Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 3 Marzo 2019
Come tutti coloro che insegnano la via di Dio – come i dottori del tempio che Gesù dodicenne è andato ad ascoltare (Lc 2,46), come il Battista (Lc 3,12), come Nicodemo (Gv 3,10) – anche Gesù è chiamato maestro dal popolo. Anzi, se escludiamo i casi appena citati, questo termine (che ricorre 48 volte nei Vangeli) è riferito sempre e solo a lui.
Gesù è però un maestro originale. Parla e si comporta in modo diverso dagli altri: non tiene le sue lezioni in una scuola, insegna lungo la strada; non esige un compenso dai suoi uditori, non riserva il suo insegnamento ad una élite di intellettuali, si rivolge ai poveri della terra, a coloro che i maestri d’Israele disprezzano chiedendosi: “Come può diventare saggio colui che maneggia l’aratro, si vanta di brandire il pungolo e parla solo di vitelli?” (Sir 38,25).
È un maestro libero sia nell’interpretazione sia nella pratica della Torah, ma stupisce soprattutto perché, invece di invitare i discepoli a seguire i precetti della Legge, fin dall’inizio della sua missione, chiede ai discepoli che seguano lui. La “legge” è la sua persona, la sua vita, non il ginepraio di disquisizioni rabbiniche.
I maestri d’Israele spiegavano cosa si doveva fare per piacere a Dio, basandosi sulla loro conoscenza della Torah. Presentavano i loro insegnamenti, dedotti dalle Scritture, con le parole impiegate anche dai profeti: “Così dice il Signore”.
Il maestro Gesù parla in modo diverso. Egli introduce i suoi insegnamenti con l’espressione: “Ora io vi dico”, collocando le sue parole accanto a quelle di Dio.
Nei Vangeli gli apostoli non sono mai chiamati maestri, ma sempre e solo alunni, discepoli che devono apprendere non una lezione, ma una vita, seguendo l’unico Maestro.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Uno solo è il nostro maestro, Cristo Signore, e noi siamo tutti discepoli”.
Prima Lettura (Sir 27,4-7)
4 Quando si agita un vaglio, restano i rifiuti;
così quando un uomo riflette, gli appaiono i suoi difetti.
5 La fornace prova gli oggetti del vasaio,
la prova dell’uomo si ha nella sua conversazione.
6 Il frutto dimostra come è coltivato l’albero,
così la parola rivela il sentimento dell’uomo.
7 Non lodare un uomo prima che abbia parlato,
poiché questa è la prova degli uomini.
Quando finalmente viene smascherato qualcuno che, per molto tempo, è riuscito a tessere intrighi a nostro danno, ha tramato nell’ombra e l’ha sempre fatta franca, esclamiamo soddisfatti: “Un giorno o l’altro tutti i nodi vengono al pettine”. Certo i denti del pettine possono essere radi o fitti. Per noi, magari, usiamo il pettine largo, mentre per gli altri preferiamo quello fine.
Il Siracide non impiega il paragone del pettine, ma quelli del vaglio e della fornace.
In quel tempo le donne, prima di macinare il grano lo ponevano in un setaccio e lo vagliavano con molta cura per separarlo dalle impurità, dalle foglie, dalle pagliuzze, dalla pula. I vasai non si compiacevano della bellezza di un loro vaso prima di averlo cotto al fuoco, fatto passare attraverso il calore della fornace che avrebbe potuto ridurlo in cocci.
La lettura di oggi inizia dicendo che, nei confronti degli altri, noi ci comportiamo spesso come le donne che setacciano il grano: li giriamo e rigiriamo, li scuotiamo per bene, li buttiamo per aria, li esponiamo al vento finché non riusciamo a far venire fuori tutti i difetti, tutti gli scarti, tutte le magagne che hanno. Ci comportiamo come i vasai: li sottoponiamo alla prova del fuoco, li teniamo mesi e anni nella fornace dei nostri severi controlli. Lì resiste soltanto chi è proprio immune da qualunque difetto.
Se ci esaminassimo con il medesimo rigore, scopriremmo non solo i limiti degli altri, ma anche le nostre numerose manchevolezze (v.4).
Ci sono situazioni in cui non ci si può esimere dall’esprimere giudizi e dal fare valutazioni obiettive: non si può concedere a tutti la stessa fiducia, è doveroso farsi un’idea corretta dell’autentico valore delle persone alle quali si devono affidare incarichi di grande responsabilità.
Così pure sarebbe ingenua una ragazza che si fidasse ciecamente del primo giovane che incontra.
Ma quali criteri seguire per dare valutazioni ponderate?
Il Siracide dà un consiglio saggio: non ci si deve far condizionare dalla prima impressione. Per conoscere ciò che le persone hanno nel cuore bisogna lasciarle parlare perché “la prova dell’uomo sta nella sua conversazione… la parola rivela il cuore dell’uomo” (vv.5-6).
