Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 30 Settembre 2018.
Non è sempre facile distinguere gli amici dai nemici, a volte ci si inganna: la persona più fidata, quella scelta come confidente, un giorno può tradire, mentre quella che tenevamo sotto controllo perché la giudicavamo pericolosa, alla fine può rivelarsi la compagna più leale.
Come capire chi è con noi e chi è contro di noi?
Il cristiano, in certi momenti, ha l’impressione di procedere da solo lungo la retta via tracciata da Cristo ed è colto dallo sconforto; ma, non appena alza gli occhi e si guarda attorno, scorge, inattesi, tanti compagni di viaggio generosi, sinceri, ben disposti che camminano al suo fianco, rimane stupito e si chiede come mai non li aveva notati prima.
Non li vedeva perché erano nascosti dal fitto velo steso sui suoi occhi dalla presunzione di essere l’unico vero discepolo. L’invidia e la gelosia gli impedivano di riconoscere il bene compiuto da chi era diverso da lui.
Gli apostoli sono rimasti in silenzio quando Gesù li ha interrogati sulle ragioni del loro contendere lungo la via; si vergognavano perché il Maestro aveva smascherato le loro meschine ambizioni (Mc 8,34). Invece, non solo erano disposti ad ammettere, ma si sentivano fieri di coltivare l’orgoglio di gruppo, una presunzione altezzosa che li induceva a considerare nemici di Cristo e a condannare chi non la pensava come loro.
L’orgoglio di gruppo è molto pericoloso: è subdolo e fa ritenere santo zelo ciò che è solo egoismo camuffato, fanatismo e incapacità di ammettere che il bene esiste anche al di fuori della struttura religiosa cui si appartiene.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Gesù insegna a gioire del bene, chiunque ne sia l’autore”
Prima Lettura (Nm 11,25-29)
25 Il Signore scese nella nube e parlò a Mosè; prese lo spirito che era su di lui e lo infuse sui settanta anziani: quando lo spirito si fu posato su di essi, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito. 26 Intanto, due uomini, uno chiamato Eldad e l’altro Medad, erano rimasti nell’accampamento e lo spirito si posò su di essi; erano fra gli iscritti ma non erano usciti per andare alla tenda; si misero a profetizzare nell’accampamento.
27 Un giovane corse a riferire la cosa a Mosè e disse: “Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento”. 28 Allora Giosuè, figlio di Nun, che dalla sua giovinezza era al servizio di Mosè, disse: “Mosè, signor mio, impediscili!”. 29 Ma Mosè gli rispose: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!”.
Mosè aveva dedicato tutta la sua vita al servizio del popolo, ma, negli ultimi anni, fu colto dallo scoraggiamento. Le difficoltà e i problemi si moltiplicavano e gli israeliti non facevano che lamentarsi, avanzare pretese, ribellarsi.
Un giorno confidò al Signore: l’ho forse concepita io tutta questa gente? Non ce la faccio più a sopportare il peso di un popolo così grande e indisciplinato (Nm 11,10-15).
Dio allora gli suggerì: scegliti settanta persone che siano in grado di aiutarti; su di essi io farò scendere lo stesso spirito che si trova in te (Nm 11,16-18).
È a questo punto che inizia la nostra lettura.
Nel giorno fissato, i settanta uomini si riunirono nella tenda dove Dio era solito dialogare con Mosè, ricevettero lo spirito e cominciarono a profetizzare, entrarono cioè in uno stato di frenesia e di esaltazione e parlavano in nome di Dio (v. 25).
C’erano due anziani, Eldad e Medad, che pur non avendo partecipato al rito ufficiale, avevano ricevuto lo stesso spirito e si comportavano da profeti, esattamente come gli altri settanta. Un evento sorprendente, inatteso per tutti e anche piuttosto enigmatico perché non c’era spiegazione al fatto che due estranei avessero ottenuto lo stesso dono di Dio, pur essendo lontani dal gruppo dei prescelti.
C’era da rattristarsi? No. Bisognava piuttosto gioire del fatto che lo spirito si era posato anche su chi non apparteneva all’istituzione.
Qualcuno invece si preoccupò, si indignò e chiese a Mosè di intervenire per farli smettere. Lo stesso Giosuè, un personaggio eminente fra gli israeliti, si schierò con coloro che volevano ristabilire l’ordine e le gerarchie.
Mosè gli rispose: sei geloso? Magari tutti i membri del popolo ricevessero lo spirito e divenissero profeti.
Da questo episodio, gli animatori delle comunità cristiane possono cogliere un primo messaggio: per non sentirsi stremati ed esausti come Mosè, non devono essere degli accentratori del potere, ma devono corresponsabilizzare tutti i membri della loro comunità, condividendo con loro i compiti e i servizi da svolgere.
L’insegnamento principale però riguarda la condanna del fanatismo.
