Commento al Vangelo del 3 Giugno 2018 – Figlie della Chiesa

La liturgia della Parola (Es 24,3-8; Sal 116,12-18; Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.22-26), che in quest’anno “B” ci viene proposta per la Solennità del Corpo e Sangue del Signore, ci orienta a radicare l’Eucaristia nelle tradizioni cultuali del popolo di Israele e, attraverso di esse, nella profondità delle religioni ancestrali. Il rito dell’Alleanza con il sangue di un animale sacrificato diviso in due raccontato, secondo la tradizione E, in Es 24,3-8, è un’usanza ancestrale (cfr Gen 15,17-19; Ger 34,18), che passò dal costume civile (alleanza tra due uomini, o comunque tra due istituzioni umane) a quello religioso (alleanza tra la divinità e l’uomo): poiché la divinità non era presente in carne ed ossa, gli si sacrificava parte dell’animale. In seguito, tale usanza fu assunta da Israele che ne ampliò notevolmente il significato e la portata. Un ulteriore arricchimento venne apportato dalla celebrazione annuale della pasqua, quale rinnovamento dell’Alleanza, e dalla celebrazione del giorno di espiazione.

Il testo dell’Alleanza, come ci racconta il brano dell’Esodo, viene scritto sia da Mosè (Es 24,4 cfr Es 34,27) che da Dio (Es 24,12; 31,18; 34,1). Nel Medio Oriente antico il testo scritto dai contraenti l’alleanza era deposto nel tempio, ai piedi della statua del dio, e poi letto periodicamente. Seguendo questa prassi, Mosè costruì un altare sotto il monte, segno della presenza divina, con accanto le dodici stele, segno della presenza delle tribù d’Israele (cfr Gs 4,3-9.20-24; 24,26-27; 1Re 18,31); poi sparse il sangue della vittima sull’altare e sul popolo.

Il significato del sangue della vittima sacrificale è legato a quello di “vita”. Privato del suo sangue, l’essere vivente muore. Davanti all’animale “tagliato” in due parti, simbolo dei due contraenti, il sangue versato impegna per la vita, cioè totalmente. In caso di rottura del patto, il sangue del fedifrago scorrerà (cfr Ger 34,18), come quello dell’animale. In quanto simbolo della vita, il sangue, è idoneo a significare i rapporti umano-divinità. Metà viene sparso sull’altare e metà sul popolo (Es 24,8), per sancire il patto d’unione o alleanza tra JHWH e Israele, che si impegna di conseguenza a mettere in pratica le leggi divine (Es 24,7). Versando lo stesso sangue sull’altare di Dio e sul popolo, Mosè rivela che, grazie all’Alleanza, un solo sangue scorre nelle vene dell’ebreo e in quelle di Dio. Nel Nuovo Testamento, sarà il sangue di Cristo, divina vittima innocente per noi, che unirà a Dio il nuovo Israele nella Nuova Alleanza (cfr Mt 26,28; Mc 14,24; Lc 22,20; 1Cor 11,25), che lo renderà consanguineo di Dio. Il testo di Eb 9,12-15, e più ancora di Eb 9,18-20, si riferisce espressamente all’episodio di Es 24,3-8.

L’Eucaristia si radica profondamente in queste tradizioni ancestrali ed israelitiche e ne dà compimento. 

Nella versione marciana, nonostante il suo legame con la cena pasquale e con la passione e morte di Gesù, il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia (Mc 14,22-26) appare autonomo rispetto al resto del racconto. Il genitivo assoluto con il quale comincia: “mentre essi mangiavano” (Mc 14,22) istituisce il legame del passo con quanto lo precede e con quanto lo segue.

