Le letture di questa domenica contengono un messaggio molto ricco per la vita personale ed ecclesiale dei discepoli di Gesù. Egli conferma la sua risurrezione con la terza manifestazione postpasquale raccontata dall’evangelista Giovanni, mentre la Chiesa, rafforzata dalla potenza del Nome di Gesù e del suo Spirito, rende una coraggiosa testimonianza a costo anche di svariate sofferenze. La Pasqua di Gesù riempie la Chiesa di consolazione, nutrimento, forza di testimonianza.
Dramma in due atti
La terza parte (At 3,1–5,42) della seconda sezione degli Atti degli Apostoli (At 1,15–8,31) si chiude con il ricordo delle nuove minacce avanzate dal sinedrio contro gli apostoli, la punizione inflitta loro e, infine, la loro liberazione. Una scena drammatica che vede un prologo (5,17-18) che riporta il nuovo arresto degli apostoli, un primo atto (5,19-26) in cui i prigionieri sono inspiegabilmente scomparsi, un secondo atto (5,27-40) che narra la comparizione davanti al sinedrio e l’intervento di Gamaliele (non letto nella liturgia ma importante per la comprensione dell’insieme) e infine l’epilogo (5,41-42) che descrive la gioia della Chiesa pur nella sofferenza.
Dopo un primo arresto di Pietro e Giovanni (4,1-22), gli apostoli sono arrestati una seconda volta ma, inspiegabilmente, al momento della comparizione in tribunale diventano introvabili, spariti! (5,17-25). Un angelo del Signore ha fatto ciò, intervenendo a loro favore e liberandoli nella notte (5,19). Il sinedrio li fa arrestare di nuovo e ricondurre in tribunale.
Lo scontro tra l’establishment religioso giudaico e la Chiesa nascente dei discepoli di Gesù si aggrava sempre di più. I recidivi sono accusati di aver violato il comando formale loro imposto di non insegnare più appoggiandosi (epi) sul Nome di Gesù, spregiativamente indicato come “questo nome”, “questa persona”. Ciò che è grave è il fatto che essi collegavano ad esso la salvezza, la vita (v. 20), relativizzando in tal modo la Legge e gli insegnamenti degli scribi.
Obbedire a Dio
L’accusa – che con ironia verbale su ritorce contro coloro che la pronunciano, facendo dire ai “nemici” stessi la “verità” su Gesù! – è di aver riempito Gerusalemme del loro insegnamento apostolico, ma soprattutto di aver additato le autorità religiose come responsabili della morte ignominiosa di Gesù. L’affermazione è vera e viene ripetuta varie volte nei discorsi missionari degli apostoli nei libro degli Atti, ma non punta alla vendetta. Gli apostoli non chiedono la legge del taglione – sangue per sangue, vita per vita –, non alimentano una sete di vendetta, ma annunciano, al contrario, il perdono dei peccati.
Pietro, portavoce e “capo” del collegio degli apostoli, fa risalire a Dio la responsabilità della loro testimonianza. E Dio va obbedito (v. 29 peitharchein: dare fiducia/obbedienza a chi comanda/a un ordine sociale), andando anche eventualmente incontro ai comandi dei semplici uomini. Quando si tratta di annunciare i contenuti più alti della fede, non possono esserci tentennamenti e compromessi.
L’autore degli Atti dispone i discorsi missionari secondo uno schema ripetuto: 1) introduzione contestuale; 2) kerygma; 3) radicamento scritturistico; 4) appello alla conversione; 5) testimonianza apostolica. Nel suo discorso Pietro espone un vero compendio catechistico sul Padre, sul Figlio, sullo Spirito e sulla Chiesa.
