Sono talmente tante le cose che si potrebbero segnalare del Prologo del Quarto vangelo, che ci si trova inevitabilmente in imbarazzo a dover scegliere. Intanto, ai lettori più competenti questo testo ricorderà l’incipit del romanzo best seller di Umberto Eco Il nome della Rosa: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità. Ma videmus nunc per speculum et in aenigmate e la verità, prima che faccia a faccia, si manifesta a tratti (ahi, quanto illeggibili) nell’errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutti intesa al male».
Detto questo, invece, la domanda più opportuna riguarda che cosa poteva significare un tale inizio per i lettori del tempo in cui l’evangelista compone questo inno. Una questione relativa al lettore, ad esempio, parte dalla forma letteraria del Prologo nel contesto della letteratura classica, che conosceva bene i prologhi alle tragedie o agli altri drammi: si può dire che il Prologo riassume tutto il vangelo, come nella tragedia greca, quando tale introduzione serviva a orientare lo spettatore o il lettore, dicendogli di cosa si parlava? In parte sì, è vero che il Prologo anticipa alcuni temi e ne condensa altri, ma si deve anche riconoscere che non dice tutto del vangelo di Giovanni: orienta il lettore e aiuta a comprendere come deve essere letto questo testo, distinguendolo dagli altri. Inoltre, è poesia, mentre più avanti ci sarà la prosa, il racconto, coi dialoghi che caratterizzano il Quarto vangelo stesso.
Un’altra questione riguarda il rapporto tra questa pagina e quelle dell’inizio dei vangeli di Matteo e Luca. Mentre i vangeli dell’origine di Gesù – in Matteo e Marco – partono da un annuncio di un angelo (a Maria e a Giuseppe) e transitano poi per le storie della nascita di Gesù, fino alla sua circoncisione e offerta al Tempio, il Quarto vangelo ha un principio “metatemporale”, che prende l’avvio addirittura da “prima del tempo”.
Entriamo ora brevemente nel testo, seguendo la suddivisione proposta da Marida Nicolaci (La salvezza viene dai Giudei), dove si trova una bella esegesi del brano. Secondo la studiosa, questo è composto da cinque parti distinte, ma strettamente connesse: i versetti 1-5 che riguardano tutti il Logos; i vv. 6-8 sul Battista; i vv. 9-14, sul Logos e il rapporto col mondo; i vv. 15-17, ancora sul Battista; infine l’ultimo versetto, il 18, sul Figlio che era intimo del Padre e rivela il Padre.
Il principio di cui si parla al v. 1, si è detto, è metatemporale, e fa riferimento però al primo libro della Torà, Bereshit-Genesi, dove si dice che Dio ha creato il mondo attraverso una Parola preesistente che veniva da Lui. Interessante è soffermarsi sul termine Logos: cosa significava e cosa si poteva capire di questo termine? Intanto, come sottolinea Damiano Marzotto nel suo recente commento a Giovanni, La tunica e la rete, il termine è maschile, e quindi può immediatamente essere applicato a Gesù. Nel contesto ellenistico significava però non soltanto “parola”, ma anche “pensiero”, “ragione”, “razionalità”. Anzi, ancora di più. Traduce Marzotto: «all’inizio era il Dialogo»: «Una Parola di Dio non statica, non puramente pensata ma forma di comunicazione». Questo verbo non era, precisamente “presso”, ma, come si intende dalla preposizione greca pros, “rivolto” a Dio, ed era Dio stesso. Si tratta del cuore dell’annuncio cristiano, come si vedrà commentando il v. 14. Il testo continua dicendo che tutta la realtà viene dal Logos. Ecco come spiega Renzo Infante nel suo ottimo Le feste di Israele nel Vangelo secondo Giovanni: «l’Inno giovanneo con gli espliciti riferimenti alla creazione e alla redenzione del mondo potrebbe contenere dei rimandi alla Festa di Capodanno [ebraico], Rosh-ha-shanah», nella quale si celebra la creazione del mondo: «è come il suono dello Shofar che rammenta l’opera creatrice di Dio in favore del mondo».
Dal Logos viene la vita, ed è una vita che splende nelle tenebre. Giovanni infatti vede sin da queste prime battute uno scontro in corso tra la luce e le tenebre, tra i figli della luce e quelli delle tenebre, e anticipa un combattimento di cui si parlerà nell’intero Vangelo, e che ha come protagonista Gesù, che alla Festa delle capanne dirà di essere la Luce stessa.
La seconda parte dell’Inno passa da una realtà metatemporale al tempo di Gesù e del Battista, ovvero dell’«uomo mandato da Dio come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui». La missione del precursore si compie cioè nella storia, attraverso un testimone (anche nel senso etimologico del termine, “martire”) di Cristo. Si dice qui che il testimone non è la luce, come più avanti il Battista dirà di sé di non essere né il Cristo, né Elia, né la Parola, né lo Sposo, ma l’“amico dello sposo”. Nel lettore emerge dunque la domanda: chi è allora il Battista? Per quanto ci riguarda, tra due domeniche la liturgia tornerà a proporre il Quarto vangelo, nel quale si parlerà proprio della testimonianza data da Giovanni.
La terza parte è il movimento centrale del Prologo, dove si dice del dramma del rifiuto verso la Parola: rifiuto che riguarda non solo Israele, ma ogni uomo, che ancora oggi non accoglie il Verbo.
Questo infatti si è fatto carne fragile, e ha posto la tenda in mezzo agli uomini, nella loro condizione e nella loro storia. Il linguaggio della tenda trae ispirazione dal tema della tenda del convegno di Es 40, ma che ora esprime la carne del Logos, Parola-Gesù di Nazaret che condivide la nostra stessa esperienza umana di debolezza.
Nella quarta parte il Prologo torna a Giovanni il Battista, e nella quinta, composta da un solo versetto, si dice la fede della Chiesa delle origini, e particolarmente della chiesa giovannea, per le quali non vi era alcun dubbio che Gesù fosse Dio stesso. Per questo Gesù poteva parlare di sé come “Figlio” in senso “forte”, come in Mc 13,32 // Mt 24,36. Commenta Romano Penna: «Gesù ha pensato se stesso in termini di figliolanza nei confronti di Dio, e di una figliolanza tale che è priva di paralleli dello stesso tipo e perciò unica nel suo genere» (I ritratti originali di Gesù il Cirsto).
Su questo torneremo però settimana prossima, commentando la pagina in cui Gesù è chiamato “Figlio” al suo battesimo. Questo Figlio, continua l’evangelista, era nel seno del Padre. Questa espressione così importante viene commentata da D. Marzotto a partire da Gv 13,23, un versetto inserito nell’ultima cena del Quarto vangelo. Scrive l’esegeta: «Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù», ovvero secondo il modo di celebrare la cena ellenistico. Alla lettera nel testo greco si legge infatti: «il Discepolo amato era nel seno di Gesù». «Questa immagine concreta è servita a Giovanni, nel prologo, per esprimere il rapporto del Padre con il Figlio. Gesù è colui che gode la fiducia e la predilezione del Padre, al quale il Padre affida la sua intimità» (Marzotto).
Il Prologo del Quarto vangelo così ci dice che la stessa Parola di Dio, così vicina al Padre, quel Figlio per mezzo del quale tutto è stato creato, è stata in mezzo agli uomini, e ancora vi rimane attraverso la sua misteriosa presenza.