Il capitolo 15 è posto al centro della sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51-19,44) e costituisce il cuore del terzo vangelo. Il tema che lo attraversa interamente è quello della gioia di Dio per la salvezza dell’uomo e il suo desiderio di volerla condividere. Luca elabora un insieme di testi provenienti in gran parte da una propria fonte e li struttura così: l’introduzione (1-3a); due piccole parabole gemelle: la pecora perduta (3b-7) e la dracma perduta (8-10): come fa spesso, Luca accosta un personaggio maschile ed uno femminile; una vicenda familiare che ha ricevuto molti titoli e più conosciuta come “parabola del figlio prodigo” (11-32).
L’introduzione
Lo sfondo della composizione è dato da un banchetto, come nel capitolo 14, ma ora cambiano i commensali, Gesù non mangia più con i farisei ma con i peccatori. Farisei e scribi sono presenti ma a distanza, indignati per il comportamento del profeta di Nazaret. L’introduzione mette in scena due atteggiamenti contrastanti, i peccatori che si sentono attratti ed accolti da Gesù e coloro che brontolano mantenendo le distanze create dai loro schemi mentali. Mangiando con i peccatori, Gesù (l’appello fatto in 14, 12-14 ora è attuato da lui stesso) ha suscitato la critica dei “giusti” e le tre parabole rivelano il comportamento di Dio stesso che, con il pastore, la donna, il padre, va in cerca di coloro che godono di poca stima. Il v.3 dice: una parabola, in realtà sono tre ma essendo collegate, vanno comprese insieme anche se la liturgia ne proclama solo la terza.
Una vicenda familiare
Questo testo è ritenuto da molti studiosi come il capolavoro narrativo di Luca, una storia familiare dove le donne sono curiosamente assenti, fatto strano per un autore che normalmente è molto attento alle donne. Forse la figura eccezionale del padre (nominato 12 volte) porta in sé l’unità di femminilità-mascolinità presente in ogni anima ed apre alla comprensione di Dio Padre-Madre ricco di amore e sollecitudine per ogni tipo di figlio alle prese con ogni tipo di peccato.
Rispetto alle altre due parabole, questa è molto più sviluppata e si compone di due scene antitetiche 11-24 e 25-32 che hanno nel padre la figura centrale che le unisce. Sono fotogrammi pedagogici: ciascuno è invitato a domandarsi se uno o entrambi i due fratelli vivono in lui. Magari anche ad imparare una paternità-maternità capace di sorprese ed ampia come l’infinità di Dio e protesa ad una festa universale, ad una gioia che non esclude nessuno ma fa appello alla libera risposta dell’uomo. La parabola, come molte altre, resta aperta ma ormai ha offerto un inizio di festa, un abbozzo di riconciliazione che coinvolge cielo e terra e mai finirà.
vv.11-12 I personaggi sono presentati molto semplicemente e brevemente, “due” è il numero ideale per esemplificare due comportamenti divergenti. Il testo non motiva il progressivo allontanamento del ragazzo. All’epoca era uso emigrare e iniziare una propria vita altrove, basti pensare che la popolazione della Palestina non superava il mezzo milione mentre ben 4 milioni di giudei viveva in diaspora. La parabola non s’interessa nemmeno dell’aspetto giuridico che sta alla base della divisione dell’eredità ma presuppone che sia conosciuta dall’ascoltatore tanto più che il padre non oppone resistenza. In proposito sono stati fatti molti studi ma non sembra si sia giunti ad una soluzione chiara. Secondo Dt 21,17 la divisione dei beni avviene solo alla morte del padre e in Sir 33,20-24 e ne sconsiglia l’uso prima della morte del padre.
v.13 Il movimento di distacco iniziato con la sua richiesta di “divisone” delle cose, continua nel pensiero per alcuni giorni, quindi nel cambio degli immobili in soldi e con lo spostamento fisico da casa (viaggio: apo-dêmein, assentarsi da casa) in vista di una affermazione di indipendenza. Invece ogni cosa gli sfugge, già lontano, dalla famiglia e dalla terra, ora lo è anche dai beni che non ha più. Va sfumando anche la realtà più importante: la vita poiché vissuta attraverso modalità di dissoluzione, in greco dissolutamente è detto a-sôtôs, senza salvezza, avverbio che in tutta la bibbia si trova solo qui ma si collega ad altri concetti: insipienza (Pr 7,11) assenza di freni (Ef 5,18, 1Pt 4,4). Sprofonda nell’alfa privativo della vita.