Iniziatore e salvatore
Pietro sintetizza nel kerygma i fatti che hanno valenza salvifica. Gli eventi essenziali, fondamentali per la salvezza degli uomini. Fatti che coinvolgono il Padre – “nostro” Padre”, Dio dei padri di Israele e Padre anche degli apostoli che vi appartengono! –, il suo Figlio Gesù e lo Spirito Santo. Il Padre ha risuscitato, ha risvegliato (ēgeiren) alla vita il Figlio Gesù maltrattato (diecheirisasthe) e fatto appendere alla croce dalle autorità religiose giudaiche (“voi”), evidentemente tramite il braccio secolare di Pilato. Questi (in posizione iniziale, enfatica) – quest’uomo così disprezzato e oltraggiato con una morte ignominiosa riservata agli schiavi e ai terroristi pericolosi per la sicurezza dello Stato –, Dio (ho theos, cioè il Padre) lo ha innalzato (hypsōsen) dall’abbassamento nullificante a cui era stato ridotto, ma da lui voluto liberamente e abbracciato con amore.
Il Padre ha innalzato quest’(uomo) alla sessione alla sua destra, alla destra del grande Re, nella posizione di eguale dignità e di piena assunzione del massimo potere di gloria, di vita e di dominio sui sottoposti. Il Padre ha innalzato alla gloria regale il Figlio in qualità di “iniziatore” (archēgon) e di “salvatore” (sōtēra).
L’archēgos è la causa prima, il fondatore, l’iniziatore. Eb 2,10 e 12,2 lo intende quale iniziatore della vita, la guida che conduce i suoi alla salvezza. La teologia di Luca è diversa: «la sua cristologia concepisce piuttosto Gesù come il primo risuscitato dai morti (26,23), esemplarmente liberato da Dio dal regno della morte (2,24)» (D. Marguerat).
Anche il secondo titolo, sōtēr, è raro in Luca: ricorre solo quattro volte e indica il fatto che Gesù risorto è salvatore. I due titoli, considerati insieme, descrivono quindi Gesù come il mediatore istituito da Dio per liberare il suo popolo.
Conversione e perdono
La finalità della (morte e) risurrezione/innalzamento di Gesù alla destra di Dio Padre è indicata da Pietro come la volontà di Dio di donare (dounai) a Israele la conversione (metanoian) e il perdono (aphesin) dei peccati.
Luca, l’autore degli Atti, insiste molto sulla conversione, il cambiamento di mentalità, quale atteggiamento preliminare per ottenere il perdono divino (2,38; 3,19; 8,22; 26,18). La grande meraviglia sta nel fatto che anche la conversione è un dono di Dio (cf. 11,18)! Vista di solito come un dovere dell’uomo (cf. 2,39; 3,19; ma anche 8,20; 14,15; 17,30; 26,18.20), qui Luca inquadra in modo nuovo questo tema spirituale fondamentale: «la risurrezione apre uno spazio che offre al credente sia la possibilità del pentimento per le sue colpe sia la loro cancellazione da parte di Dio» (D. Marguerat). Una doppia “risurrezione”. Dio fa trionfare la vita sulla morte sia risuscitando Gesù, sia perdonando i peccati (cf. Rm 4,25).
Annunciare Gesù non è quindi, secondo Pietro, violare una proibizione, compiere un’empietà, ma obbedire a un compito e annunciare un doppio dono: il cambiamento di mentalità e il perdono dei peccati. Il tutto a favore di Israele, dal quale gli apostoli non si sentono estranei per il fatto di essere discepoli di Gesù risorto. Egli è il compimento dell’ebraismo, gloria del suo popolo Israele (cf. Lc 2,32).
Testimoni
Di queste “parole-fatti” (rhēmatōn) espresse nel kerygma, gli apostoli sono testimoni, insieme allo Spirito. La risurrezione di Gesù e gli effetti del suo “innalzamento” – il dono divino della conversione e del perdono dei peccati –, hanno come testimoni gli apostoli.
Agli occhi di Luca, la salvezza cristiana e il vangelo hanno come componente essenziale la mediazione umana, la testimonianza apostolica. Gli apostoli hanno visto il Risorto, hanno goduto per un tempo più che sufficiente la sua presenza per diventare dei veri discepoli (cf. At 1,1-11). Hanno visto gli effetti della risurrezione nella conversione e nel perdono dei peccati di un grande numero di giudei (cf. 2,37-42; 5,12-16).
