Il tema guida di questa domenica è la Parola profetica, posta tra accoglienza e rifiuto. Essa, infatti, è offerta alla libertà delle persone che l’ascoltano ed è continuamente confrontata con la risposta umana, in termini ora di accoglienza, ora di rifiuto. Gesù, rifiutato dai suoi concittadini, recupera il tema veterotestamentario del profeta perseguitato. Durante la sua esistenza anche Geremia (prima lettura) ha dovuto confrontarsi e scontrarsi con i suoi connazionali, ogni qualvolta le sue parole risuonano come stridente opposizione alla politica della classe dirigente. Nonostante la crescente emarginazione e persecuzione, sarà la parola di Geremia a prevalere. Essa porterà luce e comprensione nelle tenebre di un’epoca drammatica per la storia di Israele.
v.21: Questo “oggi” è sorprendente, perché viene da dire: come, dove e che cosa sta succedendo? Dov’è questa novità che il profeta aveva annunciato? Come mai “oggi”? “Oggi”, semplicemente perché c’è l’annuncio del Regno nella Parola di Gesù. È ai nostri orecchi che si compie questa Parola. L’avverbio “oggi”, è importante in tutta l’opera lucana. Ricordiamo che l’annuncio della nascita di Gesù è stato dato dagli angeli con quelle parole: “Vi annuncio una grande gioia: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore” (Lc 2, 10-11). “Vi è nato”; non è nato, è nato per voi. Oggi è la vostra gioia. Oggi è la vostra salvezza. Verso la fine del vangelo, al capitolo 23, c’è ancora questo “oggi” nelle parole che Gesù dice a un condannato a morte: “Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,43); anche lì è il mistero di una salvezza che si apre a qualcuno che ne ha un bisogno immenso senza averne meriti e possibilità di raggiungerla. Succede anche nel ministero di Gesù, quando va a casa di Zaccheo: “Scendi Zaccheo, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5). Quando Gesù si è fermato in casa di Zaccheo può dire: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anche lui è figlio di Abramo” (Lc 19, 9). L’“oggi” vuole dire solo questo: che c’è Gesù e dove Gesù è presente, parla e agisce, tutte le promesse sono realizzate “oggi”; tutte le speranze sono anticipate “oggi”. Dove c’è la Parola di Gesù, “oggi” diventa il tempo, il luogo, il momento e la possibilità della salvezza. “Questa Scrittura si è compiuta ai vostri orecchi”, perché hanno ascoltato la Parola. S’intende che la Parola di Gesù non dice semplicemente delle cose, non trasmette solo informazioni; in quella Parola Gesù mette se stesso a disposizione degli uomini, mette la disponibilità grande del suo amore. In Gesù, è Dio stesso che apre il suo orecchio ad ascoltare il grido dell’uomo e che apre il suo cuore per rispondere alle necessità e al bisogno dell’uomo.
v.22: Non c’è dubbio, dove questa salvezza è donata, nasce e fiorisce nel cuore dell’uomo la gioia; e fiorisce lo stupore, la meraviglia. Ma nel leggere S. Luca ci si accorge che questa meraviglia ha qualche cosa d’ambiguo. Può essere buona, anzi è uno degli atteggiamenti fondamentali nella vita religiosa. Per vivere l’esperienza della fede bisogna sapere stupirsi; quando uno smette di stupirsi, smette di aprire il proprio cuore a quello che va di là delle cose, quindi perde la dimensione di trascendenza che nella fede è necessaria. Bisogna stupirsi. Ma lo stupore non sembra sufficiente perché qui la gente si stupisce ma non nel modo giusto, e Gesù la rimprovera con le parole che svelano il contenuto del cuore dell’uomo: “Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!” (Lc 4,23). E vuol dire: in realtà quello stupore è per gli abitanti di Nazareth l’attesa del miracolo che diventa pretesa, la trasformazione della salvezza di Dio in un beneficio materiale; invece di attaccarci a Dio, ci attacchiamo ai doni di Dio. I segni ci sono certamente dati ma solo come segni, piccole trasformazioni che rendono possibile la fede, ma che rimangono tanto piccole da lasciare spazio alla libera scelta dell’uomo. In Gesù ci è data la salvezza abbastanza chiaramente perché noi nell’amore di Dio possiamo credere; ma ci è data abbastanza oscuramente perché noi non siamo costretti a credere nell’amore di Dio. Quello che ci viene chiesto è un’adesione libera del nostro cuore. La salvezza non qualcosa di precostituito, è il dono di poter vivere liberi, è la forza di potere rischiare l’atto dell’amore. Non vuol dire: siccome siamo salvati, allora l’atto dell’amore per il prossimo non è più rischioso, non ci costa più fatica, non è più impegnativo. No, rimane impegnativo e rischioso. Solo ci viene dato il coraggio di rischiare.
