Contestualizzazione:
La comunità come dimora di Dio
Il vangelo di questa domenica si colloca in una parte del racconto di Giovanni ben delimitata: tutto si svolge nell’intimità dell’ultima cena consumata il Giovedì Santo, quando Gesù mangia e parla con i suoi discepoli la sera prima del suo arresto. Intorno alla tavola – luogo in cui si scambia non solo il cibo, ma anche parole, sorrisi, sguardi, e si creano e «nutrono» le relazioni che danno senso al vivere -, Gesù edifica e consacra la comunità dei discepoli quale nuovo santuario della presenza di Dio. La comunità-santuario è fondata sulla base del dono di sé fatto da Gesù – pane della vita (Gv 6, 22-59) – proprio dentro l’oscurità del tradimento e del rinnegamento che lacera la comunità stessa (Gv 13, 21-30.36-38). Luogo d’incontro con Dio e con gli altri, la comunità-santuario è anche spazio di asilo o di rifugio…
Il contesto del brano evangelico è il «libro degli addii» (Gv 13-17), dove i gesti e le parole di Gesù esprimono la consapevolezza che egli ha del potere di donare la vita. Potere che gli è stato messo in mano dal Padre (Gv 13, 3//17, 2); potere che gli permette di trasformare l’ora della separazione nell’ora della maggior comunione, l’ora dell’odio e del tradimento nell’ora dell’amore e del dono di sé più grande. In questo contesto, la lavanda dei piedi è gesto simbolico che anticipa il «dono di sé mediante il quale Gesù unifica e purifica la sua comunità alla radice, fondandola sulla base permanente del suo gesto di servizio e di purificazione, “…perché come ho fatto io così facciate anche voi” (Gv 13, 15)» (M. NICOLACI, Vangelo secondo Giovanni, 1537-1538). Come avverrà nella sua Pasqua, Gesù insegna che il dono di sé si dispiega ad extra nel servizio e ad intra nella purificazione del cuore, degli atteggiamenti verso l’uomo ferito e dello sguardo rivolto verso il mondo e la storia.
Tra la parabola della lavanda e la preghiera dell’«ora» (Gv 17) si trovano i «discorsi» e i dialoghi tra Gesù e i discepoli durante la cena (Gv 13, 31-16, 33). In questo vero legato testamentario – lasciato non solo ai presenti a quella tavola ma agli amici di ogni luogo e di ogni tempo – sono indicate la modalità della loro relazione con Gesù dopo la separazione da lui ormai imminente e la loro vocazione nella relazione di alleanza con Dio. Gesù affida ai «suoi» – «eletti dal mondo» (Gv 15, 19) – l’incarico dell’amore reciproco «di cui egli è misura, condizione stessa di possibilità e modello» (M. NICOLACI, Vangelo, 1539).
Sentieri dell’interpretazione:
L’amore come spazio e condizione per restare discepoli
La nuova modalità di relazione con il Risorto (Gv 15, 4-5) è alla base della missione testimoniale dei discepoli nel mondo, imperniata sull’esperienza dell’amore/amicizia. Questa pagina evangelica si apre (v. 9) e si chiude (v. 17) proprio da un imperativo relativo all’amore: Dimorate nel mio amore… Questo vi comando: che vi amiate reciprocamente. Se nel versetto precedente «ai discepoli era richiesto di rimanere in Gesù e nella sua parola (v. 7), ora lo stesso “rimanere” è messo in relazione all’amare e all’amore di Gesù» (M. NICOLACI, Vangelo, 1577). Rimanendo nello spazio dell’amore offerto e ricevuto (Gv 13, 34-35), i discepoli incontrano Gesù e la sua parola, perché non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi… (v. 16; Gv 13, 18).
La narrazione inizia con Gesù che comunica ciò che sa, ovvero tutto quello che ha udito dal Padre stesso (v. 15; Gv 14, 7-11): «in principio vi è un Amante, detto Padre, che in forza dell’Amore, detto Spirito, genera l’Amato, detto Figlio, l’inviato a inondare di amore sia il mondo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3, 16), che i suoi non a caso definiti discepoli amati: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Gv 15, 9)» (G. BRUNI, Commento alle letture 13 maggio 2012, 1). Il vincolo dinamico tra Gesù e il Padre come tra Gesù e i discepoli, vincolo che si esprime nel «donare/deporre la vita» (v. 13; Gv 10, 17-18; 12, 49ss), ha la caratteristica di diffondersi ed espandersi e determina beatitudine, cioè quella «gioia» che Gesù vuol comunicare ai suoi chiedendo loro di restare nel suo amore (v. 10-11; Gv 17, 13).
