Il celebre racconto dell’incontro di Gesù con l’adultera, tratto dal cap. 8 del Vangelo di Giovanni, che a dire degli studiosi rappresenta un brano di tradizione lucana all’interno del IV Vangelo. La scena si apre in modo usuale: Gesù ammaestra la folla, insegna le vie di Dio nel tempio.
Come accade spesso nei Vangeli, gli scribi e i farisei vogliono metterlo alla prova, conducendogli una donna peccatrice scoperta in flagrante adulterio. Presentandogli il caso, gli ricordano la legge di Mosè, che in casi del genere, prevede la lapidazione della colpevole. Quella domanda “Tu che ne dici?”, rappresenta un tranello per il Maestro. In ogni caso, la risposta di Gesù – secondo il parere dei suoi interlocutori – avrebbe rappresentato una presa di posizione problematica: o verso la Legge di Mosè, se avesse detto di non lapidarla, o verso la legge romana, se avesse detto di procedere con la condanna a morte, dal momento che i romani avevano sottratto agli ebrei il cosiddetto “ius gladii”, ossia la facoltà di mettere a morte.
L’atteggiamento di Gesù, che senza alzare il capo continua a scrivere a terra ha fatto versare fiumi di inchiostro nel corso della storia. Gesù, con il suo “dito divino”, scrive una nuova legge, un nuovo modo di guardare l’umanità ferita e oppressa dal peso della colpa. Con la forza della sua parola, Gesù fa sì che gli accusatori vengano trasformati in accusati: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei” (Gv 8, 7). Nessuno davanti a Dio può dirsi giusto, tutti siamo peccatori! La parola pungente del Maestro colpisce tutti come un macigno: dai più anziani ai più giovani, nessuno si sente più “a posto”, tanto da poter giudicare quella donna e silenziosamente lasciano la scena per andare a piangere i loro peccati. Smontata la falsità di quegli uomini, rimane Gesù e l’adultera.
Come scrive magistralmente Sant’Agostino: “Rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia” (Commento al Vangelo di Giovanni, 33,5). È questa la dinamica della salvezza: un rapporto personale e diretto con il Signore. Non siamo peccatori perché gli altri ci giudicano tali, ma lo siamo perché davanti a Lui, che è l’Amore, siamo sempre manchevoli e bisognosi della sua Misericordia. Questo “stato” di peccato, però, se ci apriamo al suo Amore, non è per noi una condanna definitiva, ma diventa l’occasione di rinnovare il nostro spirito nella verità del pentimento e nell’accoglienza del perdono. “Va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8, 11).
Gesù non prende alla leggera il peccato, lo chiama per nome, ma l’uomo – creato a immagine e somiglianza di Dio – è sempre di più del suo peccato. Bellissima l’espressione che usava spesso don Oreste Benzi, nel suo andare incontro agli ultimi in un modo eroico: “L’uomo non è il suo errore”. Ed è proprio così che Gesù guarda a noi. Egli odia il peccato, ma non odia il peccatore, anzi lo ama tanto da aver dato la propria vita per ciascuno. Ogni anima vale il suo Sangue! La grazia del perdono offre al peccatore la possibilità di una vita nuova, quella di cui ci parla San Paolo nella lettera ai Filippesi: “dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la méta, al premio che Dio mi chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù” (Fil 3, 14).
La vita eterna, non dobbiamo mai dimenticarlo, è quella dimensione nuova in cui i santi, ossia tanti peccatori perdonati, condividono la gloria con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, che Dante canta come “l’Amor che move il sole e l’altre stelle” (Par. XXXIII).
Fonte – il blog di don Luciano