In conclusione, la norma da seguire è: “Non lodare un uomo prima che abbia parlato, perché questa è la prova degli uomini” (v.7).
Seconda Lettura (1 Cor 15,54-58)
54 Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura:
La morte è stata ingoiata per la vittoria.
55 Dov’è, o morte, la tua vittoria?
Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?
56 Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. 57 Siano rese grazie a Dio che ci dá la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo! 58 Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Per la quarta domenica consecutiva ci viene proposto un brano del capitolo 15 della lettera ai Corinti; oggi è quello conclusivo e il tema è sempre lo stesso: la risurrezione.
Paolo riassume ciò che ha detto: entrando nella nuova vita gli uomini non recuperano semplicemente il corpo che hanno in questo mondo, ma ne ricevono uno nuovo, rivestito di incorruttibilità e di immortalità (v.54). Allora – dice – si compirà la parola della Scrittura: “La morte è stata ingoiata dalla vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (vv.54-55). Lo stato dei “risorti” non è paragonabile a quello di chi vive in questo mondo. La morte, con tutti i suoi alleati – il dolore, la malattia, la fame, la violenza, l’odio – non avrà mai più alcun potere sull’uomo, perché la vittoria di Cristo sarà totale e definitiva (vv.56-57).
Dopo questa affermazione ci aspetteremmo che Paolo raccomandasse ai cristiani di Corinto di non fissare gli occhi su questo mondo, ma di guardare verso il cielo dove li attende la vita vera. Invece niente. Non li esorta a contemplare le meraviglie che li aspettano, ma a lavorare, ad impegnarsi in questo mondo, nella certezza che tutto il bene che costruiscono, tutto l’amore che diffondono non andranno perduti. “Rimanete – dice – saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore” (v.58).
Vangelo (Lc 6,39-45)
In quel tempo, 39 Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: “Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca? 40 Il discepolo non è da più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro.
41 Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? 42 Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.
43 Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. 44 Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo.
45 L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore.
Nel Vangelo delle ultime due domeniche abbiamo ascoltato un messaggio che è in netto contrasto con la logica degli uomini: sono stati proclamati beati coloro che tutti considerano persone infelici (i poveri, gli affamati, quelli che piangono, i perseguitati) e sono state sconfessate le persone di successo (i ricchi, i sazi, quelli che si godono la vita). Non ci potrebbe essere un ribaltamento più radicale.
Non basta. È stato stabilito anche il principio dell’assoluta non‑violenza: il cristiano non può reagire al male col male, ma deve sempre essere disposto ad amare anche i nemici.
Si tratta di affermazioni sconvolgenti. E` inevitabile allora che, anche nella comunità cristiana, alcuni tentino di addolcirle, di renderle meno dure, un po’ più compatibili con la debolezza umana.
Si dice, per esempio: è vero che non si può ricorrere alla violenza, tuttavia, in certi casi… Bisogna perdonare, sì, ma non fino al punto di essere considerati ingenui e sprovveduti. Se si insegna ai figli ad essere generosi ad ogni costo, a non competere, a mettersi dalla parte dei più deboli, li si pone nella condizione di venire sopraffatti dai malvagi e dalla gente senza scrupoli.
Coloro che parlano in questo modo, anche se sono cristiani, si comportano da falsi maestri, magari senza rendersene conto.
Con abili distinzioni e sottili ragionamenti fanno perdere al messaggio di Gesù la sua carica dirompente. A loro è rivolto il Vangelo di oggi, composto da una serie di detti del Signore.
Inizia con un proverbio popolare molto noto: “Un cieco non può guidare un altro cieco” (v.39).
Un giorno i discepoli riferiscono a Gesù che i farisei sono rimasti scandalizzati dalle sue parole. Risponde: “Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi” (Mt 15,14). Tutti i Giudei si consideravano maestri capaci di guidare i ciechi, cioè i pagani (Rm 2,19-20).
Nel brano di oggi i destinatari del drammatico ammonimento del Signore non sono però né i farisei né i Giudei, ma gli stessi discepoli. Anche per loro esiste il pericolo di comportarsi da guide cieche.
Nella chiesa dei primi secoli, i battezzati erano detti gli illuminati perché la luce di Cristo aveva loro aperto gli occhi. I cristiani dovrebbero essere coloro che ci vedono bene, che sanno scegliere i giusti valori nella vita, che sono in grado di indicare il retto cammino a chi brancola nell’oscurità.
Ma questo non sempre accade e Gesù mette in guardia i suoi discepoli dal pericolo di smarrire la luce del Vangelo. Essi possono precipitare di nuovo nelle tenebre e lasciarsi guidare, come gli altri, dai falsi ragionamenti dettati dal “buon senso” umano. Quando questo accade, davanti a loro si spalanca un baratro mortale nel quale cadono assieme a chi si è fidato di loro.