v.26: La sorte di Gesù, profeta messianico del regno, ripercorre le vicende dei profeti dell’Antico Testamento, indicandone il compimento e la compiutezza. Luca utilizza due esempi tratti dalle Scritture ebraiche quali testimonianza del fatto che i profeti risultano inaccettabili nei rispettivi paesi d’appartenenza: Elia inviato all’anonima vedova di Zarepta, Eliseo disposto a guarire dalla lebbra il siro Naaman. Si esprime così una realtà essenziale nell’esperienza della chiesa primitiva: benché esista la medesima necessità in Israele, Dio soccorre quanti si trovano nel bisogno semplicemente a motivo della loro condizione. L’iniziativa salvifica di Dio ha una portata universale.
v.28: Nella proposta di liberazione-salvezza proclamata dal profeta si annida una possibile risposta di incredulità e di opposizione. Nel caso di Gesù il rifiuto del suo annuncio culmina con la passione e la morte. La medesima sorte toccherà ai discepoli di Gesù, portavoce messianici di liberazione nel mondo. Il destino della missione di Gesù resta impresso su quello della missione dei suoi discepoli.
v.30: C’è però un elemento inquietante nel brano di Luca. Gesù dice queste cose nella sinagoga di Nazareth, ma alla conclusione del brano si dice: “Ma egli, passando in mezzo a loro se ne andava” (Lc 4,30); cioè è andato nella sua città di Nazareth, ha proclamato il Vangelo e l’anno del Giubileo, l’anno della misericordia, ma poi se n’è andato. Nazareth ha sperimentato in questo l’abbandono del Signore, del Messia; e perché? Nel contesto il perché è in una cosa sola: nella pretesa degli abitanti di Nazareth di possedere il Signore per sé. Perché dicono: “Non è il figlio di Giuseppe?” (Lc 4,22b); quindi non appartiene a noi? Gesù afferma, di fronte a quelli di Nazareth, la sua libertà e il fatto che loro non hanno nessun diritto, né possono accampare nessuna pretesa. Gli abitanti di Nazareth, di fronte a questa affermazione, reagiscono come se fosse un insulto. Loro ritengono di avere dei diritti su Gesù e sui segni, sui miracoli, che Gesù compie. Ebbene, proprio questo li rende incapaci di accogliere il Signore, perché “l’anno di misericordia” è un dono, non è un diritto. Nessuno può accampare delle pretese su Dio e sul suo perdono; neanche noi, per il fatto che siamo cristiani, abbiamo dei diritti, quindi dobbiamo tenere presente che blocchiamo la grazia di Dio quando la carpiamo come un nostro diritto.
v.30: Traduzione letterale: “Passò in mezzo a loro e camminava”. È l’annuncio di quello che avverrà più tardi, la profezia della passione. È strana questa espressione perché dice: non è ancora venuto il momento, non è ancora l’ora. Gesù è protetto dal mistero e dalla volontà del Padre che ha preparato per lui una strada e Gesù se ne va, cammina. Questo è solo l’inizio del cammino di Gesù: nel vangelo secondo Luca la vita di Gesù è descritta come un itinerario, un cammino. Verso dove? Verso Gerusalemme. Ma Gerusalemme significa la morte. Allora cosa c’è di nuovo nella vita di Gesù se la sua vita è un cammino verso Gerusalemme e quindi verso la morte? È sempre stata così la vita di ogni uomo. Lo sa molto bene la Bibbia qual è la fragilità della nostra condizione. Il vivere è questo camminare verso la morte. Lo è per noi e lo è per Gesù. “E se ne andava” contiene tuttavia questo mistero di speranza. È un cammino verso Gerusalemme, ma il termine del cammino non è Gerusalemme; non è vero che Gesù va verso la morte; il cammino del Cristo va al Padre, al cielo. Gesù passa attraverso la morte ma va verso la vita. Ed è questa la novità. Questo è il motivo per cui possiamo rischiare la vita e donarla e fare della nostra vita un cammino di libertà. Siamo chiamati all’incontro con Dio nella pienezza del compimento dell’amore e della libertà.