Fanatico è colui che aggredisce chiunque non la pensa come lui o non appartiene al suo gruppo; è chi chiude gli occhi di fronte al bene che altri fanno, convinto che chi non sta con lui o non condivide le sue convinzioni e i suoi progetti sia malvagio e vada combattuto. Il fanatico è pericoloso perché, se non riesce a imporsi con le ragioni, è portato a far ricorso alla spada, come difatti è accaduto con Giosuè.
Lo Spirito non può essere racchiuso dentro i confini di nessuna istituzione. Dio è libero di uscire dagli schemi e di suscitare ovunque il bene. Dove ci sono il bene, l’amore, la pace, la gioia, lì è certamente all’opera lo Spirito di Dio.
Seconda Lettura (Gc 5,1-6)
1 Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! 2 Le vostre ricchezze sono imputridite, 3 le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco.
Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! 4 Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti.
5 Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage.
6 Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza.
I profeti sono ricorsi spesso alle minacce nei confronti dei ricchi, tuttavia, in nessun libro della Bibbia c’è una condanna tanto violenta come quella che troviamo nella lettura di oggi. Per non sminuirne la carica provocatoria, va tenuto presente che Giacomo non distingue, come spesso si fa, fra ricchi buoni e ricchi cattivi; si riferisce ai ricchi e basta.
Le invettive della prima parte del brano (vv. 1-3) sono terribili: “Ricchi, cominciate a piangere, gridate per le sciagure che vi sovrastano!”. Tutto ciò che, con tanti sforzi e sacrifici, avete accumulato sarà distrutto, i prodotti dei vostri campi marciranno o bruceranno insieme ai magazzini in cui sono accatastati; i vostri splendidi abiti saranno divorati dalle tarme e i preziosi gioielli si copriranno di ruggine.
Come si spiega tanto livore?
Giacomo non se la prende con la ricchezza in sé, che è un bene e non va distrutta, ma, come i profeti e come Gesù, ne denuncia il cattivo uso e il pericolo che rappresenta quando è adorata come un idolo. Il ricco dimentica facilmente che “passerà come fiore d’erba. Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l’erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco appassirà nelle sue imprese” (Gc 1,10-11). La cupidigia è all’origine di ogni peccato (Gc 1,14-15) ed è la causa di tutti i dissensi e conflitti (Gc 4,1-4).
Nella seconda parte della lettura (vv. 4-6) Giacomo denuncia, in modo appassionato, l’origine della ricchezza. Essa è accumulata, per lo più, mediante l’ingiustizia nei confronti dei più deboli. È frutto di angherie, soprusi, sfruttamento dei lavoratori ai quali viene sottratto il frutto delle loro fatiche. Defraudare il salario di un operaio equivale a ucciderlo.
Il povero non ha la possibilità di opporre resistenza perché il ricco ha dalla sua parte anche la legge, la forza, l’appoggio di chi detiene il potere. Di fronte a un’ingiustizia così abilmente strutturata, cosa può mai fare l’indigente?
Nulla, non può opporre alcuna resistenza, non gli resta che affidarsi al Signore e invocare un suo intervento.
Di fronte alla condizione di impotenza cui è ridotto il povero, Giacomo dà libero sfogo alle minacce più dure che siano mai state pronunciate contro i ricchi: “Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage!”.
La severità della denuncia è giustificata dal fatto che l’accumulo della ricchezza è incompatibile con la scelta evangelica. I beni di questo mondo sono destinati a tutti e vanno condivisi con chi è nel bisogno e Gesù ha dichiarato, con estrema chiarezza: “Chiunque non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo” (Lc 14,33).
Vangelo (Mc 9,38-48)
38 Giovanni rispose a Gesù dicendo: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri”. 39 Ma Gesù disse: “Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. 40 Chi non è contro di noi è per noi.
41 Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa.
42 Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare. 43 Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. 45 Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo: è meglio per te entrare nella vita zoppo, che esser gettato con due piedi nella Geenna. 47 Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi nella Geenna, 48 dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue”.
L’evangelista Marco accosta, nello stesso capitolo e in modo volutamente provocatorio, due episodi. Nel primo mette in scena un uomo che si presenta a Gesù e gli dice: “Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti” (Mc 9,18). Nel secondo, quello che ci viene proposto nel vangelo di oggi, introduce un esorcista anonimo che, servendosi del nome di Gesù, ottiene invece ottimi risultati contro le forze del male.
Prevedibile e immediata la reazione dei discepoli che corrono a manifestare a Gesù la loro sorpresa, il disappunto e l’irritazione. Come può – si chiedono – uno che non ci segue, che non appartiene al nostro gruppo, compiere le stesse meraviglie o addirittura realizzarne di maggiori?