All’inizio la pericope fu tramandata, come autonoma, dalla prassi liturgica. Perciò si suppone che una volta essa cominciasse con la menzione del nome di Gesù e dei discepoli. Quando venne fissato un ininterrotto racconto della passione, questa menzione non fu più necessaria. L’indipendenza della tradizione è confermata da 1Cor 11,23-26, dove il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia non è inserito nel più ampio racconto della passione. Se, tuttavia, Paolo parla della notte in cui Gesù fu consegnato, ciò non significa che si presupponesse già un racconto coerente della passione, ma solo che si voleva ricordare quel fatto. Il testo di 1Cor è inoltre storicamente importante perché ci riporta agli anni 50-52, quando già esisteva un racconto ufficiale, con stilizzazione liturgica e autenticazione apostolica di quanto era accaduto nell’ultima cena. Ciò sta a significare che la tradizione della cena è più antica di un ininterrotto racconto della passione. In Mc 14,22-26 sorprende che, a eccezione del “mentre mangiavano”, non si trovi alcun riferimento alla celebrazione della pasqua e non si faccia cenno all’agnello pasquale, anche se il contesto presuppone un banchetto pasquale, per il quale, ai vv. 12-15, sono stati descritti dettagliatamente i preparativi. Prima ancora di essere inglobate in un racconto sistematico della passione, le parole del racconto della Cena erano già fissate nell’uso liturgico della comunità, che celebrava l’Eucaristia nella Domus Ecclesia, ma non più la pasqua ebraica.

Marco, quindi, prende il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia dalla liturgia e lo inserisce nel racconto della passione, nel contesto della cena pasquale senza tuttavia accennare minimamente al rituale di quest’ultima. Infatti, dopo aver dato disposizioni dettagliate per la preparazione della pasqua (Mc 14,12-16) ed aver annunciato il suo tradimento (Mc 14,18-21), Gesù prosegue la cena dandole un andamento del tutto nuovo rispetto al rituale tradizionale. È evidente, perciò, che con tutti i suoi gesti, minutamente annotati dagli evangelisti e perfino da Paolo (cfr 1Cor 11,23-25), egli volesse compiere qualcosa di eccezionale e di estremamente importante. Pur nelle loro inevitabili divergenze letterarie, tutti i testi convergono nell’attirare l’attenzione sulle parole che accompagnano e spiegano quei gesti.

“Questo è il mio corpo” (Mc 14,22): la costruzione della frase, con la copula “è” che identifica il soggetto con il predicato, non ammette dubbi o incertezze. Come apparirà meglio dalle parole che accompagnano la consegna del calice (Mc 14,24), Gesù intendeva operare in un clima strettamente sacrificale. Come nei pasti sacrificali, la vittima, spezzata in due, era il veicolo di unione con il quale si entrava in diretta comunione con la divinità, così anche il pane spezzato ed offerto agli apostoli doveva essere la vittima di questo nuovo sacrificio, che mentre veniva consumata assicurava gli stessi effetti di unione con Dio. Gesù riferisce direttamente il pane a se stesso. Il termine sôma è una perifrasi che indica la persona, la frase potrebbe anche essere resa così: “Questo sono io stesso”. Nel banchetto, coloro che mangiano acquistano una comunione nuova con lui. Sulla base della frase sul calice si capisce che tale comunione con lui va alla morte. Il sôma, posto in parallelismo col sangue versato, è il corpo spezzato del sacrificio. Chi ne mangia non solo si unisce al Christus passus, ma ha anche parte a questa morte e alla benedizione che essa sprigiona.

Il rituale giudaico della pasqua prevedeva la consumazione di quattro calici di vino: uno proprio all’inizio della cena, che era accompagnato da una formula di benedizione; un secondo, dopo l’antipasto di erbe amare; un terzo dopo la consumazione dell’agnello ed era detto calice della benedizione perché era accompagnato dalla preghiera di ringraziamento della mensa; alla fine, terminato il canto dell’Hallel, il quarto calice, che però è incerto se fosse in uso al tempo di Cristo. Secondo Lc 22,20 e 1Cor 11,25 il calice fu distribuito da Gesù alla fine della cena e quindi dovrebbe essere stato il terzo o il quarto del rituale pasquale. Marco, con Matteo, resta invece sul generico.