v.14 Alla catastrofe personale si aggiunge un’altra catastrofe, una non rara carestia locale, che Luca aggrava con l’aggettivo “forte” (cf Gen 47,13). Il ragazzo entra in uno stato di indigenza che è solo l’inizio di un restare in dietro, scivolare in basso, come mostra il versetto seguente.
v.15 A questo punto decade proprio dalla legge e dalla religione del suo popolo: si attacca (kollasthai) ad un pagano e custodisce l’animale impuro per eccellenza (Lv 11,7). Un detto rabbinico dice. “Maledetto l’uomo che alleva porci”.
v.16 Il riferimento ai porci meglio nutriti del figlio descrive il colmo della degradazione, è divorato dal desiderio di “riempirsi la pancia” con le carrube usate come foraggio per porci e cavalli, e sgranocchiati dalla gente. Lontano dal padre, il figlio è abbandonato anche dagli uomini.
vv.17-19 Il trasferimento in un paese lontano porta il ragazzo all’esperienza di un esilio totale: estraneo al padre, agli uomini, a Dio e a se stesso poiché ha perso quella luce di gloria che caratterizza l’uomo immagine di Dio. Arrivato al fondo ora è come se raccogliesse tutte le poche forze che gli restano per intraprendere un altro viaggio, il viaggio del ritorno per un’altra strada, quella conosciuta dai cuori disperatamente in ricerca di un filo di vita. Una strada mai attraversata prima e nuova soprattutto per la sorpresa che gli riserva nell’ultimo tratto quando la percorrerà non più da solo. è la strada che la Sacra Scrittura chiama conversione (vv. 7 e 10), Luca ne descrive le tappe, presenta la prima con 4 rilievi:
- a) rientrando… il punto di partenza è un soliloquio in cui, sebbene con ragioni non elevate, si abbozza un piccolo passo verso l’interiorità. Il motivo è terra-terra, il pensiero dei pani. Il catechista Luca sembra dire che non importa la motivazione iniziale, un ritorno interessato verso Dio e verso gli uomini. Infondo anche le motivazioni più eleganti finché non vengono da un cuore amalgamato con quello di Dio e dallo stile totalmente gratuito, restano sempre interessate. L’importante è mettersi in moto.
- b) .. alzare, anistēmi è uno dei due verbi (l’altro è egeirō svegliare) usati dal NT per la risurrezione. Qui indica l’inizio di una nuova azione, si potrebbe tradurre con: apprestarsi, accingersi.
- c) andrò verso…dirò… è una nuova partenza nella consapevolezza della propria situazione di peccato, di chi ha mancato per errore e/o per colpa l’obiettivo, nel non fare centro nel cuore della vita. Esperienza di smarrimento e confusione che provoca vergogna ma anche ravvedimento (cfr Ger 31,19). Contro il cielo e … l’unico riferimento di tutta la parabola a Dio e al suo regno “cielo” ambito della festa nelle due parabole precedenti, e da questo momento, spazio dove già si celebra la festa che tra poco avverrà in terrena. Il Padre celeste si confonderà tra poco con il padre terreno del ragazzo mostrando che ogni vera paternità discende dall’alto (cf Ef 3,15).
- d) .. il giovane pone la sua speranza in un’unica proposta che gli sembra possibile. Ma, se il ragazzo pensa di essere almeno tra i lavoratori salariati di casa sua, Luca sembra spingersi oltre, usando il verbo “fare” (poiēo) per dire trattami è come se facesse salire una supplica dal profondo non essere: “fammi, rifammi, fammi nascere ancora”. È la rinascita nella dignità battesimale tra poco descritta con molti particolari e che insieme a tutto il brano motiva la scelta della liturgia che proclama questo testo nella IV domenica di quaresima, la domenica della gioia già “pasquale”.