Questo interrogativo ne richiama subito altri e sono quelli che ci poniamo anche noi: se qualcuno occupa, con successo, il campo dove noi siamo chiamati a svolgere la nostra missione, c’è da rallegrarsi o da preoccuparsi? Chi è autorizzato a usare il nome di Gesù? A chi ha lasciato in eredità il suo Spirito, la forza che risana ogni malattia?
L’episodio narrato nel brano di oggi risponde a queste domande.
Nella prima parte (vv. 38-40) è esposto il fatto.
I guaritori dell’antichità erano soliti, durante la pratica degli esorcismi, pronunciare nomi di angeli, di demoni e di qualche personaggio rinomato per le sue facoltà terapeutiche. Ritenevano che questo contribuisse a rendere più efficaci i loro interventi e a ottenere risultati prodigiosi. Il nome più invocato era quello di Salomone, considerato il precursore e il protettore di tutti i cultori dei misteri del sapere; ma anche il nome di Gesù, divenuto ormai famoso in tutta la Galilea, cominciava a essere impiegato negli scongiuri, assieme a quello di altri esorcisti.
Un giorno Giovanni corre dal Maestro e gli riferisce: abbiamo scoperto che c’è in giro un nostro pericoloso rivale; cura le persone ricorrendo al tuo nome e noi l’abbiamo diffidato, perché non è dei nostri, non ci segue, non ha la nostra autorizzazione.
Si noti la ragione addotta: non ci segue. Non si dice che non segue Gesù, ma che non segue loro, i discepoli, rivelando così che avevano, radicata, la convinzione di essere gli unici e indiscussi depositari del bene. Gesù apparteneva solo a loro, erano loro il punto di riferimento obbligato per chiunque volesse invocare il suo nome e si sentivano contrariati dal fatto che qualcuno compisse prodigi senza appartenere al loro gruppo.
Nessuno di noi se n’avrebbe a male se, durante la vendemmia o la mietitura, uno sconosciuto si offrisse a darci una mano nella vigna o nel campo; sarebbe ridicolo e meschino chi si rammaricasse perché l’aiutante lavora di più e meglio di noi.
C’è invece chi si rattrista se viene a sapere che un non credente compie gesti d’amore anche eroici di cui sono capaci, sì, anche i cristiani, ma non solo loro. La reazione è in genere la stessa degli apostoli. Si finge di non vedere, si cerca di ignorare, si minimizza; non si gioisce del bene compiuto dagli altri perché costa ammettere che esistono seguaci di altre religioni migliori di noi. Da nessuno accettiamo volentieri lezioni di onestà, lealtà, non‑violenza, ospitalità, tolleranza.
Il principio discriminante suggerito da Gesù è chiaro: chiunque agisce in favore dell’uomo è dei nostri. Lo Spirito non è monopolio della struttura ecclesiale, è libero come il vento “che soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va” (Gv 3,8), agisce nella chiesa e fuori di essa.
Nelle nostre comunità sono molti coloro che prestano un servizio ai fratelli e, in genere, svolgono il loro compito con diligenza e generosità; tuttavia, compaiono spesso, qua e là, anche gelosie e invidie. Sono il sintomo inequivocabile che l’incarico che si era assunto ha cessato di essere un servizio ed è divenuto un espediente per affermarsi, per ritagliarsi uno spazio di potere dal quale viene tenuto lontano, come fosse un intruso, chiunque proponga cambiamenti o si offra a collaborare. Così il ministero ecclesiale non è più considerato la messe nella quale ci si aspetta che il Signore invii il maggior numero possibile di operai (Mt 9,37-38), ma è una torta da dividersi fra contendenti.
La seconda parte del brano (vv. 41-48) contiene una serie di detti del Signore.
Il primo si riferisce all’offerta di un bicchiere d’acqua. Si tratta del gesto più semplice e spontaneo, ma non va trascurato perché può segnare l’inizio di un rapporto di amicizia. Già un saggio dell’Antico Testamento ne aveva percepito il valore: “Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere” (Pr 25,21). Aveva intuito che questo piccolo segno di accoglienza poteva costituire la premessa per una riconciliazione.
Anche Gesù richiama questo gesto e – lo si noti – non lo attribuisce a uno dei suoi discepoli, ma a un estraneo. È uno sconosciuto che incontra, forse per la prima volta, i messaggeri del vangelo e offre loro “un bicchiere d’acqua”. Questo atto d’amore, anche se apparentemente di poco conto, non rimarrà senza frutto; instaurerà un rapporto di fiducia e segnerà l’inizio di un dialogo. Ogni gesto che favorisca l’incontro e la comunicazione fra le persone è prezioso e va favorito.
A questo primo detto seguono le minacce nei confronti di chi scandalizza i piccoli (v. 42).
