Commento al Vangelo del 4 marzo 2018 – p. Ottavio De Bertolis

Il commento al Vangelo di domenica 4 marzo 2018 a cura di p. Ottavio De Bertolis.

La Liturgia della Parola oggi si apre con la proclamazione delle “dieci parole” dell’alleanza, i così detti “Comandamenti”. Dimentichiamo facilmente il contesto nel quale tali parole sono pronunciate: «Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile». Se uno è ancora un servo, queste “dieci parole” non sono altro che un peso; le possiamo comprendere appunto solo se siamo usciti da quella condizione, della quale l’Egitto è simbolo. Possiamo infatti, come dice san Paolo, non avere ancora ricevuto lo Spirito di figli, nella libertà loro propria, ma vivere nello spirito dei servi, inchiodati alla paura della legge e dunque di Dio. In effetti, i Comandamenti, se li volessimo chiamare così, avvengono dopo l’esodo, l’uscita cioè dalla schiavitù, e non prima: non ne sono la premessa, ma il frutto, o la conseguenza. Così molti si lamentano che la Chiesa non annuncia più la legge di Dio, i suoi precetti e i suoi comandi; e forse c’è del vero in questo, ma è vero che si può annunciare la legge del Signore sono a persone che conoscono l’alleanza di Dio, che è Gesù Cristo, perché la hanno sperimentato nella loro vita. Infatti, solo quando conosci l’amore, perché lo incontri, capisci che non hai amato; solo quando conosci la luce capisce quanto la tua vita è stata nell’ombra. In altri termini, i Comandamenti sono le vie dell’amore, le esigenze che ne derivano; non si possono insegnare se prima non lo hai ricevuto, accolto, e vissuto. Altrimenti, la fede diventerebbe una morale, una legge; ma la fede ci apre all’amore, non al dovere.

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Le “dieci parole” quindi sono le condizioni per rimanere in quell’amore che abbiamo conosciuto, in quella libertà che ci è stata data, perché è sempre possibile barattarla con qualcosa d’altro. E’ sempre possibile incontrare infatti illusioni, o idoli, che ci ipnotizzano, e ci fanno cercare altrove quello che solo in Cristo possiamo trovare, la vita bella e piena. E così Gesù dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò ristoro». Al contrario, lo Spirito Santo lamenta per bocca del profeta: «Hanno abbandonato me, sorgente d’acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate, che non tengono l’acqua». Possiamo prostrarci ad altri dei, ad altri riempitivi della nostra esistenza. Alcuni possono essere visibilmente cattivi, ma altri possono presentarsi a noi sotto l’apparenza di bene. Un esempio potrebbe essere il lavoro: pensare a produrre, a lavorare, a quello che devi fare, e dimenticare la vita dello spirito, cioè perché e per chi lavori. Dimenticare il sabato, cioè il tempo della memoria di quel che Dio ha fatto per te, ne è il segno; e così il giorno festivo diventa il giorno del sonno, della partita o del cinema, in una vita sempre più frettolosa e alienata, in una vita che diventa un ingranaggio che schiaccia, e le stesse vacanze non fanno più riposare, perché sono uno stress ulteriore.

Rimanere nell’alleanza è vitale: il dimenticarlo avvelena la vita anche nei figli, nelle nostre famiglie, ed è ben possibili vederlo con molti esempi: se adulteri l’amore, se lo corrompi e lo trasformi in aceto, da buon vino da custodire con cura come era in origine, di questo faranno le spese i tuoi figli, e i loro figli, proprio come faranno loro le spese di un genitore assente, o prepotente. Qui l’alleanza è essere quello che siamo: da padri si può diventare padroni, o anche solo amici, e da madri si può diventare chiocce o amiche, e non è di questo che i nostri figli hanno bisogno. Onorare il padre e la madre significa essere davvero quel che siamo, genitori o figli; riconoscere il peso, nella nostra vita, di papà e mamma, senza attribuirne loro troppo o troppo poco. Non sono come gli altri, ma non sono nemmeno semi dei. Non dobbiamo essere figli telecomandati, o genitori che proiettano sui loro figli i loro desideri. Quanti divorzi sono colpa dei genitori: «la mia bambina ha sposato un mostro», o «il mio ragazzo si è messo con una sgualdrina». Come sarebbe importante costruire un alleanza tra genitori e figli, e questo è proprio ciò di cui parla il quarto comandamento.