v.20 Il ragazzo mette in atto quanto aveva deciso e siamo alla seconda tappa della conversione centrata sulla figura del padre. Luca compone uno dei versetti più commoventi di tutta la bibbia, descrive un incontro vero con Dio e gli uomini, con una tale intensità da augurarsi di sperimentarlo almeno una volta in vita. Immaginiamo la scena il padre lo vede per primo da lontano, egli che non ha cessato di amare il figlio, colto di sorpresa è sconvolto fino alle sue viscere materne. Avere compassione (splanchnizomai) è il verbo centrale che esprime la commozione di Jahvè verso i poveri e di Gesù verso i bisognosi (Mc 1,41; 6,34, 8,2; Lc 7,13; 10,33). Si mette a correre: un comportamento non dignitoso per la sua età e autorità ma altamente espressivo (At 20,37; Gen 33,4; 45,14-15; Tb 11,9). Attaccato al collo del figlio gli impedisce di umiliarsi gettandosi ai suoi piedi e lo bacia in segno di perdono (2Sam 14,33) senza tener conto del suo stato di impurità. Un comportamento sorprendente di un padre la cui autorità era indiscussa, ma che forse proprio ora acquista la sua autentica forza illuminata dalla verità di un amore gratuito e sovrabbondante, proveniente dall’al di là di ogni regola.
vv.21-22 Il figlio comincia la confessione preparata ma senza finirla, al “trattami…” subentra il fare creativo dei due padri. Inutile chiedersi da dove spuntano i servi, a Luca non interessa e non vede l’ora di continuare la sua icona dipingendo tre gesti simbolici che indicano la piena reintegrazione filiale.
La veste (stolê) della festa che serve ad onorare l’ospite o a significare la dignità di un figlio. Un vestito prezioso era spesso il regalo che un re faceva ad un suddito che voleva onorare. Stolê era il vestito degli scribi (M12,38), un indumento liturgico e di cerimonia (Es 28,2; 29,21; 1 Mac 10,21) ed è anche il vestito dei salvati nell’Apocalisse (6,11; 7,9.13). L’attributo a stolê, prôtên, si può tradurre “primo” o “migliore”. Nel primo caso si tratterebbe del vestito che il figlio portava prima di allontanarsi da casa e che dopo la sua partenza era stato conservato, indica la reintegrazione in famiglia, nel secondo caso viene considerato un ospite d’onore.
L’anello (nel NT nominato solo qui) probabilmente con sigillo, dice l’autorità e il potere che solo un figlio può avere rispetto ai servi. Veste ed anello ricordano Giuseppe investito di autorità dal faraone (Gen 41,41-42).
I sandali sono segno dell’uomo libero, infatti gli schiavi camminavano a piedi nudi.
vv.23-24 Un banchetto di festa dice bene la portata dell’evento. Riappare l’immagine che ha chiuso le due parabole precedenti: la gioia condivisa tra parenti e amici. Qui non si nomina la gioia del cielo dei vv. 7 e 10, forse proprio per ripetere l’unità dei due padri e la presenza del cielo che gioisce dal momento in cui il ragazzo aveva preso coscienza del peccato e deciso ed attuato il suo ritorno
La prima parte della parabola si conclude come si concluderà la seconda parte, ricordando con le parole più forti a disposizione nella mente di Luca quanto è accaduto: il passaggio decisivo dalla morte alla vita, evento disponibile per ogni uomo. Il giovane, come un disperso di guerra, compare di nuovo, riprende vita (anazao con varie sfumature: scaturire, spuntare, destarsi). La seconda parte della frase (era perduto…), collega la parabola alle precedenti e, pur non corrispondendo all’agire del padre indica certamente un suo atteggiamento interiore.
Il pensiero dell’evangelista va al di là del puro racconto, egli guarda all’intero movimento della conversione e ai personaggi coinvolti. Essa nel giudaismo era sinonimo di penitenza e sforzo personale invece per Gesù è entrare nella gioia di Dio che ci tiene alla vita integra e piena degli uomini ancor più che loro stessi. La conversione è un’esperienza di movimento che scaturisce dalla gioia di un incontro personale con il Dio perdonante. Aprendosi a Dio dal fondo della sua miseria, l’uomo è nella disposizione reale che permette a Dio di colmarlo col dono della filiazione e della comunione. Il sorprendente amore del padre umano (e del Padre divino) è espressione di una grande libertà segno di un incontro con la libertà assoluta di Dio.
Questa prima scena si conclude dando inizio ad un festa dove stranamente, manca un altro personaggio importante, il figlio maggiore. Non era stato avvisato o non ha voluto partecipare? Non lo hanno aspettato? Non sappiamo, possiamo solo accogliere il genere letterario delle parabole che comporta sempre qualcosa di sorprendente, a volte svelato successivamente altre volte no.