Per scandalo si intende qualunque ostacolo che intralci il cammino del discepolo. I piccoli da non scandalizzare non sono i bambini, ma le persone deboli nella fede, coloro che, a stento e con difficoltà, muovono i primi passi al seguito del Maestro. Chi provoca il loro allontanamento si assume una responsabilità enorme.
Per inculcare questo messaggio, Gesù ricorre a un’immagine, la morte per affogamento, considerata dai giudei il supplizio più infamante, perché rendeva impossibile una conveniente sepoltura del cadavere.
Viene da chiedersi quale sia lo scandalo che fa perdere ai piccoli un’incipiente fede o quel poco che è loro rimasta.
Il contesto in cui, volutamente, Marco ha inserito il detto del Signore, permette di identificare la ragione di questo grave scandalo: l’ambizione (Mc 9,33-40).
I conflitti, le divisioni, gli scismi nella chiesa sono sempre derivati dall’orgoglio, dalla smania per il potere e dalla volontà di dominare sugli altri. Lo scandalo che, anche oggi, tiene lontano i “piccoli” dalla chiesa rimane lo stesso: lo spettacolo poco edificante delle competizioni e degli intrighi per occupare i primi posti e ottenere privilegi.
L’ultima parte del brano è dedicata alla messa in guardia contro un’altra forma di scandalo: quello che proviene dall’interno, lo scandalo causato dalla mano, dal piede, dagli occhi (vv. 43-48), organi che, al tempo di Gesù, indicavano gli impulsi al male, la concupiscenza, le inclinazioni che allontanano da Dio e inducono a scelte immorali.
Gesù esige dal discepolo il coraggio di fare i tagli necessari, anche se dolorosi, se si rende conto che alcune azioni, alcuni progetti, alcuni sentimenti sono incompatibili con la scelta evangelica.
Il riferimento più immediato è al controllo della sessualità, ma non solo. Ci sono altri tagli che devono essere fatti se non si vuole rovinare la propria vita e quella degli altri.
Vanno eliminati il dito puntato nell’arrogante atteggiamento di chi, alzando la voce, impone sempre la propria volontà, le mani che rubano, gli sguardi altezzosi e quelli che rivelano cupidigia di denaro, i piedi che, dai rancori, corrono spediti verso le vendette; vanno cavati gli occhi invidiosi e sospettosi che creano situazioni insostenibili nella comunità cristiana, dove i fratelli arrivano a non rivolgersi più nemmeno la parola.
Chi non ha il coraggio di amputare, in modo risoluto, queste occasioni di peccato, chi accontenta tutti i suoi capricci, non è severo con se stesso, non controlla le proprie passioni, corre il rischio di precipitare nella Geenna, “dove il verme non muore e il fuoco non si estingue” (v. 44).
La Geenna è la valle che scorre a sud di Gerusalemme. Era considerata immonda perché in essa alcuni re d’Israele avevano immolato i loro figli a Baal (Ger 19,5-6); lì erano anche state scavate tombe per seppellirvi i cadaveri e ardeva un fuoco perenne per consumare i rifiuti della città; un fumo maleodorante la rendeva disgustosa. Era maledetta e i rabbini l’avevano assunta a simbolo della rovina cui va incontro chi commette il peccato.
Il fuoco inestinguibile è un’altra immagine, derivata dall’oracolo con cui si chiude il libro di Isaia e rivolto ai nemici di Dio: “Il loro verme non morirà e il loro fuoco non si spegnerà” (Is 66,24). Il verme che non muore indica il perenne processo di putrefazione al quale va incontro chi si comporta da malvagio. È l’annuncio del disfacimento, dell’autodistruzione di chi non segue le vie di Dio.
A queste immagini, ben note al tempo di Gesù, si ricorreva spesso per ammonire, per scuotere le coscienze di chi trascurava i doveri verso Dio e verso il prossimo. Ne traviserebbe il significato chi le impiegasse per trarre conclusioni circa i castighi dell’inferno. Sulla bocca di Gesù sono un richiamo pressante e accorato, rivolto a ogni uomo, a non rovinare la propria vita e quella degli altri. Chi spreca la propria esistenza in questo mondo perde, per sempre, l’opportunità unica che Dio gli ha offerto; rovina eternamente se stesso, perché nessuno più gli potrà restituire il tempo che ha sciupato. Ma questa opportuna insistenza sulla serietà di questa vita non va equivocata, non è un annuncio di dannazione eterna dei reprobi.
[accordions]
[accordion title=”Chi è Fernando Armellini” load=”hide”]Ha conseguito la licenza in Teologia presso la Pontificia Università Urbaniana e in Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma.
Ha perfezionato gli studi di storia, archeologia biblica e lingua ebraica presso l’Università di Gerusalemme.
Per alcuni anni è stato missionario in Mozambico.
Attualmente insegna sacra Scrittura, è accreditato conferenziere in Italia e all’estero ed è autore di commenti alle Sacre Scritture.[/accordion]
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