Commento al Vangelo del 5 Maggio 2019 – Padre Giulio Michelini

Commento al Vangelo della Santa Domenica a cura di Giulio Michelini

 “È il Signore”. Questa l’esclamazione del discepolo che Gesù amava, nel momento in cui, quando è ancora sulla barca nel lago di Galilea, riconosce che quella voce è del Risorto. Con il vangelo di questa domenica ascoltiamo dell’ultima apparizione di Gesù ai discepoli nel racconto di Giovanni. Le prime due – sempre secondo il quarto Vangelo – avvengono a Gerusalemme. Poi il racconto si sposta e ci fa spostare fino alla Galilea: è lì che coloro che hanno vissuto il dramma della Passione devono tornare.

Dove tutto era iniziato. Si tratta di dover “raccogliere i pezzi” e non si può farlo a Gerusalemme, la città dove il Messia è stato perseguitato e messo a morte. L’aveva detto un angelo, ci ricorda la fonte più antica (il vangelo secondo Marco): “Andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”(Mc 16,7). Il Risorto è fedele alla sua promessa, e mantiene quanto aveva detto all’ultima cena: “Tutti rimarrete scandalizzati (…). Dopo la mia risurrezione, vi precederò in Galilea” (Mc 14,27-28). La Galilea è il luogo dove tutto aveva avuto inizio, e da lì si può ripartire per “rileggere” tutto da una nuova prospettiva, quella data dalla risurrezione di Gesù.

Guarire le ferite. Il tempo delle apparizioni post–pasquali è quello in cui i discepoli devono essere presi per mano dal Risorto perché guariscano le loro ferite. Quelle di Gesù, mostrate a Tommaso, sono ancora aperte e portano i segni dei chiodi (cfr. Gv 20,27); ma anche quelle dei suoi discepoli erano sicuramente dolorose. Saranno state le ferite dell’odio e del mistero d’iniquità riversatisi sull’innocente messo a morte; saranno state le ferite del tradimento di uno di loro, che aveva mangiato e vissuto con i dodici, e che consegnando il Messia al sinedrio li aveva delusi e si era poi tolto la vita; certamente le ferite di Pietro per aver rinnegato il Maestro, e degli altri per averlo lasciato solo sulla croce. Quanto rancore, quante delusioni, quanto dolore, quanto male. Il percorso per arrivare in Galilea è percorso di crescita, in cui avranno dovuto ripensare agli ultimi avvenimenti e mettere ogni cosa nel giusto posto. Con l’unico ordine possibile: quello dato dal perdono, ricevuto dal Cristo – se qualcuno avrà avuto qualcosa di cui pentirsi –; e donato agli altri.

Comprendere la novità. Serve tempo ai discepoli di Gesù per rendersi pienamente consapevoli della novità che è la risurrezione. Questa non appare come una dottrina certa nell’Antico Testamento. Attestata nei profeti ma con significato simbolico (si pensi al racconto delle ossa inaridite di Ezechiele al cap. 37) è soprattutto al tempo del giudaismo del secondo Tempio – in occasione della crisi maccabaica – che il pensiero ebraico giunge ad elaborare la possibilità di una esistenza sostanziale dopo la morte. Infatti “prima dell’esilio la morte non rappresentò mai un problema per gli ebrei. Morire era una necessità della natura e morire significava finire nello sceol» (Sacchi). Ma ad un certo punto avviene una svolta: si inizia a formare l’idea che la morte non può vincere la giustizia di Dio e la relazione che egli ha con la singola persona. Tutto questo però non è ancora chiaro al tempo di Gesù, se alcuni gruppi, come quello dei sadducei, non credono nella risurrezione. Dopo le incertezze dottrinali nel giudaismo contemporaneo a Gesù, è egli stesso “che la insegna con fermezza”, e “lega la sua fede nella risurrezione alla sua stessa persona: Io sono la Risurrezione e la Vita. Non solo con gli insegnamenti, ma dando anche segni, facendo tornare in vita alcuni morti, e risorgendo egli stesso dalla morte” (Catechismo della Chiesa cattolica, 993; 994). È quindi solo con il Cristo che si chiarisce, in modo inequivocabile rispetto all’Antico Testamento o al giudaismo del suo tempo, che i morti risorgeranno nella carne: “la risurrezione dei morti è stata rivelata da Dio al suo Popolo progressivamente” (ibid., 992).

Si prende cura di loro. Il Risorto ha tante cose da guarire e da spiegare. Così facendo si prende cura dei discepoli, fino a far trovare loro il pesce e il pane e dar loro da mangiare. Ha anche preparato il fuoco, per cuocere il cibo e per scaldare il loro cuore. Come accaduto ai discepoli di Emmaus, gli altri con i quali ha condiviso un tratto di strada: “Non ci ardeva forse il cuore?” (Lc 24,32). Lo stesso accada a noi, di noi si prenda ancora cura – preghiamo – noi che lo vogliamo riconoscere quando “continua a manifestarsi ai suoi discepoli” (Colletta seconda).

