno”.