Nel nome della Trinità
Mt 28,16-20 è stato definito la “chiave interpretativa” di tutto il Vangelo secondo Matteo. È da questo brano che oggi la Chiesa parte per contemplare il mistero della Trinità.
Lì, dove tutto era iniziato. Nel Primo Vangelo, il Risorto non appare subito a tutti i discepoli, ma solo alle donne (Mt 28,9-10), che dovranno dire loro dove Gesù li vuole incontrare: «Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno». Gli Undici partono, e salgono su un monte della Galilea. In questa regione al nord di Israele, tutto aveva avuto inizio: Gesù aveva cominciato ad insegnare e fare miracoli, e lì aveva inaugurato la sua missione al suo popolo. Ora, da qui tutto riprende. Dopo la passione e la risurrezione, l’arrivare del Risorto e dei suoi discepoli è l’inizio di una nuova missione. Questa volta, e per la prima volta, è la missione ai non ebrei, ai pagani. Ma prima di ricevere il mandato, gli Undici si ritrovano ad essere immersi nel mistero della Trinità.
La Chiesa contempla la Trinità. Quanto accade è descritto da Matteo con la simbolica a cui il suo Vangelo ci ha abituati. Il monte è anzitutto il luogo dove Gesù si era già manifestato, trasfigurato, come il Figlio prediletto del Padre (Mt 17,5). Ora, ancora una volta, su un monte parla di sé come del Figlio, unito al Padre dallo Spirito. Dal monte Gesù aveva insegnato alla folla (Mt 5-7), ed ecco che da un monte invia i suoi discepoli ad insegnare le cose che ha comandato di osservare. Non dimentichiamo poi che proprio all’inizio della missione di Gesù, il diavolo l’aveva tentato trasportandolo su un alto monte, promettendogli in cambio i regni di tutta la terra, se fosse stato da lui adorato (Mt 4,8-10). Su un monte, e dopo tutte le sue prove oramai concluse, è invece Gesù ad essere adorato dai discepoli che si prostrano davanti a lui. Queste esperienze che abbiamo ora brevemente ricordato raccolgono e sintetizzano la vita pubblica di Gesù, che i discepoli fanno forse ancora fatica a coniugare con la presenza del Cristo, lì davanti a loro, visibile dopo la sua risurrezione. Ed ecco che nascono i dubbi.
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Ma di chi sono questi dubbi? La frase in Mt 28,17 viene tradotta dall’attuale versione della Conferenza Episcopale Italiana con «essi però dubitarono», implicando che tutti gli Undici non si capacitano di quello che vedono. La questione, molto complicata, e che ha dato origine a tante discussioni, è causata dalla particolarità dell’articolo greco, che qui funzionerebbe, a parere di alcuni studiosi, come un pronome personale per indicare i “tutti” della frase precedente. Il problema di questa posizione è che se non fosse un partitivo, non avrebbe senso l’uso dell’articolo: sarebbe bastato il verbo “dubitarono”. Per l’idea che siano solo alcuni a dubitare, sono la maggioranza dei commentatori, è la scelta più antica (cfr. Girolamo nella Vulgata: «quidam autem dubitaverunt»), come quella della versione CEI precedente all’attuale.
Nel nome della Trinità. In quei discepoli – gli Undici – ci siamo anche noi. Tutti lo adorano, ma tra essi vi sono coloro che hanno poca fede. Anche davanti al mistero di Dio uno e trino – come davanti a quello della risurrezione di Gesù – è richiesto il dono della fede: «La Trinità è un mistero della fede in senso stretto, uno dei misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati. […] L’intimità del suo Essere come Trinità Santa costituisce un mistero inaccessibile alla sola ragione, come pure alla fede d’Israele, prima dell’Incarnazione del Figlio di Dio e dell’invio dello Spirito Santo» (Catechismo della Chiesa cattolica, 237).
La comprensione di questo mistero nella Chiesa e nella teologia si svilupperà gradualmente, a partire proprio dalla formula tripartita di Mt 28,19 che diventerà la base della liturgia del Battesimo: «I cristiani sono battezzati nel nome – e non nei nomi – del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Professione di fede di papa Vigilio). Si dovrà poi confrontare con il rigoroso monoteismo ebraico e il politeismo dei pagani, ma soprattutto «il problema trinitario si acutizza quando, tra la fine del III sec. e l’inizio del IV, nel tentativo di illustrare nei termini della cultura e della filosofia greco-ellenistica il mistero del Dio rivelato da Gesù Cristo, si rischia di comprometterne l’originalità e la verità, ricadendo, pur con ottime intenzioni, in modelli culturali pre-cristiani» (Piero Coda). Sarà la sfida più grande, che porterà ai concili di Nicea e di Costantinopoli II.
La Chiesa riceve il compito di evangelizzare tutti i popoli. Da quel luogo santo i discepoli sono inviati a tutti i popoli della terra. È la svolta epocale del Vangelo, la “Pentecoste” di Matteo: il vangelo, che doveva anzitutto essere annunciato agli ebrei («Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani – diceva loro Gesù –; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele»; Mt 10,5-6), ora è aperto a tutti. Con questo vangelo, Dio sarà presentato come uno e trino. Le ultime parole di Gesù, nel Primo Vangelo, dicono infatti della presenza della Trinità nella storia, e chiudono la storia raccontataci da Matteo per aprire ad un’“altra storia”: “Tutta la storia della salvezza è la storia del rivelarsi del Dio vero e unico: Padre, Figlio e Spirito Santo” (CCC 234).