Prepariamoci ad ascoltare un’altra storia.
vv.25-27 Il figlio maggiore torna a casa dal lavoro e quando si trova a breve distanza sente i suoni che indicano una festa, addirittura una sinfonia di strumenti e un coro di voci. Il contrasto tra un gruppo di festanti e un lavoratore alla fine della giornata è stridente, sembra marcato intenzionalmente. Investiga (verbo tipicamente lucano), fa domande in lungo e in largo per capire di cosa si tratta esattamente. Il servo risponde rendendo noto anche il menù che gli farà saltare i nervi. Ma prima di sapere cosa accade, osserviamo un’altra parola lucana interessante (dei 4 evangelisti solo lui la usa): “sano”, “stare bene” (hygiainein); ricorre spesso come augurio nelle lettere (3Gv 2) e nelle lettere pastorali riceve un senso religioso riferito alla sana parola – dottrina (1Tm 1,10; 6,3; 2Tm 1,13; 4,3; Tt 1,9.13, 2,1.2). All’epoca di Luca può indicare tanto una qualità cristiana (l’attaccamento alla vera fede) quanto la salute fisica.
v.28 L’ira dell’uomo fedele può apparire una reazione logica; ma il Sal 37,7 invita a “non irritarsi per chi ha successo”. Ora però qualcosa è cambiato, egli rivela la sua spietatezza e durezza di cuore adirandosi anche contro il padre che esce a supplicarlo, tralasciando ancora una volta di pensare alla sua immagine. Qui è già chiaro ciò che trova proseguimento nell’Apocalisse: l’ira dei popoli contro Dio colma di superbia e presunzione (Ap 11,18) e quella del drago che perseguita la donna celeste mostrando come questa collera vuole intralciare i piani salvifici di Dio. Sembra che mentre il fratello minore si sia riconosciuto peccatore, il maggiore al contrario, sia attanagliato dal suo peccato “uccidendo il fratello”, “ri-uccidendolo”. Ricorda Mt 5,22 (chi si adira contro il fratello…) quando Gesù fa notare che non solo l’azione (l’assassinio) ma anche il pensiero e la parola possono uccidere.
vv.29-30 Con tono di rimprovero e senza rispetto (manca l’appellativo “padre”) elenca i suoi meriti: il non aver trasgredito i comandi e un servizio costante (il verbo douleuin indica un lavorare da schiavo). Torna alla mente un altro personaggio lucano (18,9-12), un altro esempio da cui fuggire poiché basato su una mentalità matematica, chiusa alla logica basata sull’amore e perciò gratuita. Al figlio che si ritiene “giusto” la prontezza del padre nel preparare un festa ad un peccatore appare esagerata. La sua reazione porta alla luce qualcosa di cui non ci parla il testo ma che è facile immaginare, la gelosia nei confronti del fratello che a sua volta dice una relazione non serena col padre al quale obbedisce come a un padrone. Il primogenito denuncia un’ingiustizia: per il peccatore (pentito) ammazza il vitello grasso e per il fedele (solo esternamente) neanche un capretto! Altri testi (Mt 20,12; Fil 3,6; Gal 1,13) mostrano che Gesù si è scontrato con questa mentalità che criticava il suo comportamento a favore di esclusi e peccatori e così si opponeva a Dio nel suo agire con-attraverso Gesù.
Lo scaldalo provocato dal comportamento del padre fa emergere anche l’asprezza che il maggiore portava in cuore come si coglie dal dispregiativo: “questo tuo figlio”, dunque non più riconosciuto da lui come fratello.
v.31 Il padre non lo rimprovera per la sua scortesia, capisce la sua reazione e gli esprime grande affetto chiamandolo figliolo, (teknon, mio generato). Gli ricorda che non solo è erede legittimo a livello giuridico quindi può disporre dell’eredità già divisa (v.12) ma anche dei suoi beni (o usufrutto) ma anche nel condividere la vita con lui (sei sempre con me) dove c’è una libertà e una comunione maggiore di quelle derivanti dalla legge. Gli offre motivi di riflessione che spera lo portino ad un ripensamento.