Il testimone racconta i nudi fatti a cui è stato presente, li contestualizza, ne partecipa con la sua presenza in tribunale che lo compromette e lo espone al pubblico giudizio. Cosa tipica di Luca è il fatto che, nel corso degli Atti, gli apostoli diventeranno parte integrante dell’annuncio e della testimonianza, sia con le parole che con le loro sofferenze e prigionie (cf. At 21,15–28,31 “Da Gerusalemme a Roma. Paolo, un testimone in processo”). Diventeranno parte del “vangelo”.
Lo Spirito Santo è co-testimone, perché anima dall’interno la testimonianza apostolica e la rafforza. Secondo le promesse di Gesù, avveratesi alla lettera (cf. in particolare At 6,10; 7,35 per la testimonianza di Stefano), lo Spirito in persona “detta” le parole di difesa al discepolo di Gesù trascinato in tribunale (cf. Lc 12,11-12; cf. 21,12-13).
Oltre alla conversione e al perdono dei peccati, a partire dall’evento della risurrezione di Gesù, Dio Padre dona (edōken, aoristo di didōmi) quindi anche lo Spirito a coloro che gli obbediscono (peitharchein; cf. v. 32 con v. 29). Non si tratta di un’obbedienza da schiavi per una morale da schiavi (Nietzsche), ma una sottomissione di affidamento fiducioso (peith-) a colui che comanda (archein) in quanto Principio (archē) di perdono, di vita e di una salvezza che gli uomini non possono dare. Neppure quegli imperatori, che pur si chiamavano Soter, “Salvatore”.
Lieti di essere degni di soffrire
Il sinedrio avvampa nella volontà repressiva e omicida. Come in precedenza ci fu un difensore e un liberatore angelico (5,19), ora emerge per gli apostoli e per la Chiesa un difensore umano, Gamaliele, un maestro fariseo di altissimo valore. Egli espone un discorso nobile, intelligente e favorevole agli apostoli. Non bisogna combattere contro Dio: se il movimento di Gesù è di origini umane, sarà dissolto e disperso come quelli che seguirono Teuda e l’Egiziano. In caso diverso, sarà invincibile. Non riuscirete a “scioglierli (nel nulla)” (v. 39 katalysai; cf. v. 38 katalythēsetai) conclude Gamaliele.
I sinedriti si fidano (epeisthēsan) del parere di Gamaliele e rilasciano (apelysan) gli apostoli – non essendo stati in grado di “scioglierli/katalysai”… –, non senza prima averli battuti a volontà con le verghe (deirantes) e aver ripetuto loro l’assoluta proibizione di parlare ancora “appoggiandosi” (epi) sul nome/persona di Gesù (stavolta nominato espressamente!).
Gli apostoli vanno via dal sinedrio «lieti (chairontes) di essere stati considerati degni (katēxiōthēsan) [espressione verbale assente nella traduzione CEI del 1974] di esser stati oltraggiati/disonorati (atimasthēnai) a causa del Nome».
La spiritualità degli apostoli si affina enormemente. La loro sofferenza li rende partecipi intimamente di quella patita da Gesù, il Disonorato (a-timē) per la redenzione degli uomini. La loro testimonianza si arricchisce, incidendosi nella loro carne.
Paolo, dalla galera – probabilmente quella di Efeso – aveva scritto ai filippesi a metà degli anni 50 sulla stessa linea d’onda spirituale: «Perché riguardo a Cristo, a voi è data la grazia (hymin echaristē) non solo di credere in lui (eis auton pisteuein), ma anche di soffrire/morire per lui (alla kai to hyper autou paschein)». Non si tratta di masochismo spirituale, ma di recezione di un dono del Padre quale effetto dell’apertura di fede obbedienziale da parte dei discepoli di Gesù, suoi coraggiosi testimoni ricolmi dello Spirito.