I falsi maestri cristiani possono commettere anche un altro errore, dettato dalla presunzione: ritenere che tutto ciò che pensano, dicono e fanno sia saggio, giusto e conforme al Vangelo.
Si sentono in diritto di impartire disposizioni in nome di Cristo, con tale sicurezza da dare la netta impressione che si sono sostituiti al Maestro, anzi, che gli siano superiori. Esigono titoli, privilegi, onori, poteri che neppure il Maestro ha mai preteso di avere.
A chi nella comunità si sente investito di una simile autorità, Gesù ricorda un altro proverbio: “Il discepolo non è da più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro” (v.40).
Il pericolo contro il quale Gesù mette in guardia è soprattutto quello di identificare le proprie idee, le proprie convinzioni, i propri progetti con il suo pensiero. Si tratta di una presunzione temeraria, sconsiderata. Costoro dimenticano di essere soltanto dei discepoli, si sentono maestri, anzi, si comportano come se fossero superiori al Maestro.
Non è finita. Questi falsi maestri si arrogano un diritto ancora più esorbitante, fanno qualcosa che lo stesso Gesù non ha mai voluto fare (Gv 3,17): giudicano, pronunciano sentenze di condanna nei confronti dei fratelli. Per loro viene raccontata la parabola della pagliuzza e della trave (vv.41-42).
È un invito a diffidare dei cristiani che si sentono sempre nel giusto, sempre sicuri di quello che dicono, insegnano, fanno. Essi non si rendono conto di avere davanti agli occhi tronchi enormi che impediscono loro di vedere la luce. Quali? Le passioni, l’invidia, la volontà di dominare sugli altri, l’ignoranza, la paura, le patologie psicologiche dalle quali nessun mortale è completamente esente. Tutte queste sono grosse “travi” che impediscono di cogliere con chiarezza le esigenze della parola di Dio. Bisogna tenerne umilmente conto e comportarsi in modo meno presuntuoso, essere meno intransigenti nell’imporre la propria visione della realtà e meno sicuri quando si giudica l’operato degli altri.
Un esempio ci può aiutare a capire. Per tanti secoli i cristiani hanno sostenuto che ci sono delle guerre giuste e che, in certe situazioni, è persino un dovere prendere in mano le armi. Sono state addirittura fatte guerre in nome del Vangelo. Come è potuto accadere se Gesù ha parlato così chiaramente dell’amore al nemico? La spiegazione c’è: le travi dell’orgoglio, dell’intolleranza, del dogmatismo, del fondamentalismo che i cristiani avevano davanti agli occhi e nemmeno se ne rendevano conto hanno impedito di scorgere le esigenze evangeliche.
Se oggi siamo costretti ad ammettere che in tante occasioni ci siamo dimostrati ciechi, dobbiamo essere molto cauti nel giudicare, nell’imporre le nostre convinzioni, nel condannare chi manifesta opinioni diverse. Può darsi che sia giusto quello che pensiamo, può darsi che sia realmente evangelico, ma Gesù vuole che la proposta cristiana sia fatta con molta umiltà, con estrema discrezione e rispetto e, soprattutto, senza mai giudicare chi non riesce a capirla, chi non se la sente di accettarla. Non va dimenticato che la possibilità di avere una trave davanti agli occhi non è remota!
Concludendo questa prima parte del Vangelo, Gesù chiama ipocriti questi “giudici”, questi “maestri” cristiani sicuri di sé e delle proprie idee. Ipocriti significa “attori”, “gente che fa teatro”. Coloro che giudicano gli altri, sono per Gesù degli attori. Sono anch’essi peccatori, ma “recitano”: si siedono in tribunale come giudici e pronunciano sentenze terribili.
Luca è chiaramente preoccupato da ciò che accade nelle sue comunità, divise dalle critiche, dai pettegolezzi, dai giudizi malevoli. Per questo richiama le parole dure del Signore al riguardo.
Come distinguere nella comunità cristiana i buoni dai cattivi maestri? Come sapere di chi ci si può fidare e di chi no? Come riconoscere coloro che sono ciechi o hanno travi davanti agli occhi?
L’ultima parte del Vangelo di oggi (vv.43-45) offre il criterio per giudicare: “L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore”.
Noi siamo abituati ad interpretare queste parole di Gesù come un invito a valutare le persone in base alle opere che compiono. Questo è il senso che hanno nel Vangelo di Matteo (Mt 7,15-20); ma nel Vangelo di Luca hanno un significato diverso.
Dal contesto risulta evidente che qui “i frutti” sono il messaggio che i maestri cristiani annunciano. Questo messaggio può essere buono o cattivo.
Come il Siracide – lo abbiamo ascoltato nella prima lettura – anche Gesù invita a valutare i maestri in base alle loro parole: “La bocca infatti parla dalla pienezza del cuore” (v.45). Ciò che essi annunciano va sempre confrontato con il Vangelo. Allora si potrà valutare se ciò che viene proposto è cibo nutriente o è un frutto velenoso.