Il senso dell’alleanza smaschera la violenza che è in noi: si uccide ogni volta che non facciamo alleanza con un altro, che non lo vediamo, non gli rispondiamo, insomma ogni volta che diciamo «ci ho messo una croce sopra», che è la traduzione plastica dell’omicidio. Per usare termini biblici: si uccide ogni volta che, con Caino, diciamo «sono forse il custode di mio fratello?», cioè «chi se ne frega». E’ chiaro che non abbandoni l’altro solo se hai provato come Gesù non ti ha abbandonato, ami, se tu sei stato amato per primo. Ecco, di nuovo, quel che dicevamo: l’amore non è una legge data prima dell’esperienza di Dio, ma solo l’esperienza di Dio lo fonda, e ne dà il senso. Così per i beni materiali, da mezzi per vivere meglio si possono trasformare, in una prospettiva deformata, in padroni: quante illusioni, cioè appunto idoli, possono rappresentare. La macchina, la promozione, la crociera, ma anche così più umili, perché il demonio propone tutto in proporzione delle tasche di ognuno, e ricchi e poveri sono ugualmente sue vittime. E per ottenere questo ci prostriamo spesso a chiunque ce li prometta, a volte anche in qualsiasi modo.

Insomma, mi pare che ai Comandamenti si possa applicare quanto dice Paolo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi. Non lasciatevi di nuovo imporre il giogo della servitù”. Ma a volte, sembra strano, desideriamo avere dei padroni, per quanto giusti, cioè che ci diano le cose che ci promettono, piuttosto di essere liberi. In altri termini, preferiamo obbedire, piuttosto che amare.

E così nel Vangelo Gesù butta in aria banchi e cambiavalute, cioè tutti gli strumenti necessari al buon funzionamento del Tempio: bisognava pur comprare gli animali per i sacrifici che quotidianamente vi si svolgevano, e cambiare le monete pagane in valuta accettabile ritualmente. Gesù rovescia una religione fatta di “tempi” o “luoghi” sacri, di offerte legali o rituali, per fare di tutta la nostra vita un’offerta, un unico tempo e luogo santo. Insomma, ci fa passare a quanto nei comandamenti veniva mostrato: una vita tutta aperta all’amore di Dio e del prossimo. Lui stesso è il sacrificio, nella sua persona; Lui è il tempio, come annota Giovanni, quando osserva che «parlava del tempio del suo corpo». L’evangelista, alla fine della sua narrazione, ci mostrerà questo tempio, aperto dal colpo di lancia del soldato e nel quale Tommaso metterà il dito: contemplando quella ferita aperta dai nostri peccati, conosciamo l’alleanza fatta carne. Infatti in Gesù «abbiamo riconosciuto e creduto l’amore che Dio ha per noi».

In ogni Messa diciamo: «per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli». In questo modo, all’offerta del corpo di Cristo uniamo l’offerta di noi stessi, che, con Lui, per mezzo di Lui, e in Lui, diventiamo un’offerta viva; la religione del Tempio è così superata per entrare nella dimensione dell’alleanza, del rispondere all’amore di Colui che ci ha amato per primo. Siamo così, secondo Paolo, liberati dalla legge, e dunque dalla paura della trasgressione, ed entriamo nell’adozione a figli: impariamo non ad obbedire per paura, e in alcune determinate circostanze, ma ad amare, sempre e in tutta la nostra vita. Questa è la potenza di Dio e la sapienza di Dio che per noi si è manifestata.

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