Grandi sono quindi i doni pasquali di Dio Padre concessi agli uomini dopo la risurrezione e l’innalzamento di Gesù e ricordati da Luca in questo brano: conversione, perdono dei peccati, testimonianza apostolica, compartecipazione alle sofferenze redentrici e “pasquali” del figlio Gesù, compattezza nella vita del “collegio” degli apostoli.
Davvero conviene “obbedire” a Dio, piuttosto che agli uomini.
Si manifestò
Col passare del tempo le cose si chiariscono, si vedono in una prospettiva diversa, complementare, decisiva. Le tradizioni evangeliche si affinano, si confrontano, si integrano in un amalgama sempre più denso di resoconto e di interpretazione dei fatti. Alla fine del I secolo, il Vangelo di Giovanni raggiunge la quarta edizione, con l’aggiunta del c. 21 dopo il primo finale di 20,30-31. Lo sguardo contemplativo, simbolico, a double entendre, di Giovanni resta uguale, ed è presente anche in questo capitolo, ricco di simbologia e di sottofondo teologico-ecclesiologico.
Si tratta di definire la figura di Pietro, eminente nel resto del vangelo, in rapporto con il Discepolo Amato che alcune voci nella Chiesa davano destinato a rimanere per sempre. Chi ha la primazia nella Chiesa?
Gv 21 vi risponde con una ricca messe di dati teologici ed ecclesiologici. Le due parti in cui si può dividere (vv. 1-14 e 15-25) sono così ulteriormente suddivisibili a livello letterario: vv. 1-3 introduzione e pesca infruttuosa; vv. 4-8 pesca miracolosa; vv. 9-13 invito al pasto preparato da Gesù; vv. 15-17 incarico di “pastore” affidato da Gesù a Pietro; vv. 18-19 rapporto tra Gesù e Pietro; 20-23 la parola sul Discepolo Amato; vv. 23-25 seconda conclusione del Vangelo di Giovanni.
Non presero nulla
La terza manifestazione pasquale di Gesù (phaneroō, 21,1.14) non avviene a Gerusalemme, nella stessa sera del primo giorno della settimana, ma sul mare di Tiberiade (cf. 6,1), luogo simbolico della presenza del male e della mescolanza della fede di Israele col mondo pagano. Gesù non “viene” (20,20.26) o “sta” (20,19), ma “si manifesta” (ephanerōsen heauton). È l’ora che ha scelto per manifestarsi definitamente non solo ai suoi, ma al mondo intero, nel tempo scelto da lui e non proposto dai suoi fratelli per manifestarsi in modo eclatante (cf. 7,4).
Un gruppo di sette discepoli, cinque identificati con nomi che rimandano al corpo del vangelo e due innominati. Una “lacuna narrativa” come varie altre, che il lettore deve completare. Il numero allude a una certa completezza, ma certo non c’è la pienezza del collegio apostolico dei Dodici… Una Chiesa che sta muovendo i primi passi postpasquali, un po’ incerti.
Pietro prende l’iniziativa di andare a pescare e gli altri assecondano il suo protagonismo esemplare. Solo qui veniamo a sapere del mestiere originario di Pietro. Sembra strano un ritorno al passato prosaico dopo tante esperienze vissute con Gesù, ma la pesca ha un valore simbolico. Tutti salgono sulla barca (ploion) che sempre più mostra il suo significato simbolico ecclesiale.
Nella notte i discepoli non pescano nulla, perché per Giovanni la notte è il momento dell’allontanamento da Dio: Nicodemo viene di notte da Gesù (3,2); nella notte non si può operare, ma le opere di Dio vanno fatte di giorno (9,4); nella notte Giuda – uno dei Dodici – esce per tradire/consegnare Gesù (13,30). Sul piano naturale, è il tempo opportuno della pesca, ma di fatto – a livello teologico – questa è compiuta senza l’incarico e la presenza di Gesù. Per questo non potrà che risultare totalmente infruttuosa.