Mettiamo ora in rilievo due elementi, tra i tanti, che possono avere un certo rilievo per la comprensione della pagina di oggi. Il primo riguarda il cucinare di Gesù, il secondo il noto dialogo tra Gesù e Pietro.

Gesù e il Leviatano. Sarebbe sufficiente sottolineare che Gesù cucina per i suoi. Una carità semplice, feriale, quella delle mamme che cucinano per i figli, delle nonne per i nipoti, dei papà… Cucinare per l’altro – come ci ricorda il celebre racconto Il pranzo di Babette di Karen Blixen – è una cura a molti mali. Ma qui accade molto di più. Gesù organizza un vero e proprio banchetto messianico nel cui menù vi è nientemeno che il Leviatano.

Esiste infatti un midrash tramandato anche in un’antica omelia giudaica in greco, De Jona, composta tra il II secolo a.C. e la fine del I secolo d.C. (conservata in una versione armena) che elabora la storia di Giona. Giona, il riluttante profeta – si noti, anche lui della Galilea, come Gesù – durante i tre giorni e le tre notti che sta nel ventre del pesce, secondo questa tradizione, non si limita solo a pregare (cf. Gio 2), ma viene portato nello Sheol, nella Gheenna, e soprattutto va a cercare il grande mostro degli abissi, il Leviatano, che avrebbe voluto mangiare il grosso pesce che ospitava e proteggeva il profeta.

Giona fa un voto (cf. Gio 2,10) e promette al pesce che il Leviatano sarebbe stato ucciso e cucinato per il banchetto del Messia. Di questo banchetto, in realtà, aveva parlato anche il profeta Isaia, al cap. 27,1: «In quel giorno il Signore punirà con la spada dura, grande e forte, il Leviatano, serpente guizzante, il Leviatano, serpente tortuoso, e ucciderà il drago che sta nel mare». Il Leviatano infatti, un mostro immaginario e immaginato come un serpente che vuole divorare tutti, è la personificazione del maligno, e si trova nascosto negli abissi minacciosi del mare primigenio che è il caos: il Leviatano stava, cioè, nello Sheol, nell’inferno.

Il vangelo di Giovanni sembra rielaborare queste tradizioni. Gesù ha parlato di sé come del Giona che sarebbe stato nel ventre della terra per tre giorni e tre notti, e infatti è sceso negli inferi, come Giona era sceso negli abissi. Anche Gesù, come Giona, trascorre un periodo di tempo nel mondo sotterraneo e ne esce rinato, ed è egli stesso che può preparare un banchetto per i suoi discepoli.

Gesù e Pietro (tratto da: G. Michelini, «Due modi per dire lo stesso amore. Rileggere il Quarto vangelo alla luce del Cantico dei cantici. E viceversa», in M. Zattoni – G. Gillini – G. Michelini, Il Cantico di tutti i cantici. La gioia della relazione tra uomo e donna, Porziuncola, Assisi 2016, 119-176; qui 159-161).

Nella sua Etica Nicomachea Aristotele afferma come la vera amicizia tra persone sia una cosa rara, perché essa, tra l’altro, «ha bisogno di tempo e di consuetudine». Per spiegare questo requisito, lo Stagirita riferisce un detto: «Secondo il proverbio, non si arriva a conoscersi reciprocamente prima di aver consumato la quantità di sale di cui si dice, e quindi prima di ciò non ci si può accettare e riconoscere reciprocamente come amici, prima cioè che ciascuno si mostri reciprocamente all’altro come degno di amicizia e di fiducia» (VIII, 4, 1156B)[1]. Il proverbio ci fa tornare alla mente quanto è scritto all’inizio degli Atti degli Apostoli, laddove alcune traduzioni moderne riferiscono che Gesù, «Mentre si trovava a tavola con essi [= gli Apostoli], ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre» (At 1,4; traduzione CEI). Il verbo che viene reso con «trovarsi a tavola» in greco in realtà è synalizomai, un composto della preposizione greca “con” e di un verbo legato alla parola greca halas, “sale”, e che dunque alla lettera significa «mangiare sale insieme»[2]. Il ruolo di questo verbo nel contesto del versetto e della scena è così difficile che alcuni preferiscono vedervi non l’azione di mangiare insieme, ma quella di radunarsi in assemblea dei discepoli con Gesù, mentre altri vi cercano una diversa modalità di lettura del greco, che verrebbe corretto nel senso di «passare del tempo con qualcuno»[3]. Alla luce di quanto si è letto dall’Etica di Aristotele, però, non ci si dovrebbe stupire di questo verbo, e proprio a questo punto del racconto. Gesù infatti sta per lasciare i suoi discepoli per tornare al Padre, ma solo dopo, però, che ha passato un tempo congruo con loro, espresso col simbolo biblico del numero quaranta («quaranta giorni»; At 1,3). Il tempo necessario, cioè, per ristabilire la relazione di amicizia dopo la tragedia della croce. Questo tempo, significativamente, viene trascorso anche nello stare a tavola insieme o, meglio nel “consumare il sale” insieme[4].

