Nella liturgia della IV domenica di Quaresima, detta “laetare”, pregustiamo la gioia dell’avvicinarci alla meta, e si fa insistente l’invito ad affrettarci verso la Pasqua (cf Colletta). Se la gioia che ci viene offerta non è vuota retorica, ma esperienza teologale, spirituale, è perché è talmente certo che Dio porta a compimento le sue promesse, che è possibile per noi, suo popolo, goderne dei frutti duraturi (cf I lettura). Non può, per questo, non sgorgare dal nostro cuore la benedizione e la lode, perché il
Signore ha ascoltato e continua ad ascoltare le nostre preghiere, liberandoci dalla paura e salvandoci dall’angoscia (cf Salmo responsoriale). Nella Pasqua di Cristo e nella nostra partecipazione sacramentale a essa nell’iniziazione cristiana, noi sperimentiamo in parte il già di tale compimento: Dio in Cristo ha già riconciliato a sé il mondo, e ha fatto di noi delle creature nuove (cf II lettura). Ciò che manca, e non
può che essere così, il non ancora, è il dispiegarsi di tale grazia immensa in ogni oggi della storia, e della storia di ogni figlio amato dal Padre. Padre, la cui misericordia è senza misura, e la cui incessante azione
si dispiega nel custodire tra le sue mani buone e provvidenti il nostro volto unico e irripetibile, in cui c’è traccia di sé (cf Vangelo).
In questa domenica, così come nelle feste e nelle solennità, è ammesso l’uso dei fiori per ornare l’altare e il suono degli strumenti anche quando non sostengono le voci. Possono essere usate, inoltre, le vesti liturgiche di colore rosaceo (cf Paschalis Sollemnitatis 25). Si sottolinei il carattere gioioso di tale celebrazione, espresso nella liturgia della Parola, nell’eucologia, ma anche nei linguaggi non verbali.
Se in questa domenica si celebrano gli scrutini preparatori al Battesimo degli adulti, si possono usare le orazioni rituali e il ricordo proprio nella Preghiera eucaristica (MR, p.709-711). Inoltre, i Vangeli della Samaritana, del cieco nato e della risurrezione di Lazzaro appartenenti al ciclo A, per il loro carattere fortemente battesimale, possono essere letti anche nei cicli B e C, specialmente se ci sono catecumeni (cf Paschalis Sollemnitatis 24). Tale scelta, facoltativa ma senza dubbio opportuna, può essere rimandata
anche ad uno dei giorni feriali della settimana stessa (cf OLM 97-98)1.
1 Le indicazioni celebrative fornite in questa sede fanno riferimento al ciclo C.
Commento
La liturgia di questa IV domenica di Quaresima ci consegna un Vangelo meritatamente celebre, quello del ‘figlio prodigo’ o del ‘padre misericordioso’, brano ricco di spunti, vista anche la sua lunghezza e intensità. Se però guardiamo alle letture che la Chiesa accosta a questa pagina di Vangelo oggi, possiamo provare a tracciare una pista interpretativa che ci aiuti a entrare in esso nel contesto del nostro cammino quaresimale verso la Pasqua.
La prima lettura ci parla della prima Pasqua che gli Israeliti celebrano appena dopo l’ingresso nella terra promessa (cf Gs 5,10). Essa non è ancora possesso di Israele, Giosuè non ha ancora dato inizio alla conquista della terra, ma Dio, quale padre amorevole e generoso, dona già al suo popolo i frutti della terra. Se la Pasqua, come festa agricola, esprime il rendimento di grazie a Dio per le primizie della mietitura, essa può diventare facilmente una festa che ricordi a Israele la benevola Provvidenza del Padre celeste, che nutre i suoi figli, che somministra al suo popolo il necessario per la sua sussistenza (cf Gs 5,11): ora che Israele è entrato nella terra promessa, così come Dio aveva fatto per quarant’anni nel deserto, come ci ricorda la menzione della manna nella pericope del libro di Giosuè (cf Gs 5,12).