L’invito alla pienezza di gioia (v. 11; Gv 16, 24; 1 Gv 1, 4) viene perciò racchiuso tra i due insegnamenti sull’amore (v. 10.12) che sono formulati nell’unico comandamento di Gesù: amare allo stesso modo con cui si è stati amati (1 Gv 4, 10.19); lasciarsi consumare nel fuoco dell’amore, spendendo la propria esistenza (se stesso) per gli altri (1 Gv 3, 16ss). Solo dimorando nella sfera dell’amore c’è salvezza e pertanto c’è gioia: «la gioia degli amati che amano» (G. BRUNI, Commento, 2). «Il comandamento di vita eterna e di amore che lega Gesù al Padre e che, con il dono di sé, Gesù fa traboccare fuori da loro sul mondo amando fino all’estremo», si rende concreto per i discepoli «nell’orizzontalità dell’accoglienza reciproca» (M. NICOLACI, Vangelo, 1578). In effetti, «nell’accoglienza dell’emarginato che è ferito nel corpo, e nell’accoglienza del peccatore che è ferito nell’anima, si gioca la nostra credibilità come cristiani. Ricordiamo sempre le parole di san Giovanni della Croce: “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore”» (PAPA FRANCESCO, Il nome di Dio è misericordia, 109).
Dal punto di vista di Gesù, questo comando d’amore si attua anche in una certa parità e confidenza nel rapporto maestro-discepolo: non vi chiamo più servi…vi ho chiamato amici (v. 15). Gesù qualifica il suo rapporto con i discepoli come una relazione tra due che si conoscono profondamente (tutto quello che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi) e si amano (non c’è amore più grande… di chi dona la vita per gli amici). Questa elezione/elevazione (ek-légomai) dei discepoli allo status di amici (fíloi), compiuta mediante il «dire» (légo) di Gesù, implica il loro totale coinvolgimento nel «rapporto di comunione e svelamento reciproco che lega tra loro il Padre e il Figlio» (M. NICOLACI, Vangelo, 1578). Gesù – il Dio a servizio degli uomini (Mt 20, 28) – non ha bisogno di servi, ma di amici che condividano pienamente la sua azione d’amore.
Attualizzazione:
la composizione di un diario pastorale dell’amicizia
Il Figlio amato e amante invia i suoi amici nel mondo (v. 16), non come potenti padroni di una legge ma chiedendo loro di vivere nella logica dell’amore e della gratuità, in un dinamismo ospitale e solidale. Nella via dell’amore tutto quello che chiederete … vi sarà concesso – promette Gesù (v. 16; Gv 14, 13-14; 15, 7) -, a patto che guardate alla realtà non dall’esterno come se fosse una fotografia, ma lasciandosi commuovere dalla miseria umana (Mc 6, 34ss); facendosi prossimo a chi soffre (Lc 7, 13); mettendosi al servizio dell’uomo ferito con intelligenza e creatività (Lc 10, 33ss). In questa pagina, l’esaudimento delle richieste del discepolo che prende l’iniziativa di seguire Gesù è chiaramente riferito alla fecondità della missione (M. NICOLACI, Vangelo, 1579- 1580).
Camminare per la strada guardando il mondo con simpatia e commozione, con lo stesso sguardo compassionevole che Gesù rivolge alla debolezza umana: ecco la sequela missionaria del cristiano. Un mondo in cui ogni uomo e ogni donna sollecita quello sguardo d’amore vigilante e
«viscerale» (splanchnízomai), abituato a leggere i segni dei tempi, sensibile allo stato delle cose, alla vita quotidiana, alle sue urgenze, alle sue emergenze, alla sua complessità (A. RICCARDI, Tutto può cambiare, 42-46). In effetti, il dolore dell’uomo esige e attende uno sguardo che vada dinamicamente rinnovato, che sia capace di lasciarsi attrarre per condividere l’esistenza nella prossimità di un incontro personale.
L’«amico del cuore» di nome Gesù, in questo vangelo, invita a uno stile di vita che mette in pratica la volontà di Dio (v. 14), giunge a comportarsi come Dio e si sforza così di somigliargli (v. 15), perché il Padre mette a disposizione del Figlio e dei figli la sua forza d’amare (v. 16; Gv 14, 17). E solo chi ama conosce davvero Dio…
Come bene spiega S. Weil, l’amore del prossimo è l’amore che scende da Dio verso l’uomo. È anteriore a quello che sale dall’uomo verso Dio. Dio ha voglia di scendere verso gli sventurati. Dal momento in cui un’anima è disposta al consenso, sia essa la più miserabile, la più difforme, l’ultima, Dio si precipita in essa per potere, attraverso di lei, ascoltare gli sventurati. Solo col tempo essa prende coscienza di questa presenza. Ma non troverebbe un nome per chiamarla. Ovunque gli sventurati sono amati per se stessi, Dio è presente.
Dio invece non è presente, anche se viene invocato, laddove gli sventurati sono semplicemente un’occasione per fare il bene, anche se sono amati a questo titolo. In questi casi essi stanno semplicemente nel loro ruolo naturale, nel loro ruolo di materia, di cosa. Sono amati impersonalmente. Bisogna portare, nel loro stato inerte, anonimo, un amore personale (L’amore di Dio, 29).
Maria de Fatima Medeiros Barbosa
Fonte: Comunità Kairos (Palermo)