Chi accoglie uno solo di questi bambini per il mio nome, accoglie me” aveva appena detto Gesù (v. 37). Nella cultura semitica il nome identifica in profondità la persona e il suo mistero. Il nome di Gesù ci parla a partire dalla fede in lui, approdata alla comunione col suo spirito. E in questo spirito il Maestro aveva appena dato alla sua comunità, tentata da una gerarchia di potere, la legge paradossale dei suoi rapporti interni: primo sarà l’ultimo, più grande il più piccolo. Una legge non praticabile se non per il suo nome, in virtù del suo spirito, perché nel piccolo, in trasparenze successive, si accolgono lui e il Padre.
Ora un già mortificato Giovanni, partendo da questa menzione del nome, si proietta incautamente sui rapporti esterni alla comunità, denunciando con convinzione un tale che “scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non seguiva noi”. Continua ad emergere il fraintendimento totale dei discepoli e la loro distanza dal pensiero di Gesù. La tentazione del potere, che si era manifestata già all’interno della comunità, si proietta qui all’esterno come difesa dell’identità e dell’appartenenza, come chiusura e rifiuto di accoglienza di un “diverso”, che non è dei nostri e di certo fa un uso strumentale del nome di Gesù, dato che “non viene appresso a noi”. Qui emerge l’errore: immaginarsi oggetto invece che soggetto di sequela. Non si considerano tutti alla sequela del Cristo, dietro di lui, come fratelli, ma si chiudono a riccio davanti “uno”, senza volto e senza nome, di cui ignorano l’opera, concentrati sul monopolio della buona notizia che già vogliono riservarsi. Non mettono al centro il nome di Gesù, ma l’idolo-comunità cui appartengono e che già a loro appartiene, nella ricorrente tentazione di occupare spazi, potere, prestigio.
E Gesù torna ancora a formarli, riproponendo la sua visione di accoglienza della persona: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo per il mio nome e subito possa parlare male di me”. Allo sconosciuto accredita una adesione al suo mistero tale da investirlo del suo spirito e renderlo capace di opere di liberazione per la costruzione del regno (cfr. 1Cor 12,3).
Così il Maestro declina la parola dell’accoglienza all’esterno della sua comunità, o, meglio, delinea una comunità che non abbia frontiere se non nell’attiva conversione al Padre della vita che Lui è venuto a raccontare.
Appartenenza non è allora adesione a uno statuto ma alla persona, al nome di Gesù. Fin dall’origine questo problema ha interrogato la comunità, trovando un decisivo sblocco nel riconoscervi un libero dono divino, non imbrigliabile dagli uomini, nemmeno “di chiesa”: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8), aveva già spiegato Gesù. E Pietro aveva riconosciuto: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga (At 10,34) … Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11,17).
Gesù è un uomo libero e sogna in grande non per la sua chiesa, ma per il Regno del Padre. E il Regno è sempre più vasto della chiesa. Alla sua comunità riserva allora un altro paradosso: “chi non è
contro di noi è per noi”, per resistere alla tentazione della conta e dei registri, delle barriere e delle espulsioni.
Non è proprio questo il cammino che la sua chiesa ha percorso nel corso dei millenni, tra fedeltà e integrismi, giungendo solo di recente al sereno riconoscimento che “Il Cristo totale include in un certo senso ogni uomo, poiché Cristo si è unito a tutti gli uomini” e che “Anche i non cristiani sono inclusi nella volontà salvifica di Dio. La conseguono purché positivamente, scientemente non si oppongano ai doni dello Spirito”. (Commissione teologica internazionale Il cristianesimo e le religioni, LEV, Città del Vaticano 1997).
Così pure il semplice bicchiere d’acqua, donato e ricevuto nello spirito del Signore e a motivo dell’appartenenza a Lui, l’unica davvero fondante, diventa simbolo di relazioni fraterne, fonti di vita nuova che travalica confini di spazi e di tempo.
La stessa esigenza, diversamente espressa, ora al negativo, anima la seconda parte del brano. Qui la parola chiave è “scandalizzare”, porre un inciampo al cammino di fede, quello che più sta a cuore a Gesù. Per questo trova parole tra le più dure contro chi attenti in qualche modo a questo percorso altrui, soprattutto dei piccoli, i semplici nella fede, esposti a un blocco del loro cammino per la spregiudicatezza altrui. Ecco, farsi carico del suo destino finale è vero servizio reso al fratello. (cfr. 1Cor 8,11).
Uguale radicalità, scandita da un linguaggio altrettanto crudo, è dovuta alla cura del proprio percorso. Niente vale più dell’ingresso nella Vita, come Gesù usa indicare l’approdo al Regno e alla comunione divina. Questo il traguardo impegnativo dell’uomo, la buona battaglia di Paolo, la corsa verso il premio, che anche qua, paradossalmente, può corrersi meglio con un solo piede, se l’altro ti devia; con un solo occhio, se l’altro nutre l’invidia.
Strapparsi la mano della bramosia e del possesso vale il successo e la piena realizzazione della persona: vivere e lasciare vivere la libertà in un mondo riconciliato. L’alternativa è l’insuccesso totale: finire nella discarica, la Geenna, come rifiuti da bruciare.
Raffaela Brignola
Fonte: Comunità Kairos (Palermo)