v.32 C’è un bisogno più grande di quello giuridico, quello dettato dall’amore e dall’esperienza di un ritorno insperato alla vita. “Far festa” o rallegrarsi (euphrainō) indica la gioia di una relazione tra uomini e con Dio, e ancora di più indica la gioia stessa di Dio (vv. 7. 10). Dove la vita ritorna nel suo stato di relazionalità completa nasce un bisogno di far festa, che è come una necessità paragonabile a quella di respirare, non se può fare a meno. Lc, tra i vangeli è l’unico ad usare questo sinonimo di gioia, 6 volte e tutte in questo capitolo 15 (vv. 7. 10. 23. 24. 29. 32), fino a rafforzarlo nell’ultimo versetto menzionando anche la gioia. Ma la festa è tale solo se ci sono tutti, perciò il padre, dopo aver corretto con dolcezza l’aggressivo “questo tuo figlio” con: “questo tuo fratello” invita il figlio maggiore a non escludersi, ma a rinascere anche lui partecipando alla rinascita di chi aveva toccato le soglie della morte (vv. 6. 9. 24).
Se il figlio maggiore vuole recuperare la comunione col padre, può farlo unicamente entrando nella sua logica e facendo anch’egli un salto nella sua interiorità. Imparando umilmente dal fratello più piccolo troverà Dio che lo libera ed entrerà nella casa della festa, sperimenterà un nuovo modo di essere figlio – fratello – credente.
Non sappiamo quale decisione prenderà, e noi che ora stiamo leggendo cosa faremo?
Appendice
Levandosi s’incamminò verso suo padre. Costui si levò dalla caduta dello spirito e del corpo, si levò dal profondo degli inferi toccando le elevate regioni del cielo. Presso il Padre celeste il figlio si innalza in seguito al perdono più di quanto era precipitato a causa della colpa: Levandosi s’incamminò verso suo padre. Si incamminò non col passo dei piedi, ma con l’incedere della mente. Non ebbe bisogno di un lungo viaggio terreno, perché aveva trovato la scorciatoia della via della salvezza. Non ha bisogno di cercare il Padre divino percorrendo le strade chi, cercando con la fede, scopre che gli è sempre presente dappertutto. Levandosi s’incamminò verso suo padre.
Mentre era lontano. In che senso è lontano colui che viene? Perché colui che viene non è ancora giunto alla meta. Viene al pentimento, ma non è ancora giunto alla grazia; viene alla casa del Padre, ma non è ancora giunto alla gloria della condizione dell’onore di un tempo. E, mentre era lontano, lo vide suo padre. Lo vide quel Padre che abita in alto e vede ciò che sta in basso e riconosce da lontano ciò che sta in alto (Sal 112, 5). Lo vide suo padre. II padre lo vide, perché egli potesse accorgersi di lui. La vista del padre illuminò lo sguardo del figlio che avanzava così che fu dissolta tutta l’oscurità che l’aveva avvolto in seguito alla colpa. Le tenebre della notte non sono come quelle che provengono dallo sconvolgimento dei peccati. Ascolta il profeta che dice: Le mie colpe mi hanno oppresso e non ho più potuto vedere (Sal 39, 13). E in un altro passo: Le mie colpe hanno pesato sopra di me (Sal 37, 5). E successivamente: E la luce dei miei occhi non è con me (Sal 37, 11). La notte seppellisce la luce del giorno precedente: i peccati sconvolgono l’intelletto, l’animo le sembianze. Se dunque, il Padre celeste non avesse colpito col suo raggio il volto del figlio che ritornava e non avesse eliminato tutta la nebbia del turbamento con la luce del suo sguardo, questo figlio non avrebbe mai visto la luminosità del volto divino.
Lo vide da lontano, e fu mosso a compassione. È mosso a compassione colui che non può muoversi dal suo posto. Gli andò incontro non con l’avanzare del corpo, ma con l’affetto paterno. Gli si gettò al collo col peso dell’amore, non con la gravezza delle membra. Gli si gettò al collo non con l’abbandono ma con la sofferenza delle viscere. Gli si gettò al collo per sollevare così chi giaceva. Gli si gettò al collo per togliere col peso dell’amore il peso dei peccati. Venite a me, dice, voi tutti che siete affaticati e oppressi; prendete su di voi il mio carico, perché è leggero (Mt 11, 28-30). Vedete che il figlio è aiutato non oppresso dal carico di questo padre. Gli si gettò al collo e lo baciò.