Appendice
Come un pastore può guarire la pecora malata di scabbia e proteggerla dai lupi, così soltanto il vero pastore, Cristo, con la sua venuta poté guarire e condurre la pecora perduta e malata di scabbia, l’uomo colpito dalla scabbia e dalla lebbra del peccato. Nei tempi precedenti [a Cristo] sacerdoti, leviti e dottori non erano in grado di guarire l’anima mediante l’offerta di doni, sacrifici e aspersione di sangue, poiché non potevano guarire nemmeno se stessi. Essi stessi erano rivestiti di debolezza. È impossibile infatti, dice la Scrittura, che il sangue di tori e di capri cancelli i peccati. Ma il Signore, mostrando l’impotenza dei medici di allora, diceva: Certamente mi citerete il proverbio: Medico cura te stesso, come per dire: “Non sono come quei tali che non possono guarire se stessi. Io sono il vero medico e il buon pastore che dà la sua vita per le pecore e può guarire ogni malattia e ogni infermità dell’anima. Io sono l’agnello immacolato, che è stato offerto una volta per tutte, e posso guarire quanti vengono a me”. La vera guarigione dell’anima infatti avviene soltanto per opera del Signore. È detto Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, cioè il peccato dell’anima che crede in lui e l’ama con tutto il cuore (Ps. Macario, Om. 44,3).
Comprendi che la Passione di Gesù non fu forzata ma volontaria e che egli non fu preso dai Giudei, ma si offrì per sua decisione. Egli è preso solo quando vuole, e quando vuole cade sotto la croce, quando vuole viene sospeso al patibolo, e quando vuole non si lascia prendere. E qui egli era salito sul ciglio del monte da cui volevano precipitarlo, ma ecco che passando in mezzo a loro se ne allontana, essendosi in un attimo cambiati, o piuttosto storditi, i sentimenti di quei frenetici; non era ancora giunta l’ora della Passione (Ambrogio, Esp. sul Vangelo di Luca 4.56).
Un tentativo di uccidere Gesù
Così lo cacciarono fuori dalla loro città, pronunciando con questa azione la loro condanna. Confermarono così quello che Salvatore aveva detto e furono loro ad essere banditi dalla città che in alto, per non aver ricevuto Cristo. Per poterli dimostrare consapevoli di empietà non solo verbale, permise alla loro mancanza di rispetto nei suoi confronti di giungere ai fatti. La loro violenza era irrazionale e la loro invidia assoluta. Conducendolo sul ciglio della collina cercarono di gettarlo giù dal precipizio ma egli passa in mezzo a loro senza accorgersi, per così dire, del loro tentativo e non rifiuto la sofferenza – era venuto proprio per questo – ma aspettò il tempo opportuno: ora, all’inizio della sua predicazione, sarebbe stato il momento sbagliato per la passione, prima di aver proclamato la parola di verità. (Cirillo di Alessandria, Commento a Luca, omelia 12)
Nel testo di Isaia, letto da Gesù, si parla di «poveri, prigionieri, ciechi, oppressi». Sono quattro categorie che riassumono bene la miseria dell’uomo di ogni tempo. Il compimento che Cristo porta alla storia è in ordine a queste realtà di miseria. Egli si proclama compimento di liberazione da queste miserie. Il Regno che viene è questa liberazione. Gesù è l’oggi di questo momento di grazia e di liberazione. Egli è la buona notizia che culmina nella Pasqua di trasfigurazione dell’essere umano. Situarsi nell’oggi di Dio vuol dire assumersi tutto il carico della storia per viverlo alla luce della Parola pura e liberatrice; assumersi tutto il carico di una Parola concretamente propositiva, senza mai evadere un attimo della storia. I grandi collaboratori alla realizzazione del disegno di Dio sull’uomo vivono queste due passioni viscerali: la Parola come disegno e la storia come luogo ed occasione di esso. Gli uomini di Nazareth tuttavia non colgono la grandezza di questa rivelazione dell’oggi di Dio: «Non è costui il figlio di Giuseppe?», cioè: com’è possibile che tanta grandezza si nasconda in tanta piccolezza ed ordinarietà? I nazaretani rifiutano Gesù perché la sua povera condizione sociale non può essere, secondo loro, luogo dell’oggi di Dio, ma dello «scandalo» dell’uomo. Inoltre non possono cogliere il compimento della Parola, perché vivono il rapporto con la Parola stessa come un cultualismo disincarnato, per cui Parola e vita sono in opposizione. Essi non servono la Parola, ma se ne servono per gestire le loro sicurezze. Si noti come un rapporto sbagliato verso la parola di Dio, rende incapaci a capire la storia e a collocarsi in modo vero dentro di essa: si tratta di un’incapacità a vivere per una mancanza di fede nella Parola (E. Menichelli, Il Vang. di Luca, pp. 31-32).
