Commento al Vangelo del 31 ottobre 2010 – Paolo Curtaz

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Trentunesima domenica durante l’anno

Sap 11,22-12,2/2Ts 1,11-2,2/ Lc 19,1-10

Salvezza a domicilio

È difficile parlare di peccato, difficile e imbarazzante.

Siamo sospesi tra due atteggiamenti frutto del nostro inconscio e della nostra cultura.

Da una parte proveniamo da un passato che aveva bene in mente cosa era peccato, fin troppo. E così la legge di Dio e quella degli uomini si erano lentamente compenetrate e confuse, facendo dimenticare l’essenziale.

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Molte delle persone che hanno vissuto tutta la loro vita attente a non peccare obbedivano alla morale comune, più che al vangelo, non erano peccatori perché troppo difficile esserlo in un mondo ipercritico e giudicante. Io non c’ero, ma mi dicono che anche la Chiesa non aiutava a far crescere le persone (Non lo so, sinceramente, se era proprio così).

Oggi, invece, viviamo in un tempo in cui si è abolito per legge il peccato (era l’ora!): la morale comune è ridotta ai minimi termini, cosa è giusto e cosa è sbagliato lo decide la maggioranza, la coscienza, se esiste, si adegui, per cortesia. Severi ed intransigenti con gli “altri” (Ultimamente nel mirino è finita la Chiesa, brutta sporca e cattiva, tutti, nessuno escluso), politici in testa, siamo sempre piuttosto morbidi nel valutare le nostre piccole coerenze (Alzi la mano chi non ha mai avuto la scusa pronta quando gli hanno affibbiato una multa!). Insomma, un bel vespaio.

Consolatevi: c’è di peggio.

Il dentro

Il peggio è il dentro, l’inconscio, la parte profonda che conosciamo solo da poco più di un secolo, grazie all’intuizione di un simpatico studioso della parte nascosta, tale Sigismondo. Da allora si è camminato molto e abbiamo capito le tante influenze della nostra educazione, della cultura, di ciò che si aspettano gli altri da noi.

Alcune persone riescono, e gli riesce facile, a farsi una crosta alta tre dita e spianano tutto e tutti. Altri, più deboli, vivono pieni di paure e sensi di colpa.

In tutto questo è difficile che Dio riesca a dire qualcosa, difficile creare quella sottile armonia che ci avvicini a Dio prendendo coscienza del nostro limite, difficile riconoscere e superare i sensi di colpa, faticoso mettere in minoranza la parte oscura di ciascuno.

La Parola oggi ci viene in aiuto.

La pazienza di Dio

Dio non ama il peccato, non lo conosce neppure, non lo concepisce.

Il peccato è il non-io, il non-Adamo, la parte tenebrosa che finisce col prevalere, il piccolo orco che nasce insieme a noi e che ci tiene compagnia per tutta la vita.

In ebraico la parola “peccato” significa “fallire il bersaglio”, come fa l’arciere inesperto. Così accade e noi, tutti, a dire che il bersaglio è troppo lontano, che l’arco è allentato, che qualcuno ci ha distratto.

Dio, invece, ci tratta da adulti, ha pazienza, ama.

Scordatevi l’idea piccina e demoniaca di un Dio severo assetato di sangue, che giudica duramente le sue creature: egli le ama e sopporta il peccato, come dice la splendida prima lettura, perché pensa che ce la possiamo fare.

Noi ci ostiniamo ad essere dei polli, Dio vede in noi dei falchi che volano alto.

Noi ci ostiniamo ad essere delle fotocopie di improbabili modelli, Dio vede in noi il capolavoro unico che siamo.

Noi nascondiamo i nostri difetti agli altri, Dio vede solo i pregi che egli ha creato in noi.

Insomma, una meraviglia, uno stupore.

È tutto talmente splendido che anche il peccato perde la sua connotazione deprimente.

Chiedetelo a Zaccheo.

Piccolezze, piccinerie

Zaccheo è un manager riuscito: ha fatto soldi a palate, grazie all’appalto delle tasse dall’invasore romano. Un usuraio, diremmo oggi, un furbo senza scrupoli come i caimani che squartano la finanza italiana, al centro il profitto, il resto è relativo. È rispettato, temuto dai suoi concittadini: basta un suo gesto e i soldati romani intervengono.

Ma è rimasto solo.

La ricchezza e il potere sono avari di amici e di gratuità.

Zaccheo ha sentito parlare del Galileo, quel tale Nazareno che la gente crede un guaritore, un profeta e, curioso, lo vuole vedere senza farsi vedere.

E accade l’inatteso: Rabbì Gesù lo stana, lo vede, gli sorride: scendi, Zaccheo, scendi subito, vengo da te. Zaccheo è interdetto: come fa a conoscere il suo nome? Cosa vuole da lui? Forse lo ha confuso con qualcun altro? Non importa, Zaccheo scende, di corsa. Perché?

Gesù non giudica, né teme il giudizio dei benpensanti di ieri e di oggi: va a casa sua, si ferma, porta salvezza. Zaccheo è confuso, turbato,vinto: in dieci minuti la sua vita è cambiata, il famoso Jeshua bar Joseph è venuto a casa sua. Si sente ribaltato come un calzino, Zaccheo. Proprio lui cercava Gesù, non si è sbagliato di persona. Proprio lui voleva, non c’è dubbio. Gesù non ha posto condizioni, è venuto a casa di un peccatore incallito.

Zaccheo fa un proclama che lo porterà alla rovina (leggete! Restituisce quattro volte ciò che ha rubato!), ma che importa? È salvo ora. Non più solo sazio, solo temuto, solo potente.

No, salvo, discepolo, finalmente. Lui, temuto ed odiato, ora è discepolo.

Meditando

Dio ti cerca, lui prende l’iniziativa; Dio ti ama, senza giudicarti.

Noi cerchiamo colui che ci cerca. La nostra vita è una specie di rimpiantino, lasciamoci raggiungere, finalmente! Gesù non giudica Zaccheo, lo aspetta.

L’amore di Dio precede la nostra conversione. Dio non ci ama poiché siamo buoni ma, amandoci ci rende buoni. Gesù non chiede: dona, senza condizioni.

Se Gesù avesse detto: “Zaccheo, so che sei un ladro: se restituisci ciò che hai rubato quattro volte tanto, vengo a casa tua”, credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull’albero.

Dio precede la nostra conversione, la suscita, ci perdona prima del pentimento, e il suo perdono ci converte: è talmente inaudita e inattesa la salvezza, che ci porta a conversione.

Ai discepoli

Eccoci, amici, discepoli. Chi vuole seguire Rabbì Gesù batta un colpo, scenda dall’albero, si schieri. Non importa chi sei, né quanta strada hai fatto o che errori porti nel cuore.

Non importa se scruti il passaggio del Rabbì per curiosità.

Oggi, adesso, Gesù vuole entrare nella tua casa.