Poste al centro del cammino verso Gerusalemme, le parabole della misericordia sono davvero motivo di gioia per ogni uomo. Così, a metà del nostro cammino di Quaresima, la liturgia ci invita alla festa (domenica laetare) perché Dio è il Padre buono che attende il nostro ritorno, che opera per la conversione dei cuori.
Nessuno è escluso dalla misericordia di Dio. Non chi sembra perduto o irrimediabilmente lontano, perché il Signore non smette di cercarci per farci dono del suo abbraccio che è perdono preveniente; nemmeno chi sembra vicino ma ha il cuore altrove, perché viva la conversione a Dio come dono del suo amore sovrabbondante che ci introduce nella relazione filiale.
Il versetto introduttivo esplicita il contesto nel quale la parabola è raccontata e ne offre la chiave interpretativa. A Gesù viene contestato di frequentare pubblicani e peccatori, addirittura di banchettare con loro: segno di amicizia e festa, momento di dialogo e ascolto. Ed infatti essi «lo ascoltavano», azione che connota il discepolo, aprendosi così alla buona notizia e all’invito alla conversione a Dio Padre misericordioso, a differenza di scribi e farisei che «mormoravano», rivelando tutta la loro mancanza di fede verso l’immagine di un Dio che fa dell’amore la sua giustizia.
Agli uni e agli altri Gesù mostra il vero e scandaloso volto di Dio, con questa parabola che è una perla lucana nella narrazione della misericordia del Padre, perchè a queste due categorie di persone, i pubblici peccatori e i fedeli zelanti, possiamo ricondurre i due figli del racconto.
Entrambi sono colpevoli di non conoscere il Padre e la gratuità del suo amore; al contrario essi lo vedono come qualcuno che pretende obbedienza e impone doveri, privandoli della libertà (alla richiesta del figlio minore di avere ciò che gli spetta, il Padre, al v. 12, divide tra i due tòn bìon, la vita, e il maggiore, al v. 29, reclamando meriti superiori per averlo “servito” sempre, usa un termine che non esprime il servizio scelto liberamente per amore -diakonèo- ma di chi è schiavo -doulèuo-).
La falsa immagine del Padre dà luogo a due esiti diversi: l’allontanamento nel minore, la devozione servile nel maggiore.
Se nel figlio giovane possiamo rivedere tutti quelli che si ribellano di credere ad un Dio così, pensando di vivere come se non esistesse, in una vita dissoluta ed immorale, fondata sull’accaparramento e non sul dono; nel figlio maggiore riconosciamo invece tutti quelli che si sentono giusti, perchè adempiendo a doveri ed obbedendo a comandi, credono di andare a Dio sulla base dei loro meriti, senza però vivere l’amore e gustare la gioia di sentirsi figli e fratelli.
Solo dopo aver conosciuto la misericordia e il perdono senza condizioni e senza misura del Padre possiamo sentirci figli e aprirci all’amore verso i fratelli.
Per questo il padre del racconto non attende il pentimento del figlio minore, ma “appena lo vede” lo restituisce alla sua dignità (vestito), libertà (sandali) e integrità (anello) di figlio, con la compassione profonda e viscerale di una madre (v. 20: esplanchnìste) capace di generare la vita (vv.23-24: facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita).
Il v. 20 rappresenta il vertice di questa prima parte, esso ci mostra un padre che si è ritirato per far spazio alla sua creatura, che ne accetta le libere scelte pur soffrendone la lontananza e che al solo imboccare la via di casa gli corre incontro per fargli finalmente conoscere tutta la tenerezza del suo indefettibile amore e la sua potenza trasformatrice, vera esperienza di salvezza.
È sempre il padre a prendere l’iniziativa, anche col maggiore. Venuto a sapere del suo rifiuto a partecipare alla festa e alla gioia per il ritorno del figlio che era come morto, “esce a supplicarlo” di comprendere che “chi non accetta come fratello il peccatore, non ha compreso la gratuità dell’amore del padre e per questo non è figlio, perché Dio ci ama non perché siamo buoni, ma perché siamo figli” (S. Fausti). L’invito all’amore verso i fratelli, fino all’amore verso chi ci è insopportabile o addirittura nemico, può essere compreso solo dopo aver preso coscienza di essere figli, solo dopo aver fatto l’esperienza viva e vera di essere amati con tenerezza e generosità, solo dopo aver sentito l’abbraccio che accoglie le differenze e le fragilità, rendendole luogo di comunione, in quanto rivelatrici della medesima istanza di amore, perdono, libertà.
Così al v. 31 il padre mostra ancora dedizione e pazienza nel sanare le ferite dei figli, rivelando che a nulla vale un rapporto alimentato esclusivamente dal senso del dovere e soffocato dagli obblighi. E si rivolge a lui dolcemente (tèknon, mio piccolo) con un invito accorato, perché finalmente esca dalla logica retributiva ed accolga quella del dono per comprendere che “il perdono di Dio è fondamento del perdono reciproco degli uomini e il perdono vicendevole degli uomini è il sacramento visibile della misericordia di Dio” che fa nuove tutte le cose (I lettura) aprendoci alla Vita (v. 32: occorre far festa perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita).
Dio Tramite Cristo ci ha riconciliati a sé e ci ha reso ambasciatori del perdono affidando a noi la parola della riconciliazione (I lettura).
Nel nostro cammino di conversione quaresimale, la festa di oggi ci proietta alla gioia della resurrezione di Cristo e ci ricorda che, mediante il dono dello Spirito santo, mistero d’amore per ogni uomo, viviamo già la grazia dei figli di Dio che anticipa al presente la gioia eterna. Ecco l’invito a vivere sempre nella gioia e nel dono di sé la radicalità della sequela di Gesù.
Monica
Fonte: Comunità Kairos (Palermo)