Le storie del Vangelo non sono scritte solo per essere lette, ma anche per essere rivissute. La storia di Lazzaro è stata scritta per dirci questo: c’è una risurrezione del corpo e c’è una risurrezione del cuore; se la risurrezione del corpo avverrà “nell’ultimo giorno”, quella del cuore avviene, o può avvenire, ogni giorno.
Questo è il significato della risurrezione di Lazzaro che la liturgia ha voluto evidenziare con la scelta della prima lettura di Ezechiele sulle ossa aride. Il profeta ha una visione: vede un’immensa distesa di ossa rinsecchite e capisce che esse rappresentano il morale del popolo che è a terra. La gente va dicendo: “La nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”. Ad essi è rivolta la promessa di Dio: “Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe…Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. Anche in questo caso non si tratta della risurrezione finale dei corpi, ma della risurrezione attuale dei cuori alla speranza. Quei cadaveri, si dice, si rianimarono, si misero in piedi ed erano “un esercito grande, sterminato”. Era il popolo d’Israele che tornava a sperare dopo l’esilio.
Da tutto questo deduciamo una cosa che conosciamo anche per esperienza: che si può essere morti, anche prima di…morire, mentre siamo ancora in questa vita. E non parlo solo della morte dell’anima a causa del peccato; parlo anche di quello stato di totale assenza di energia, di speranza, di voglia di lottare e di vivere che non si può chiamare con nome più indicato che questo: morte del cuore.
A tutti quelli che per le ragioni più diverse (matrimonio fallito, tradimento del coniuge, traviamento o malattia di un figlio, rovesci finanziari, crisi depressive, incapacità di uscire dall’alcolismo, dalla droga) si trovano in questa situazione, la storia di Lazzaro dovrebbe arrivare come il suono di campane il mattino di Pasqua.
Chi può darci questa risurrezione del cuore? Per certi mali, sappiamo bene che non c’è rimedio umano che tenga. Le parole di incoraggiamento lasciano il terreno che trovano. Anche in casa di Marta e Maria c’erano dei “giudei venuti per consolarle”, ma la loro presenza non aveva cambiato nulla. Bisogna “mandare a chiamare Gesù”, come fecero le sorelle di Lazzaro. Invocarlo come fanno le persone sepolte sotto una valanga o sotto le macerie di un terremoto che richiamano con i loro gemiti l’attenzione dei soccorritori.
Spesso le persone che si trovano in questa situazione non sono in grado di fare niente, neppure di pregare. Sono come Lazzaro nella tomba. Bisogna che altri facciano qualcosa per loro. Sulla bocca di Gesù troviamo una volta questo comando rivolto ai suoi discepoli: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti” (Mt 10,8). Cosa intendeva dire Gesù: che dobbiamo risuscitare fisicamente dei morti? Se fosse così, nella storia si contano sulle dita i santi che hanno messo in pratica quel comando di Gesù. No, Gesù intendeva anche e soprattutto i morti nel cuore, i morti spirituali. Parlando del figliol prodigo, il padre dice: “Egli era morto ed è tornato in vita” (Lc 15, 32). E non si trattava certo di morte fisica, se era tornato a casa.
Quel comando: “Risuscitate i morti” è rivolto dunque a tutti i discepoli di Cristo. Anche a noi! Tra le opere di misericordia che abbiamo imparato da bambini, ce n’era che diceva: “seppellire i morti”; adesso sappiamo che c’è anche quella di “risuscitare i morti”.
Nel corso della Quaresima ci siamo concentrati sulla persona di Gesù: chi è e cosa fa per noi Gesù Cristo oggi. Abbiamo visto che Gesù è colui che ci libera dalle potenze demoniache, ci apre davanti l’orizzonte della vita eterna, ci illumina con la sua verità, ci fa risorgere dalla morte del cuore…Siamo giunti ora, con la settimana santa, al cuore del messaggio cristiano: la morte e la risurrezione di Cristo, la Pasqua.
La Domenica delle Palme, è l’unica volta, a parte il Venerdì Santo, che si legge il Vangelo della Passione di Cristo nel corso di tutto l’anno liturgico. Mi sembrerebbe di tradire il mio compito se, in questa occasione, parlassi di altro che di essa. Una volta, durante la settimana santa, si partecipava a processioni, via crucis, prediche quaresimali. In molti paesi e regioni è ancora molto sentita la processione del Cristo morto e altre tradizioni legate alla passione di Cristo. Ma forse per molti questa è l’unica occasione in cui dedicare un po’ di tempo e di attenzione alla Passione di Cristo. Un salmo dice di Gerusalemme: “Tutti là siamo nati”. Questa cosa si deve ripetere a più forte ragione della passione di Cristo: Tutti là siamo nati!