Così il padre giudica, così corregge, così al figlio peccatore dà baci, non flagelli. La potenza dell’amore non vede le colpe; e perciò il padre riscattò i peccati del figlio con un bacio, lo chiuse in un abbraccio per non scoprire, lui, il padre, le colpe del figlio, per non disonorare, lui, il padre, il proprio figlio. II padre cura in tal modo le ferite del figlio, per non lasciare al figlio una cicatrice, per non lasciare al figlio una macchia. Beati, dice, quelli di cui sono rimesse le iniquità e di cui sono coperti i peccati (Sal 31, 1).
Se l’azione di questo giovane è spiacevole, se la sua partenza desta orrore, noi non allontaniamoci a nessun costo da un tale padre. Lo sguardo del padre mette in fuga le colpe, caccia la pena, respinge ogni malvagità e tentazione. Certamente, se ce ne siamo andati, se abbiamo dissipato tutto il patrimonio paterno con una vita dissoluta, se abbiamo commesso qualsiasi scelleratezza e delitto possibili in cielo e in terra, se ci siamo spinti fino ad ogni precipizio, ad ogni abisso di empietà, solleviamoci una buona volta e, invitati da tale esempio, ritorniamo da un tale padre. E quando lo vide fu mosso a compassione e gli corse incontro e gli si gettò al collo e lo baciò. Ti chiedo, quale motivo c’è qui per disperare? Quale occasione c’è qui per scusarsi? Quale pretesto c’è per essere timoroso? A meno che, per caso tema l’incontro, il bacio spaventi, l’abbraccio sconvolga, e si creda che il padre accolga per vendicarsi, non che riceva per perdonare quando afferra il figlio con le mani, lo chiude in seno, lo serra tra le sue braccia. Ma questo pensiero, che sconfigge la vita ed è nemico della salvezza, è vinto ed eliminato da ciò che segue.
Ma il padre disse ai suoi servi: Presto, portate la veste migliore e fategliela indossare, mettetegli in dito l’anello d’oro e i calzari ai piedi; e conducete il vitello grasso e uccidetelo e mangiamo e facciamo festa; perché questo mio figlio era morto, ed è tornato in vita, era perduto, ed è stato ritrovato. Dopo aver ascoltato queste parole ancora esitiamo, ancora non torniamo al padre? Presto portate la veste migliore e fategliela indossare. Sopportò le colpe del figlio colui che non ne sopportò la nudità. Perciò volle che il figlio fosse vestito dai servi prima di essere veduto, affinché al solo padre ne fosse nota la nudità, perché solo il padre riesce a non rimarcare la nudità del figlio. Presto, portate la veste migliore. Questo padre che nei momenti felici non tollerò il peccato del figlio, adesso vuole godere più del perdono che della giustizia. Presto, portate la veste migliore. Non disse: Donde vieni? Dove sei stato? Dove sono i beni che ti sei preso? Perché hai scambiato una gloria così grande con una così grande vergogna? Ma: Presto, portate la veste migliore e fategliela indossare. Vedete che la potenza dell’amore non scorge le colpe; il padre è incapace di una misericordia che indugia; chi discute le colpe, le rivela.
E mettetegli in dito l’anello. L’affetto paterno non si accontenta di ripristinare la sola innocenza, se non restituisce anche l’antico onore. Ponetegli ai piedi i calzari. Come ritornò povero quello che era partito ricco! Dell’intera sostanza non riporta i calzari ai piedi. Ponetegli i calzari ai piedi. Perché nemmeno nel piede sussistesse la vergogna della nudità del figlio; senza dubbio perché calzato ritornasse al corso della vita precedente. E conducete il vitello grasso. Non basta un vitello qualsiasi, ma il migliore, ben ingrassato. Il vitello grasso attesta lo spessore dell’amore paterno. Conducete il vitello grasso e uccidetelo e mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto, ed è ritornato in vita; era perduto, ed è stato ritrovato. (S. Pier Crisologo, vescovo di Ravenna, IV-V sec., dal Sermone 3)
Nel capitolo quindicesimo del Vangelo di Luca troviamo le tre parabole della misericordia: quella della pecora ritrovata (vv. 4-7), quella della moneta ritrovata (vv. 8-10), e la grande parabola del figlio prodigo, o meglio, del padre misericordioso (vv. 11-32). Oggi, sarebbe bello che ognuno di noi prendesse il Vangelo, questo capitolo XV del Vangelo secondo Luca, e leggesse le tre parabole. All’interno dell’itinerario quaresimale, il Vangelo ci presenta proprio quest’ultima parabola del padre misericordioso, che ha come protagonista un padre con i suoi due figli. Il racconto ci fa cogliere alcuni tratti di questo padre: è un uomo sempre pronto a perdonare e che spera contro ogni speranza. Colpisce anzitutto la sua tolleranza dinanzi alla decisione del figlio più giovane di andarsene di casa: avrebbe potuto opporsi, sapendolo ancora immaturo, un giovane ragazzo, o cercare qualche avvocato per non dargli l’eredità, essendo ancora vivo. Invece gli permette di partire, pur prevedendo i possibili rischi. Così agisce Dio con noi: ci lascia liberi, anche di sbagliare, perché creandoci ci ha fatto il grande dono della libertà. Sta a noi farne un buon uso. Questo dono della libertà che Dio ci dà mi stupisce sempre!