La frase, fin troppo sintetica: “Questo è il mio sangue dell’Alleanza” (v.24), contiene due affermazioni. La prima è formulata, come abbiamo visto, in perfetto parallelismo con le parole pronunciate sul pane e va interpretata allo stesso modo. La seconda indica che il sangue di Gesù è il sangue dell’alleanza. Per intendere bene quest’affermazione è necessario riferirsi all’episodio descritto in Es 24,1-8. Grazie alla morte di Gesù viene posta in essere un’Alleanza che prende il posto della prima. Il sangue di Gesù entra in contrasto tipologico col sangue dell’antica Alleanza. Secondo Zc 9,11, i prigionieri sono liberati dal carcere “grazie al sangue di questa Alleanza”. L’inaugurazione dell’Alleanza procura redenzione e salvezza. Nella frase sul calice, la salvezza comunicata viene concretizzata come espiazione universale. Il “sangue è versato” equivale a essere ucciso, poiché secondo una concezione biblica il sangue era considerato portatore della vita e della vitalità. Di conseguenza, il calice offerto assicura comunione con il Signore che si offre nella morte ed attraverso l’effusione del suo sangue comunica, a quanti ne berranno, la sua vita, che è la vita stessa di Dio. In Is 53,12b viene detto che “egli (il servo sofferente di JHWH) ha versato tutta la sua vita nella morte”. Inoltre, a seguito del concetto de “i molti”, a favore dei quali viene compiuta l’espiazione, non si può non richiamarsi a Is 53,11 s., dove il termine “i molti” indica l’universalità del mondo delle genti. La frase esplicativa sul calice segue una duplice linea: da una parte il pensiero dell’Alleanza è rivolto al gruppo dei dodici, che può essere considerato il fondamento del nuovo popolo di Dio. Dall’altra, l’espiazione universale mira agli empi e ai popoli pagani. In tal modo, la nuova Alleanza che viene inaugurata acquista significato universale e Cristo che va alla morte appare il vincitore che s’insedia in un regno universale. Il pensiero dell’Alleanza è profondamente segnato dall’idea che Dio è re.

Dicendo che non berrà più il succo della vite (Mc 14,25), Gesù fa intendere di essere prossimo alla morte, mentre soggiungendo che lo berrà nuovo nel regno di Dio allude ad una bevanda di altra natura, di qualità superiore, che costituirà la gioia e la felicità degli eletti nel futuro regno di Dio, paragonato spesso ad un banchetto (cfr Is 25,6; 65,13; Mt 8,11; 22,1-14; Lc 14,16; Ap 19,9).

La conclusione avviene con una nota narrativa (Mc 14,26). Il canto di un inno di lode si adatta al banchetto pasquale, ma anche alla celebrazione eucaristica. Siccome si presuppone un banchetto pasquale, dobbiamo pensare al canto dell’Hallel (Sal 113-118), collocato alla fine della festa. Il viaggio notturno verso il monte degli Ulivi prepara Mc 14,32, che dà inizio al racconto vero e proprio della passione.

Attraverso il suo sacrificio, prefigurato nel pane spezzato e nel vino versato, come ci dice l’autore della Lettera agli Ebrei, Gesù diventa il nuovo ed eterno sommo Sacerdote che officia il rito di espiazione. Nel rito ebraico, il sommo sacerdote durante la festa dell’espiazione spariva dietro il velo del Tempio e penetrava da solo nel “santo dei santi”. Spariva ma tuttavia rimaneva al servizio del popolo, poiché ne espiava le colpe offrendo il sacrificio. Allo stesso modo, Gesù, anche se è scomparso ai nostri occhi, rimane solidale con noi. Il sommo sacerdote al termine del rito usciva dal “santo dei santi” dando un valore di occasionalità al rito stesso, Gesù, entrando nella sfera divina, non ne esce più, il suo è un gesto definitivo. Infine, il sacerdote si presentava da solo davanti a Dio, Gesù, invece, porta nel seno del Padre l’umanità rigenerata legata a sé.