C’è una guarigione che avviene attraverso gli occhi. Gli ebrei che, nel deserto, erano stati raggiunti dai morsi velenosi dei serpenti, se guardavano una certa immagine eretta da Mosè, guarivano. Quel simbolo, sappiamo, rappresentava Cristo. Chi guarda con fede lui innalzato sulla croce, è risanato, non solo nell’anima, ma anche nella memoria, negli affetti, a volte nella sua stessa carne. “Dalle sue piaghe noi siamo stati guariti”.
Faremo dunque una via crucis, ma brevissima, di sole tre stazioni. La prima stazione ci porterà nel giardino degli ulivi, la seconda nel pretorio di Pilato, la terza sul Calvario.
Di Gesù nell’orto degli ulivi è scritto:
“Cominciò a provare tristezza e angoscia.
Disse loro: ‘La mia anima è triste fino alla morte”;
restate qui e vegliate con me’”.
Un Gesù irriconoscibile! Lui che comandava ai venti e ai mari e gli obbedivano, che diceva a tutti di non temere, ora è in preda a tristezza e angoscia. (Alla lettera, a un terrore solitario, o a una solitudine spaventosa). Quale la causa? Essa è tutta contenuta in una parola, il calice:
“Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!”
Il calice indica tutta la mole di sofferenza che sta per abbattersi su di lui. Ma non solo. Indica soprattutto la misura della giustizia divina che gli uomini hanno colmato con i loro peccati e trasgressioni. È ”il peccato del mondo” che egli ha preso su di sé e che pesa sul suo cuore come un macigno.
Immaginiamo per un istante che questo nostro universo fisico, fatto di miliardi di galassie, ciascuna con miliardi di stelle, sia un’immensa piramide rovesciata che poggia su un punto solo: quale pressione dovrebbe sopportare quel punto! Ebbene, l’universo morale della colpa, che non è meno sconfinato di quello fisico (pensiamo a tutto l’odio, la menzogna, l’egoismo, l’ingiustizia che c’è nel mondo), era come un’immensa piramide rovesciata, la cui punta poggiava allora sul cuore di Cristo. Di qui la sua tristezza mortale e il sudore di sangue. “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità” (Isaia 53,5).
Il filosofo Pascal ha detto: “Cristo è in agonia, nell’orto degli ulivi, fino alla fine del mondo. Non bisogna lasciarlo solo in tutto questo tempo”. È in agonia dovunque c’è un essere umano che lotta con la tristezza, la paura, l’angoscia, in una situazione senza via d’uscita, come lui quel giorno. Noi non possiamo fare niente per il Gesù agonizzante di allora, ma possiamo fare qualcosa per il Gesù che agonizza oggi.
Sentiamo ogni giorno di tragedie che si consumano, a volte nel nostro stesso edificio, nella porta dirimpetto, senza che nessuno si accorga di niente. Quanti orti degli ulivi, quanti Getsemani nel cuore delle nostre città! Non lasciamo soli coloro che vi sono dentro.
Ora lasciamo il giardino degli ulivi e rechiamoci nel pretorio di Pilato.
“Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la coorte. Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. Cominciarono poi a salutarlo: ‘Salve, re dei Giudei!’. E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui” (Marco 15,16-19).
Esiste un quadro di autore fiammingo del secolo XVI che rappresenta proprio questo Gesù nel pretorio di Pilato. Cerco di descriverlo. Ha in capo un fascio di spine appena colte (vi sono ancora foglioline appese). Dal capo scendono gocce di sangue che sul volto si mescolano con le lacrime. È un Gesù che piange. Ma non sta piangendo su di sé. Piange su chi si ostina a non capire, come aveva pianto, poco prima, su Gerusalemme.
Ha la bocca semiaperta, come chi fa fatica a respirare. È appena uscito dalla flagellazione… Sulle spalle è appoggiato un mantello pesante e consunto, più simile a latta che a stoffa. E poi quei polsi legati a doppia ritorta con una rozza corda! Sono la cosa che impressiona di più. Gesù non può muovere neppure un dito. È l’uomo a cui è stata tolta ogni libertà. Immobilizzato. Un ammanettato anche lui! Di lui Pilato dirà alle folle: “Ecce homo!”, ecco l’uomo.