Gesù Cristo è venuto, come Elia per la vedova
“In verità vi dico: C`erano molte vedove al tempo di Elia in Israele, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi, quando venne una gran fame su tutta la terra; e a nessuna di loro fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone” (Lc 4,25). Non sono stato mandato a voi, dice; non son venuto per guarire voi, perché non a tutte le vedove fu mandato Elia. Questo significava la sua condotta; lui era un segno, io sono la realtà. Io son venuto a curare, a saziare di cibo spirituale, a strappare dalla fame e dall`indigenza quella vedova di cui è scritto: “Benedirò la sua vedova, sazierò di pane i suoi poveri” (Sal 131,15). Questa vedova è la santa Chiesa ma può essere anche qualunque anima dei fedeli. Il Signore, infatti, venne per chiamare tutti e a liberare tutti dalla fame. Se non fosse venuto e non avesse parlato, non avrebbero commesso peccato; ma ora non hanno una giustificazione per i loro peccati. (Bruno di Segni, In Luc., 1, 5)
Cari fratelli e sorelle!
Il Vangelo di oggi – tratto dal capitolo quarto di san Luca – è la prosecuzione di quello di domenica scorsa. Ci troviamo ancora nella sinagoga di Nazaret, il paese dove Gesù è cresciuto e dove tutti conoscono lui e la sua famiglia. Ora, dopo un periodo di assenza, Egli è ritornato in un modo nuovo: durante la liturgia del sabato legge una profezia di Isaia sul Messia e ne annuncia il compimento, lasciando intendere che quella parola si riferisce a Lui, che Isaia ha parlato di Lui. Questo fatto suscita lo sconcerto dei nazaretani: da una parte, «tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); san Marco riferisce che molti dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?» (6,2). D’altra parte, però, i suoi compaesani lo conoscono troppo bene: E’ uno come noi – dicono –. La sua pretesa non può essere che una presunzione » (cfr L’infanzia di Gesù, 11). «Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22), come dire: un carpentiere di Nazaret, quali aspirazioni può avere?
Proprio conoscendo questa chiusura, che conferma il proverbio «nessun profeta è bene accetto nella sua patria», Gesù rivolge alla gente, nella sinagoga, parole che suonano come una provocazione. Cita due miracoli compiuti dai grandi profeti Elia ed Eliseo in favore di persone non israelite, per dimostrare che a volte c’è più fede al di fuori d’Israele. A quel punto la reazione è unanime: tutti si alzano e lo cacciano fuori, e cercano persino di buttarlo giù da un precipizio, ma Egli, con calma sovrana, passa in mezzo alla gente inferocita e se ne va. A questo punto viene spontaneo chiedersi: come mai Gesù ha voluto provocare questa rottura? All’inizio la gente era ammirata di lui, e forse avrebbe potuto ottenere un certo consenso… Ma proprio questo è il punto: Gesù non è venuto per cercare il consenso degli uomini, ma – come dirà alla fine a Pilato – per «dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Il vero profeta non obbedisce ad altri che a Dio e si mette al servizio della verità, pronto a pagare di persona. E’ vero che Gesù è il profeta dell’amore, ma l’amore ha la sua verità. Anzi, amore e verità sono due nomi della stessa realtà, due nomi di Dio. Nella liturgia odierna risuonano anche queste parole di san Paolo: «La carità …non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità» (1 Cor 13,4-6). Credere in Dio significa rinunciare ai propri pregiudizi e accogliere il volto concreto in cui Lui si è rivelato: l’uomo Gesù di Nazaret. E questa via conduce anche a riconoscerlo e a servirlo negli altri.
In questo è illuminante l’atteggiamento di Maria. Chi più di lei ebbe familiarità con l’umanità di Gesù? Ma non ne fu mai scandalizzata come i compaesani di Nazaret. Ella custodiva nel suo cuore il mistero e seppe accoglierlo sempre di più e sempre di nuovo, nel cammino della fede, fino alla notte della Croce e alla piena luce della Risurrezione. Maria aiuti anche noi a percorrere con fedeltà e con gioia questo cammino. (Papa Benedetto XVI, Angelus del 3 febbraio 2013)
Fonte: Figlie della Chiesa
[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]LEGGI IL BRANO DEL VANGELO
QUARTA SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO
Puoi leggere (o vedere) altri commenti al Vangelo di domenica 3 Febbraio 2019 anche qui.
Lc 4, 21-30 Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino. C: Parola del Signore. A: Lode a Te o Cristo.Fonte: LaSacraBibbia.net
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