Appendice

é il primo giorno degli azzimi, quando immolavano la Pasqua, gli dicono i discepoli: Dove vuoi che andiamo e ti prepariamo per mangiare la Pasqua? Chiama primo giorno degli azzimi il quattordicesimo del primo mese, quando erano soliti, liberati dal lievito, immolare l’agnello al tramonto. In riferimento a ciò, l’Apostolo dice: infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato (1Cor 5). Egli, sebbene crocifisso il giorno seguente, cioè il quindicesimo, tuttavia in questa notte in cui l’agnello era immolato, consegnò ai suoi discepoli i misteri della sua carne e del suo sangue da celebrare, e catturato e legato dai Giudei, consacrò l’inizio della sua immolazione, cioè della sua passione. E manda due dei suoi discepoli e dice loro: Andate in città e vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua. Certamente indizio della prescienza divina è che, parlando con i suoi discepoli, conosce qualcosa che sarà altrove, in futuro. É bello, poi che ai discepoli che vanno a preparare la Pasqua vada incontro un uomo che porta una brocca, o, secondo un altro evangelista, un’anfora, perché fosse manifestato il mistero di questa Pasqua che doveva essere celebrata per il perfetto lavacro di tutto il mondo. L’acqua indica certamente il lavacro della grazia, la brocca la fragilità di coloro per mezzo dei quali la medesima grazia doveva essere amministrata al mondo. Perciò dicono: Abbiamo questo tesoro in vasi di creta (2Cor 4). I discepoli preparano dunque la Pasqua dove le acque sono portate con la brocca, per suggerire che era giunto il tempo in cui a coloro che avrebbero celebrato la vera Pasqua sarebbe stato tolto il sangue dagli stipiti e dalla soglia (che era solo tipo), e sarebbe stato consacrato il battesimo di un fonte vivificante per togliere i peccati del mondo. Seguitelo e dovunque sarà entrato, dite al padrone di casa, che il maestro dice: Dov’è la stanza dove mangiare la Pasqua insieme ai miei discepoli? Sapientemente solo stati tralasciati i nomi sia del portatore d’acqua, sia del padrone di casa, affinché sia indicato a tutti quelli che vogliono celebrare la Pasqua, cioè essere immersi nei sacramenti del Cristo, e cercano di accoglierlo nella “stanza” della loro mente, che è loro data tale facoltà. Ed egli stesso vi mostrerà una stanza grande addobbata e lì preparate per noi. La grande stanza è la legge spirituale, che uscendo dalle strettezze della lettera, accoglie in un luogo elevato il Salvatore. Infatti chi avrà osservato la lettera che uccide, chi non ha inteso nel’agnello altro che un capo di bestiame, costui certamente non fa Pasqua perché non ha ancora imparato a comprendere la grandezza dello spirito nelle parole di Dio ma chi avrà seguito il portatore d’acqua, cioè l’araldo della grazia, nella casa della Chiesa, costui elevandosi per mezzo dello Spirito, che illumina l’estremo della lettera, prepara a Cristo, nell’alta dimora della mente, un luogo di riposo perché sa che tutti i riti della Pasqua o degli altri decreti della legge sono suoi sacramenti. E, mangiando con loro, Gesù prese un pane e benedicendo lo spezzò, lo diede loro e disse: Prendete, questo è il mio corpo. Terminati i riti della Pasqua antica, che erano compiuti in ricordo dell’antica liberazione del popolo di Dio dall’Egitto, passa a quel la nuova che voleva che la Chiesa celebrasse frequentemente in memoria della sua redenzione, in modo da sostituire alla carne e al sangue di un agnello il sacramento del suo corpo e della sua carne e da mostrare se stesso come colui a cui il Signore ha giurato e non si pentirà: tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech (Sal 109). Egli stesso spezza il pane che porge ai discepoli per mostrare che il suo corpo sarebbe stato spezzato non senza la sua volontà e prescienza, ma come altrove afferma, avendo il potere di offrire la sua anima e il potere di riprenderla di nuovo. … E preso il calice, rendendo grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti … E disse loro: Questo è il mio sangue della nuova alleanza, che sarà effuso per molti. Il pane rafforza il corpo, il vino invece opera come il sangue nella carne: il primo si riferisce misticamente al corpo di Cristo, il secondo si riferisce al sangue. In realtà poiché bisogna che noi rimaniamo in Cristo e Cristo in noi, è mescolata al vino del calice del Signore dell’acqua. Per attestazione di Giovanni, le acque sono i popoli. Non è lecito offrire né solo l ‘acqua, né solo il vino, come né solo la farina di frumento senza unione con l’acqua e la cottura in pane, affinché tale oblazione non insinui che si deve dividere il capo dalle membra e che possa accadere che o Cristo abbia potuto patire senza amore per la nostra redenzione o che noi, senza la sua passione, abbiamo potuto essere salvati e offerti al Padre. Ciò che poi aggiunge: Questo è il mio sangue della nuova alleanza riguarda la distinzione dalla vecchia alleanza, che fu sancita dal sangue di capri e di vitelli, dicendo il legislatore mentre compiva l’aspersione: Questo è il sangue dell’alleanza che Dio vi ha comandato (Eb 9). È necessario infatti che i modelli delle realtà future fossero purificati così; ma le realtà celesti per mezzo di vittime migliori di queste, secondo quello che l’Apostolo dichiara con una bellissima esposizione e completa spiegazione, distinguendo tra la legge e il Vangelo, nel corso di tutta la lettera agli Ebrei. (S. Beda il Venerabile, dall’Esposizione sul vangelo di Marco IV, 14)