Anche qui bisogna dire: Gesù è nel pretorio di Pilato fino alla fine del mondo. Pensiamo a tutti i torturati e gli ammanettati di ieri e di oggi (innocenti o colpevoli che siano), soli e inermi, in balia di aguzzini o di poliziotti senza pietà, in qualche buio androne di prigione, dove nessuno può intervenire; alle file di ebrei avviati come agnelli al macello nei campi di sterminio. “Ogni volta che avete fatto questo al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me”.
Lasciamo anche il pretorio di Pilato e portiamoci sul Calvario.
“Gesù gridò a gran voce:
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Ed emesso un alto gridò, spirò”.
Sto per dire, ora, quasi una bestemmia, ma poi mi spiegherò. Gesù sulla croce è diventato l’ateo, il senza Dio. Ci sono due forme di ateismo. L’ateismo attivo, o volontario, di chi rifiuta Dio e l’ateismo passivo, o subìto, di chi è rifiutato (o si sente rifiutato) da Dio. Un ateismo di colpa e un ateismo di pena e di espiazione. Gesù, in questo modo, ha espiato in anticipo tutto l’ateismo che c’è nel mondo. Non solo quello degli atei dichiarati, ma anche quello degli atei pratici, di coloro che vivono “come se Dio non esistesse”, relegandolo all’ultimo posto nella propria vita. Il “nostro” ateismo, perché, in questo senso, siamo tutti, chi più chi meno, degli atei, dei “noncuranti” di Dio. Dio è anche lui oggi un “emarginato”, emarginato dalla vita della maggioranza degli uomini.
Anche qui bisogna dire: “Gesù è sulla croce fino alla fine del mondo”. Lo è in tutti gli innocenti che soffrono. È inchiodato alla croce nei malati gravi. I chiodi che lo tengono ancora legato alla croce sono le ingiustizie che si commettono verso i poveri. In un campo di concentramento nazista un uomo era stato impiccato. Qualcuno, additando la vittima, chiese con ira a un credente che gli stava accanto: “Dov’è in questo momento il tuo Dio?” “Non lo vedi?, gli rispose: è lì sulla forca”.
In tutte le “deposizioni dalla croce”, spicca sempre la figura Giuseppe di Arimatea. Egli rappresenta tutti coloro che, anche oggi, sfidano il regime o l’opinione pubblica, per accostarsi ai condannati, agli esclusi, ai malati di AIDS, e si danno da fare per aiutare qualcuno di essi a scendere dalla croce. Per qualcuno di questi “crocifissi” di oggi, il “Giuseppe di Arimatea” designato e atteso potrebbe essere proprio uno di noi.
Non possiamo congedarci dal Calvario senza rivolgere un pensiero anche a Maria, la madre. Dopo Auschwitz si è parlato molto del silenzio di Dio. Ma nessuno sa, meglio di Maria, cos’è il silenzio di Dio. Lei avrebbe potuto fare sue le parole che un antico Padre aveva pronunciato, rievocando le atrocità commesse un giorno, contro i cristiani durante la persecuzione: “O Dio, come fu duro sopportare quel giorno il tuo silenzio!”.
Abbiamo così concluso la nostra breve via crucis. Un bellissimo canto negro spiritual dice: “C’eri tu, c’eri tu, quando crocifissero il Signore?” (Were you there, were you there, when they crucified my Lord?). Ogni volta che ascolto questo canto sono costretto a rispondere: Sì, c’ero anch’io, c’ero anch’io, quando crocifissero Gesù. Sul suo capo c’era anche la mia spina, sul suo corpo anche la mia ferita…Non posso, non voglio, dire come Pilato: “Io sono innocente del sangue di costui!”.
È scritto che a Gerusalemme c’era una piscina miracolosa. Ogni tanto le sue acque si agitavano e chi allora vi si buttava dentro ne usciva guarito. La Passione di Cristo è come una grande piscina, le cui acque, in questa settimana santa, sono “smosse”, per la grazia più abbondante che circola nella Chiesa. Chi ha il coraggio di buttarvisi dentro con la fede e la riconoscenza, ne uscirà guarito.
“Buttarsi nella piscina” per qualcuno significa concretamente fare una buona confessione. Riconciliarsi con Dio. Non rimandare più oltre. Fare davvero Pasqua. In molte regioni d’Italia, esiste la tradizione della cosiddetta “grande pulizia pasquale”. La faremo solo per la casa materiale, solo “fuori” di noi, e non anche “dentro” di noi?
Qui tutti i commenti al Vangelo domenicale di p. Cantalamessa