Anche il Vangelo ci ha ricordato questa benevola generosità del Padre e lo ha fatto per due volte. In Lc 15,17 è il figlio minore che, rientrato in sé stesso, la richiama alla mente: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza…”. Il figlio minore, avendo chiesto al padre di dargli la parte di patrimonio che gli spettava (cf Lc 15,12), si è volontariamente staccato dalla fonte della grazia, dall’origine di questa abbondanza che era sempre a sua disposizione. Avendo reciso il legame con questa sorgente, però, le sue sostanze, i suoi beni, sono andati rapidamente e progressivamente esaurendosi.
Fuori della comunione con il padre non c’è che fame e vuoto (cf Lc 15,16).
Una seconda volta è il padre stesso che ricorda, questa volta al figlio maggiore che non vuole entrare al banchetto, come la comunione con lui porti con sé la possibilità di partecipare ad ogni bene:“Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo…”.
Entrambi i fratelli, anche se in modo diverso, vivono nell’oblio di questa verità elementare, hanno dimenticato che cosa significhi stare con il padre in un rapporto di amore: il minore ha spezzato la relazione, pensando di poter vivere in autonomia, in indipendenza dal padre, e ha sperimentato solo il bisogno più estremo. Il maggiore, d’altro canto, non ha mai vissuto con il padre in comunione d’amore, perché si è sempre comportato da servo, piuttosto che da figlio (cf Lc 15,29: “Ecco, io ti servo da tanti anni…”).
L’unica possibilità per l’uomo di vivere nella gioia di un rapporto d’amore con il Padre sta nel riuscire a fare memoria dei tanti segni della Provvidenza che egli elargisce a ciascuno di noi: le attenzioni del Padre per noi sono segno di un amore infinito e gratuito, che colma non solo i nostri bisogni fisici, quanto piuttosto il nostro fondamentale bisogno di essere amati.
Quando allora la relazione con il Padre celeste si è incrinata a causa della nostra carenza di memoria grata dei suoi benefici, cosa possiamo fare? C’è una speranza di recupero della relazione? La risposta del Vangelo è ovviamente affermativa: appena il figlio minore si riaffaccia all’orizzonte, il padre gli corre incontro, pieno di compassione, e lo bacia, senza dargli neppure il tempo di manifestare il suo pentimento per il male commesso (cf Lc 15,20). E tutto si trasforma in festa, perché colui che “era morto […] è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,24.32).
Lo stesso messaggio ci ha dato Paolo nella seconda lettura, in termini più teologici: Dio “ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, […] non imputando agli uomini le loro colpe…” (2Cor 5,18-19). Esattamente come ha detto Gesù in forma parabolica, così Paolo esprime l’amore di Dio per noi in termini di una infinita compassione che Egli ci ha manifestato rinnovandoci, trasformando la nostra condizione di peccatori, restituendoci la dignità di figli, inaugurando in Cristo Gesù la festa della
ricreazione del mondo (cf 2Cor 5,17: “…se uno è in Cristo, è una nuova creatura”!).
Tutta la storia della salvezza non è, agli occhi dell’Apostolo, che questo costante richiamo di Dio a lasciarci riconciliare con Lui, a tornare al Suo amore, a recuperare il legame vitale con la fonte della grazia, con la sorgente dell’abbondanza di ogni bene. Ed ora, nel tempo della venuta di Cristo, questo appello di Dio si è fatto efficace, ha conseguito la sua piena e perfetta realizzazione. Prendendo su di sé il nostro peccato, anzi, divenendo egli stesso peccato in nostro favore (2Cor 5,21), il Figlio unigenito ha permesso che tutti recuperassimo la nostra dignità di figli, tanto se ci fossimo allontanati dal Padre dilapidando il nostro patrimonio di grazia (come il figlio minore della parabola), quanto se fossimo rimasti in casa del Padre, ma vivendo in atteggiamento di servi invece che di figli (come il fratello maggiore della parabola).