La vigilia della sua passione, dice il testo, prese il pane nelle sue mani sante. Prima di essere consacrato è pane: quando sono pronunciate le parole di Cristo, è Corpo di Cristo. Ascoltalo inoltre dire: Prendete e mangiatene tutti: questo infatti e il mio corpo. Prima delle parole di Cristo è un calice pieno di vino e di acqua; quando hanno operato le parole di Cristo, nel calice si forma il sangue che ha redento il popolo. Vedete dunque in quanti modi la parola di Cristo ha il potere di trasformare tutte le cose. Poi lo stesso Signore Gesù ha attestato che noi riceviamo il suo corpo e il suo sangue. Dobbiamo forse dubitare della garanzia offertaci dalla sua attestazione? Ritorna ormai insieme con me all’argomento che mi sono proposto. Fu certamente un prodigio straordinario degno di religioso ossequi che per i Giudei sia piovuta dal cielo la manna. Ma rendetevene conto: che cosa è di maggiore valore, la manna discesa dal cielo o il corpo di Cristo? Certamente il corpo di Cristo che è il creatore del cielo. Inoltre mentre chi mangia la manna è morto mentre chi mangia la manna, è morto, chi mangerà questo corpo otterrà la remissione dei peccati e non morirà in eterno. Dunque non senza ragione tu dici “Amen”, riconoscendo nel tuo intimo che ricevi il corpo di Cristo. Quando ti presenti per riceverlo il vescovo ti dice: “Il corpo di Cristo” e tu rispondi: “Amen”, cioè: “E’ vero”. Il tuo animo custodisca ciò che la tua lingua riconosce. Conosci poi quanto sia grande questo sacramento. Osserva che cosa dice: Ogni volta che farete questo, rinnoverete il mio ricordo, finché io non ritorni (1Cor 11, 26). Dunque, ogni volta che lo ricevi, che ti disse l’Apostolo? Ogni volta che lo riceviamo, annunciamo la morte del Signore. Se annunciamo la morte annunciamo la remissione dei peccati. Se, ogni volta che il sangue viene sparso, viene sparso per la remissione dei peccati, perché sempre mi rimetta i peccati. Io che pecco sempre, devo sempre disporre della medicina. Tu vedi che in questo pane non c’è amarezza; c’è invece ogni soavità. Ho bevuto il mio vino con il mio latte (Ct 4, 16): vedi che questa gioia è tale da non essere contaminata dalla sozzura di nessun peccato. Ogni volta che tu bevi, ricevi la remissione dei peccati e t’inebri dello Spirito. Perciò anche l’Apostolo dice: Non ubriacatevi di vino, ma siate ricolmi dello Spirito (Ef 5, 8). Chi si ubriaca di vino, barcolla e tentenna; chi si inebria dello Spirito, è radicato in Cristo. Perciò è un’eccellente ebbrezza, perché produce la sobrietà della mente. (S. Ambrogio, Dal Trattato I sacramenti V, 23-25.28.VI,17)

Le letture bibliche di oggi sono attraversate, come un filo rosso, da una parola che riassume il senso della festa del Corpo e sangue del Signore: «alleanza», legame, nodo che unisce ciò che era disperso, comunione.