Qualcosa del genere si ritrova nel penultimo capitolo del vangelo di Giovanni, quando una mattina il Risorto inizia a preparare il pasto per i suoi discepoli affannati e delusi dal fatto che non riescono ad incontrarlo. Solo dopo aver mangiato con loro, inizia il dialogo tra Gesù e Pietro nel quale compare di nuovo l’amicizia, di cui riportiamo solo l’attacco: «quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”» (Gv 21,15).

A questo punto possiamo anche spiegare la differenza – su cui tanti si sono già soffermati – riguardante i verbi usati da Gesù per chiedere a Pietro del suo bene nei suoi confronti (Gv 21,15-17): per le prime due volte Gesù formula la domanda col verbo agapao, amare (vedi il greco agápe, “amore”), e solo l’ultima usa philein, che più propriamente significa “voler bene”, ma che è un verbo connesso chiaramente con la philía, l’amicizia. Giustamente si deve accettare il fatto che «nonostante vari tentativi di individuare delle differenze nell’uso dei due verbi, gli studiosi moderni si sono allineati sulle posizioni dei primi esegeti cristiani, che consideravano i due verbi come sinonimi e come semplici variazioni stilistiche»[5], ma forse di può aggiungere qualcosa. Anzitutto, il testo non sembra voler necessariamente esprimere, la terza volta in cui Gesù si rivolge a Pietro, una resa da parte sua di fronte a chi non ha il coraggio di rispondere che lo ama (agapao) ma che può “solo” volergli bene (philein)[6]. Soprattutto, se abbiamo invece dimostrato che l’amicizia nel Quarto vangelo è così importante, addirittura il vertice dell’amore, allora qui sembra proprio che Pietro abbia imparato la lezione. Dicendo di amare Gesù con l’amore di amicizia, si impegna ad un amore che è capace di dare la vita per Gesù, suo amico, proprio come Gesù gli aveva insegnato: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (philon)» (Gv 15,13).

Per tutte queste ragioni, si può affermare che la categoria dell’amicizia è una delle punte più importanti della teologia giovannea, quella che esprime la relazione più stretta con l’altro. Per usare l’espressione di una esegeta che si è soffermata a lungo sulla questione, se l’«amicizia è normalmente relegata alla sfera secolare […], la citazione dal vangelo di Giovanni [Gv 15,12-15] dimostra che niente è più lontano dalla verità. Per Gesù l’amicizia è la punta più alta del rapporto con Dio e con gli altri»[7]. Infatti «l’amicizia nel Quarto vangelo è l’emanazione dell’amore di Dio che si incarna in Gesù e che Gesù coraggiosamente mette a disposizione al mondo»[8]. L’amicizia, insomma, è «il centro teologico del vangelo di Giovanni»[9].

Note

[1] Il proverbio citato da Aristotele trova un corrispondente in quello arabo «Ci si conosce davvero solo dopo aver mangiato un chilo di sale insieme» (cfr. B. Salvarani, Vocabolario minimo del dialogo interreligioso per un’educazione all’incontro tra le fedi, EDB, Bologna 2003, 79), mentre Cicerone nel citato De amicitia riferisce un proverbio simile a quello dello Stagirita: Multos modios salis simul edendos esse, ut amicitiae munus expletum sit («Bisogna mangiare insieme molti moggi di sale, perché il dovere dell’amicizia sia compiuto»).

[2] Questa la traduzione in H. Balz – G. Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, 2, 1473.

[3] Cfr. W. Arndt – F.W. Danker, A Greek-English Lexicon of the New Testament and other Early Christian Literature, University of Chicago Press, Chicago, IL 2002, 964.

[4] Sull’espressione «mangiando con loro del sale» si è soffermato con delle utili considerazioni J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, 299-302.

[5] R. Infante, Giovanni, 476.

[6] Questa interpretazione si trova, ad es., nella catechesi di Benedetto XVI per l’udienza generale del 24 maggio 2006: «In greco il verbo “philéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone… mi ami tu (agapâs-me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr. Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: “Ti amo (agapô-se) incondizionatamente”. Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: “Signore, ti voglio bene (philô-se)”, cioè “ti amo del mio povero amore umano”. […] Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù!».

[7] G. O’Day, «I Have Called You Friends», Christian Reflection: A Series in Faith and Ethics, April (2008) 20-27; 20.

[8] G. O’Day, «Jesus as Friend in the Gospel of John», Interpretation 58 (2004) 144-157; 157.

[9] G. O’Day, «Friendship as the Theological Center of the Gospel of John», in D. Fleer – D. Bland (ed.), Preaching John’s Gospel: The World It Imagines, Chalice Press, St. Louis, MO 2008, 33-42.

Read more

Local News