Al mattino presto Gesù “sta” sulla riva, senza essere riconosciuto dai discepoli. Ai “figlioli/teknia” (solo qui e in 13,30; in 1Gv 2,14.18 è rivolto ai membri della comunità), termine della tradizione sapienziale, Gesù domanda del cibo, del companatico (prosphagion). La risposta è secca, sconfortata, piena di amara delusione: «No». Si prepara già la scena del pasto.
È il Signore!
Gesù prende ora l’iniziativa e comanda la pesca sulla parte destra della barca, che si pensava fosse la parte fortunata. Viene descritta una scena che probabilmente si ispira al racconto della pesca miracolosa narrata da Luca, dopo la quale Gesù chiama i primi discepoli a seguirlo (cf. Lc 5,1-11). I discepoli/figlioli obbediscono e non riescono a “tirare su” (elkysai) la rete per l’abbondanza del pescato (“pesci/ichtyōn”). Bisogna ricordare, infatti, che la rete può essere “attirata” solo se a operare sono il Padre (6,44) o Gesù innalzato sulla croce nei confronti di “tutti” (12,32).
Il Discepolo Amato da Gesù – uno dei figli di Zebedeo già nominati o uno dei due innominati? – riconosce per primo, nel risultato estremamente fruttuoso esito di quel comando preciso, la presenza del Signore risorto.
Il Discepolo Amato ha il primato del riconoscimento di Gesù, Pietro il primato dell’accesso a lui (cf. 20,3-10). Pietro – ricordato anche col nome originale Simone – si stringe ai fianchi il camiciotto che si era tolto (o se lo fissa con la cintura, sollevandolo e lasciandone pendere un lembo sotto di essa) e “getta se stesso” nel mare infido ma ricco di opportunità.
La manovra compiuta sulla “sopravveste/ependytēn” non si capisce nei particolari, ma sta di fatto che ora, nella sua missione ecclesiale, Pietro può “cingersi” da solo (diezōsato) per essere più agile nei movimenti; verrà il tempo in cui un altro lo “cingerà” (v. 18 zōsei; CEI “vestirà”) per portarlo dove lui non vuole, al martirio (v. 19a).
Arrivano anche gli altri sei discepoli sulla “barchetta/ploiariōi”, “tirando/trascinando” (syrontes) la rete con i pesci. Nella Chiesa non ci sono solo Pietro e il Discepolo Amato: esistono tanti ministeri e ognuno è chiamato a fare la propria parte. Il verbo “trascinare/syrein” ricorre solo qui in Gv. In At 8,3 descrive l’azione di Paolo che trascina in prigione i discepoli di Gesù; in 14,19 a Listra la folla trascina fuori della città Paolo, dopo averlo lapidato e creduto morto; in 17,6 i giudei di Tessalonica, non avendo trovato Paolo e Sila, trascinano Giasone e alcuni fratelli in tribunale. In Ap 12,4 si descrive il secondo segno nel cielo: con la sua coda un enorme drago rosso trascina un terzo delle stelle del cielo sulla terra. Un trascinare quindi che è sempre visto negativamente, avendo come oggetto prigionieri, morti, elementi decaduti. Nella missione ecclesiale le cose andranno diversamente…
I sei discepoli coprono più lentamente i circa cento metri (duecento braccia/pechys, 45 cm.) che li separano dalla spiaggia, rispetto all’impetuoso Pietro che li ha già divorati com un fulmine. Campione mondiale dei cento metri in acqua libera…
Venite a mangiare
Appena scesi a terra i discepoli vedono braci ardenti con sopra del pesce preso di fresco (opsarion), il pescato frutto del lavoro proprio di Gesù e da lui offerto ai suoi discepoli insieme a del pane. Tutto è già pronto, cotto in anticipo dal “cuoco divino” per una indimenticabile colazione pasquale.
Gesù però non vuole fare tutto da solo ma sollecita la partecipazione del frutto missionario della sua Chiesa. Simon Pietro, nel suo protagonismo sottolineato dall’evangelista, sale da solo (anebē) sulla barca (non menzionata) dalla quale erano appena scesi (apebēsan) gli altri sei discepoli. Scambio di movimento che sottolinea il ruolo primaziale di Pietro nella strutturazione del corpo ecclesiale.