Ad ogni Eucaristia, ad ogni comunione, per un istante almeno, mi affaccio sull’enormità di ciò che mi sta accadendo: Dio che mi cerca. Dio in cammino verso di me. Dio che è arrivato. Che assedia i dubbi del cuore. Che entra. Che trova casa. Dio in me. Neanche Dio può stare solo. Faccio la Comunione, sono colmo di Dio, ogni volta fatico a trovare parole, finisco per dedicargli il si­lenzio. E quello che mi pare incredibile è che Dio faccia un patto di sangue proprio con me, che io gli vada bene così come sono, un intreccio di ombre e di paure. Non ho doni da offrire, sono solo un uomo con la sua storia accidentata, che ha bisogno di cure, con molti deserti e qualche oasi. Ma io non devo fare altro che accoglierlo, dire «sì» alla comunione, che è il suo progetto, il suo lavoro dall’eternità.

«Ecco il mio corpo», ha detto, e non, come ci saremmo aspettati: «ecco la mia mente, la mia volontà, la mia divinità, ecco il meglio di me», ma semplicemente, poveramente, il corpo. Il sublime dentro il dimesso, lo splendore dentro l’argilla, il forte dentro il debole. Il Signore non ci ha portato solo la salvezza, ma la redenzione, che è molto di più. Salvezza è tirar fuori qualcuno dalle acque che lo sommergono, redenzione è trasformare la debolezza in forza, la maledizione in benedi­zione, il tradimento di Pietro in atto d’amore, il pianto in danza, la veste di lutto in abito di gioia, la carne in casa di Dio.

Nel suo corpo Gesù ci dà tutto ciò che unisce una persona alle altre: parola, sguardo, gesto, ascolto, cuore. Nel suo corpo ci dà tutta una storia: mangiatoia, strade, lago, il peso e il duro della croce, sepolcro vuoto; ci dà Dio che si fa uomo in ogni uomo. Quando Gesù ci dà il suo Sangue, ci dà fedeltà fino all’estremo, il rosso della passione, il centro che pulsa fino ai margini, vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo e perenne della sua vita, che nel nostro cuore metta radici il suo coraggio, e quel miracolo che è il dono di sé.

Neppure il suo corpo ha tenuto per sé, neppure il suo sangue ha conservato: legge suprema dell’esistenza è il dono di sé, unico modo perché la storia sia, e sia amica. Norma di vita è dedicare la vita. Così va il mondo di Dio. (Ermes Ronchi)

La festa del Corpus Domini è inseparabile dal Giovedì Santo, dalla Messa in Caena Domini, nella quale si celebra solennemente l’istituzione dell’Eucaristia. Mentre nella sera del Giovedì Santo si rivive il mistero di Cristo che si offre a noi nel pane spezzato e nel vino versato, oggi, nella ricorrenza del Corpus Domini, questo stesso mistero viene proposto all’adorazione e alla meditazione del Popolo di Dio, e il Santissimo Sacramento viene portato in processione per le vie delle città e dei villaggi, per manifestare che Cristo risorto cammina in mezzo a noi e ci guida verso il Regno dei cieli. Quello che Gesù ci ha donato nell’intimità del Cenacolo, oggi lo manifestiamo apertamente, perché l’amore di Cristo non è riservato ad alcuni, ma è destinato a tutti. Nella Messa in Caena Domini dello scorso Giovedì Santo ho sottolineato che nell’Eucaristia avviene la trasformazione dei doni di questa terra – il pane e il vino – finalizzata a trasformare la nostra vita e ad inaugurare così la trasformazione del mondo. Questa sera vorrei riprendere tale prospettiva.