Ma il distacco da quel figlio è solo fisico; il padre lo porta sempre nel cuore; attende fiducioso il suo ritorno; scruta la strada nella speranza di vederlo. E un giorno lo vede comparire in lontananza (cfr v. 20). Ma questo significa che questo padre, ogni giorno, saliva sul terrazzo a guardare se il figlio tornava! Allora si commuove nel vederlo, gli corre incontro, lo abbraccia, lo bacia. Quanta tenerezza! E questo figlio le aveva fatte grosse! Ma il padre lo accoglie così.
Lo stesso atteggiamento il padre riserva anche al figlio maggiore, che è sempre rimasto a casa, e ora è indignato e protesta perché non capisce e non condivide tutta quella bontà verso il fratello che aveva sbagliato. Il padre esce incontro anche a questo figlio e gli ricorda che loro sono stati sempre insieme, hanno tutto in comune (v. 31), ma bisogna accogliere con gioia il fratello che finalmente è tornato a casa. E questo mi fa pensare ad una cosa: quando uno si sente peccatore, si sente davvero poca cosa, o come ho sentito dire da qualcuno – tanti -: “Padre, io sono una sporcizia!”, allora è il momento di andare dal Padre. Invece quando uno si sente giusto – “Io ho fatto sempre le cose bene…” –, ugualmente il Padre viene a cercarci, perché quell’atteggiamento di sentirsi giusto è un atteggiamento cattivo: è la superbia! Viene dal diavolo. Il Padre aspetta quelli che si riconoscono peccatori e va a cercare quelli che si sentono giusti. Questo è il nostro Padre!
In questa parabola si può intravedere anche un terzo figlio. Un terzo figlio? E dove? E’ nascosto! E’ quello che «non ritenne un privilegio l’essere come [il Padre], ma svuotò sé stesso, assumendo una condizione di servo» (Fil 2,6-7). Questo Figlio-Servo è Gesù! E’ l’estensione delle braccia e del cuore del Padre: Lui ha accolto il prodigo e ha lavato i suoi piedi sporchi; Lui ha preparato il banchetto per la festa del perdono. Lui, Gesù, ci insegna ad essere “misericordiosi come il Padre”.
La figura del padre della parabola svela il cuore di Dio. Egli è il Padre misericordioso che in Gesù ci ama oltre ogni misura, aspetta sempre la nostra conversione ogni volta che sbagliamo; attende il nostro ritorno quando ci allontaniamo da Lui pensando di poterne fare a meno; è sempre pronto ad aprirci le sue braccia qualunque cosa sia successa. Come il padre del Vangelo, anche Dio continua a considerarci suoi figli quando ci siamo smarriti, e ci viene incontro con tenerezza quando ritorniamo a Lui. E ci parla con tanta bontà quando noi crediamo di essere giusti. Gli errori che commettiamo, anche se grandi, non scalfiscono la fedeltà del suo amore. Nel sacramento della Riconciliazione possiamo sempre di nuovo ripartire: Egli ci accoglie, ci restituisce la dignità di figli suoi e ci dice: “Vai avanti! Sii in pace! Alzati, vai avanti!”.
In questo tratto di Quaresima che ancora ci separa dalla Pasqua, siamo chiamati ad intensificare il cammino interiore di conversione. Lasciamoci raggiungere dallo sguardo pieno d’amore del nostro Padre, e ritorniamo a Lui con tutto il cuore, rigettando ogni compromesso col peccato. La Vergine Maria ci accompagni fino all’abbraccio rigenerante con la Divina Misericordia. (Papa Francesco, Angelus del 6 marzo 2016)
Fonte: Figlie della Chiesa