Di sua iniziativa, ma dietro comando di Gesù, stavolta Pietro – da solo! – riesce a trascinare (eilkysen) a terra la rete che in tanti in precedenza non erano riusciti a tirare su dal mare (v. 6). Essa è piena di 153 grossi pesci. Tutte le specie di pesci allora conosciute. Tutti in rapporto a uno.
Tutti sono gli uomini pescati dal lavoro missionario della Chiesa. Unica la rete ecclesiale, che non si spezza (ouk eschisthē), ma resta indivisa come la tunica inconsutile di Gesù tratta a sorte dai soldati sotto al croce (Gv 19,24 «non stracciamola/mē schisōmen»). Vestito cristologico trasfigurato in corpo ecclesiale…
«Venite a far colazione/deute aristēsate» è l’invito del Divino Ospite. Nessuno dei presenti osa chiedergli l’identità. Lo conoscono bene ma, nello stesso tempo, lo percepiscono anche “diverso” da quando, tempo prima, camminava con loro in quegli stessi luoghi. È lui e non è lui… (cf. la scena di Maria Maddalena col “giardiniere” in 20,11-18).
Gesù è già presente, sul luogo. Eppure sempre nuovo “viene/erchetai” in mezzo alla sua Chiesa, di sua imitativa, da Risorto (cf. 20,26). “Prende/lambanei” il pane e lo “dà/didōsin” a loro. Sono gesti eucaristici che richiamano chiaramente l’evento della moltiplicazione dei pani (cf. Gv 6,1-15, specialmente 6,11).
Nel racconto simbolico dell’evangelista si scorge la realtà teologica di Gesù risorto che dona ai suoi la sua presenza e il dono sacramentale dell’eucaristia, il segno concreto del dono del suo corpo e del suo sangue che danno la vita.
Dopo la cristofania della sera di Pasqua, senza Tommaso (Gv 20,19-25) e quella otto giorni dopo alla sua presenza (20,26-29), questa è la terza volta che Gesù “si manifesta/ephanerōthē” (v. 14) ai suoi discepoli dopo esser risorto dai morti, ricorda l’evangelista.
C’è la Pasqua, c’è Gesù risorto, c’è la Chiesa radunata, c’è l’eucaristia offerta dal Divino Ospite. Ma c’è Pietro che deve essere “recuperato” dopo il suo tradimento e va chiarito nella Chiesa di fine I secolo quale sia il suo ruolo rispetto a quello del Discepolo Amato, che gode di eguale enorme stima nel corpo ecclesiale.
Gv 21,15-23 si soffermerà su questi due punti teologici ed ecclesiologici fondamentali.
Mi ami tu?
Finito il pasto, Gesù chiede per tre volte a Pietro se lo ami, e se lo ami più degli altri (forse anche più delle altre cose, cioè del suo lavoro). Le tre domande di Gesù variano nel verbo: agapaō (vv. 15.16, per vari interpreti amore di alta qualità, divina, creazione propria dei cristiani) e phileō (amore di amicizia). Le risposte di Pietro persistono sul phileō. Sembra però che non si debba dare troppo peso a queste variazioni, ipotizzando persino possibili discese “verso il basso” e minimalizzazioni varie. Nel Vangelo di Giovanni si dice infatti che il Padre ama (pilei) i discepoli di Gesù (16,27), che Gesù amava (epigei) l’“altro discepolo”, cioè il Discepolo Amato (Gv 20,2), ma che addirittura il Padre ama (philei) il Figlio (5,20) e gli mostra tutto quello che fa. In Ap 3,19, scritta nello stesso ambito efesino della tradizione giovannea che ha visto nascere il Quarto Vangelo, al veggente di Patmos Dio fa scrivere all’angelo della Chiesa di Laodicea che egli tutti quelli che ama (philō) li rimprovera e li castiga.