Tutto parte, si potrebbe dire, dal cuore di Cristo, che nell’Ultima Cena, alla vigilia della sua passione, ha ringraziato e lodato Dio e, così facendo, con la potenza del suo amore, ha trasformato il senso della morte alla quale andava incontro. Il fatto che il Sacramento dell’altare abbia assunto il nome “Eucaristia” – “rendimento di grazie” – esprime proprio questo: che il mutamento della sostanza del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo è frutto del dono che Cristo ha fatto di se stesso, dono di un Amore più forte della morte, Amore divino che lo ha fatto risuscitare dai morti. Ecco perché l’Eucaristia è cibo di vita eterna, Pane della vita. Dal cuore di Cristo, dalla sua “preghiera eucaristica” alla vigilia della passione, scaturisce quel dinamismo che trasforma la realtà nelle sue dimensioni cosmica, umana e storica. Tutto procede da Dio, dall’onnipotenza del suo Amore Uno e Trino, incarnato in Gesù. In questo Amore è immerso il cuore di Cristo; perciò Egli sa ringraziare e lodare Dio anche di fronte al tradimento e alla violenza, e in questo modo cambia le cose, le persone e il mondo.

Questa trasformazione è possibile grazie ad una comunione più forte della divisione, la comunione di Dio stesso. La parola “comunione”, che noi usiamo anche per designare l’Eucaristia, riassume in sé la dimensione verticale e quella orizzontale del dono di Cristo. E’ bella e molto eloquente l’espressione “ricevere la comunione” riferita all’atto di mangiare il Pane eucaristico. In effetti, quando compiamo questo atto, noi entriamo in comunione con la vita stessa di Gesù, nel dinamismo di questa vita che si dona a noi e per noi. Da Dio, attraverso Gesù, fino a noi: un’unica comunione si trasmette nella santa Eucaristia. Lo abbiamo ascoltato poco fa, nella seconda Lettura, dalle parole dell’apostolo Paolo rivolte ai cristiani di Corinto: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1 Cor 10,16-17).

Sant’Agostino ci aiuta a comprendere la dinamica della comunione eucaristica quando fa riferimento ad una sorta di visione che ebbe, nella quale Gesù gli disse: “Io sono il cibo dei forti. Cresci e mi avrai. Tu non trasformerai me in te, come il cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me” (Conf. VII, 10, 18). Mentre dunque il cibo corporale viene assimilato dal nostro organismo e contribuisce al suo sostentamento, nel caso dell’Eucaristia si tratta di un Pane differente: non siamo noi ad assimilarlo, ma esso ci assimila a sé, così che diventiamo conformi a Gesù Cristo, membra del suo corpo, una cosa sola con Lui. Questo passaggio è decisivo. Infatti, proprio perché è Cristo che, nella comunione eucaristica, ci trasforma in Sé, la nostra individualità, in questo incontro, viene aperta, liberata dal suo egocentrismo e inserita nella Persona di Gesù, che a sua volta è immersa nella comunione trinitaria. Così l’Eucaristia, mentre ci unisce a Cristo, ci apre anche agli altri, ci rende membra gli uni degli altri: non siamo più divisi, ma una cosa sola in Lui. La comunione eucaristica mi unisce alla persona che ho accanto, e con la quale forse non ho nemmeno un buon rapporto, ma anche ai fratelli lontani, in ogni parte del mondo. Da qui, dall’Eucaristia, deriva dunque il senso profondo della presenza sociale della Chiesa, come testimoniano i grandi Santi sociali, che sono stati sempre grandi anime eucaristiche. Chi riconosce Gesù nell’Ostia santa, lo riconosce nel fratello che soffre, che ha fame e ha sete, che è forestiero, ignudo, malato, carcerato; ed è attento ad ogni persona, si impegna, in modo concreto, per tutti coloro che sono in necessità. Dal dono di amore di Cristo proviene pertanto la nostra speciale responsabilità di cristiani nella costruzione di una società solidale, giusta, fraterna. Specialmente nel nostro tempo, in cui la globalizzazione ci rende sempre più dipendenti gli uni dagli altri, il Cristianesimo può e deve far sì che questa unità non si costruisca senza Dio, cioè senza il vero Amore, il che darebbe spazio alla confusione, all’individualismo, alla sopraffazione di tutti contro tutti. Il Vangelo mira da sempre all’unità della famiglia umana, un’unità non imposta da fuori, né da interessi ideologici o economici, bensì a partire dal senso di responsabilità gli uni verso gli altri, perché ci riconosciamo membra di uno stesso corpo, del corpo di Cristo, perché abbiamo imparato e impariamo costantemente dal Sacramento dell’Altare che la condivisione, l’amore è la via della vera giustizia.

Ritorniamo ora all’atto di Gesù nell’Ultima Cena. Che cosa è avvenuto in quel momento? Quando Egli disse: Questo è il mio corpo che è donato per voi, questo è il mio sangue versato per voi e per la moltitudine, che cosa accadde? Gesù in quel gesto anticipa l’evento del Calvario. Egli accetta per amore tutta la passione, con il suo travaglio e la sua violenza, fino alla morte di croce; accettandola in questo modo la trasforma in un atto di donazione. Questa è la trasformazione di cui il mondo ha più bisogno, perché lo redime dall’interno, lo apre alle dimensioni del Regno dei cieli. Ma questo rinnovamento del mondo Dio vuole realizzarlo sempre attraverso la stessa via seguita da Cristo, quella via, anzi, che è Lui stesso. Non c’è nulla di magico nel Cristianesimo. Non ci sono scorciatoie, ma tutto passa attraverso la logica umile e paziente del chicco di grano che si spezza per dare vita, la logica della fede che sposta le montagne con la forza mite di Dio. Per questo Dio vuole continuare a rinnovare l’umanità, la storia ed il cosmo attraverso questa catena di trasformazioni, di cui l’Eucaristia è il sacramento. Mediante il pane e il vino consacrati, in cui è realmente presente il suo Corpo e Sangue, Cristo trasforma noi, assimilandoci a Lui: ci coinvolge nella sua opera di redenzione, rendendoci capaci, per la grazia dello Spirito Santo, di vivere secondo la sua stessa logica di donazione, come chicchi di grano uniti a Lui ed in Lui. Così si seminano e vanno maturando nei solchi della storia l’unità e la pace, che sono il fine a cui tendiamo, secondo il disegno di Dio.

Senza illusioni, senza utopie ideologiche, noi camminiamo per le strade del mondo, portando dentro di noi il Corpo del Signore, come la Vergine Maria nel mistero della Visitazione. Con l’umiltà di saperci semplici chicchi di grano, custodiamo la ferma certezza che l’amore di Dio, incarnato in Cristo, è più forte del male, della violenza e della morte. Sappiamo che Dio prepara per tutti gli uomini cieli nuovi e terra nuova, in cui regnano la pace e la giustizia – e nella fede intravediamo il mondo nuovo, che è la nostra vera patria. Anche questa sera, mentre tramonta il sole su questa nostra amata città di Roma, noi ci mettiamo in cammino: con noi c’è Gesù Eucaristia, il Risorto, che ha detto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Grazie, Signore Gesù! Grazie per la tua fedeltà, che sostiene la nostra speranza. Resta con noi, perché si fa sera. “Buon Pastore, vero Pane, o Gesù, pietà di noi; nutrici, difendici, portaci ai beni eterni, nella terra dei viventi!”. Amen. (Omelia Del Santo Padre Benedetto XVI, Solennità del Corpus Domini, 2011)

Fonte: Figlie della Chiesa

LEGGI IL BRANO DEL VANGELO

DOMENICA del CORPUS DOMINI

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Mc 14, 12-16. 22-26
Dal Vangelo secondo Marco

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 03 – 09 Giugno 2018
  • Tempo Ordinario IX
  • Colore Verde
  • Lezionario: Ciclo B
  • Anno: II
  • Salterio: sett. 1

Fonte: LaSacraBibbia.net

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