Pietro risponde a Gesù affermativamente per tre volte che lo ama (philō), e l’ultima con il cuore molto rattristato e affidandosi totalmente alla piena conoscenza che Gesù risorto ha della sua persona.
Sembra antipatico il fatto che Gesù chieda a Pietro di fare un confronto sul suo tasso di amore rispetto a quello degli altri discepoli lì presenti. La questione è però più profonda, di qualità teologica.
Gesù vuole “recuperare” Pietro a livello psicologico, spirituale, teologico ed ecclesiale. Vuole curare e guarire la ferita del suo triplice rinnegamento fatto durante la passione. Tradimento che senz’altro deve aver intaccato la fibra umana e spirituale di Pietro. Gesù non glielo ricorda espressamente, non lo rimprovera, non lo giudica e non lo castiga (cf. invece Ap 3,19!). Gli offre il suo amore e lo invita a entrare in esso. Lo ricupera con l’amore, che anticipa, cura e guarisce ogni eventuale pentimento e conversione da parte dell’uomo.
Pasci e segui me!
Sulla base della triplice confessione di amore da parte di Pietro, Gesù risponde con una triplice attribuzione a Pietro di un compito “pastorale”. I verbi che esprimono il suo futuro compito si alternano fra boskō (vv. 15.17) e poimainō (v. 16). Il primo allude al fatto di “procurare il cibo” al gregge, il secondo al compito complessivo di “pascere” il gregge. Questo comprende vari aspetti: guidare, sorvegliare, proteggere dagli animali feroci, far pascolare, radunare evitando ogni dispersione pericolosa, “tosare” al momento opportuno, mungere, procurare acqua e cibo fresco, trovare un riparo sicuro per la notte ecc.
Il compito pastorale di Pietro si eserciterà su agnelli (arnia, v. 15) e pecore (probata, vv. 16.17), senza dover trovare fra loro sostanziali differenze se non quella della delicatezza dovuta all’età. Agnelli e pecore appartengono tutte a Gesù risorto: i miei agnelli, le mie pecore. È lui il Padrone e Signore (Kyrios) e Pietro è solo un servitore, un intermediario e un rappresentante delle cure che il padrone stesso ha per il gregge che è la sua Chiesa. A lui il pastore delegato dovrà rendere conto, evidentemente.
Gesù ha grande stima per Pietro e vuole valorizzare le grandi doti da lui possedute (energia, entusiasmo, fede schietta ecc.), insieme alle sue fragilità.
Chi riceve da Gesù la missione di pascolare il gregge della Chiesa, un ruolo di primazialità nella sua struttura e nella sua vita complessiva, deve dimostrare di amare di più. Un primato di amore e a servizio dell’amore.
In tutti i vangeli Pietro è ricordato come rappresentante e portavoce dei Dodici, il “capo del collegio” dei Dodici. Il suo ruolo viene confermato da Gesù risorto per il futuro della sua Chiesa.
Ma chi più “comanda”, più deve servire a immagine di Gesù. E il destino del servo è quello di andare incontro al martirio d’amore, lasciandosi “cingere” da altri e andare “dove non si vuole”.
In attesa di quel momento supremo, vivendo “un amore più grande”, il comando di Gesù risorto a Pietro è molto chiaro, uno e uno solo: «Segui me» (akoluthei moi). La sequela è il compito e l’onore più grande anche per chi nella Chiesa ha compiti direttivi e di governo.
Amare e seguire.
Chi comanda di più deve amare di più.
Amare Gesù risorto, il Padre, lo Spirito Santo.
Amare il “gregge” della Chiesa.
Ma qual è il rapporto fra Pietro e il Discepolo Amato, che riceve tanto onore nella Chiesa e del quale si dice che deve rimanere?
Gesù risorto – tramite l’evangelista Giovanni – lo chiarirà proprio nel secondo finale del suo vangelo (Gv 21,20-24).
Commento a cura di padre Roberto Mela scj
Fonte del commento: Settimana News