Ogni tralcio che porta frutto, lo pota
Nel suo insegnamento, Gesù prende spesso lo spunto da cose famigliari agli ascoltatori e che erano sotto gli occhi di tutti. In tal modo, mentre udivano, con la fantasia essi potevano anche vedere; parola e immagine si sostenevano a vicenda. Soprattutto la vita dei campi gli fornisce immagini e spunti. Una volta ci ha parlato con la vicenda del chicco di grano, oggi ci parla con l’immagine del tralcio e della vite. Ascoltiamo le prime battute del vangelo:
“Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”.
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L’affermazione più importante contenuta in queste parole è che noi siamo uniti a Gesù con un vincolo così profondo e vitale come è quello che unisce il tralcio alla vite. Il tralcio è una emanazione, una parte della vite: tra le due cose scorre la stessa linfa. Non si potrebbe pensare a un’unità più intima. Sul piano spirituale, questa linfa è la vita divina stessa che ci è stata data nel battesimo, lo Spirito Santo.
Questa è un’unione più stretta di quella che c’è tra la madre e il figlio che porta in grembo. Tra madre e figlio scorre lo stesso sangue; il respiro e l’alimento della madre passano nel figlio. Ma il figlio non muore se si distacca dalla madre; anzi per vivere deve, a un certo punto, abbandonare il seno materno e vivere per conto suo; muore se resta unito alla madre più tempo del normale. Nel caso nostro, il contrario: il tralcio non porta frutto e muore se si distacca dalla vite, vive se rimane unito ad essa.
Ma non è di questo che vogliamo parlare, ma di quello che Gesù dice del destino del tralcio. Gesù prospetta due casi. Il primo negativo: il tralcio è secco, non porta frutto, viene perciò tagliato e buttato via; il secondo positivo: il tralcio è ancora vivo e vegeto; viene perciò potato. Già questo contrasto ci dice che la potatura non è un atto ostile verso il tralcio. Il vignaiolo si attende ancora molto da esso, sa che può portare frutti, ha fiducia in esso. Lo stesso avviene sul piano spirituale. Quando Dio interviene nella nostra vita con la croce, non vuole dire che egli è adirato con noi. Proprio il contrario. La Scrittura dice:
“Il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio” (Ebrei 12, 6).
Ci sarebbe, semmai, da temere quando le cose, in questo mondo, ci vanno troppo bene, perché questo capita allo steso modo al giusto e all’empio, anzi più spesso all’empio che al giusto. Nella Bibbia, sentiamo spesso il giusto lamentarsi con Dio a causa della “prosperità dei malvagi” che, “sempre tranquilli, ammassano ricchezze” e per i quali non sembra esserci affanno e “potatura” di sorta (cfr. Salmo 73).
Ma veniamo adesso allo scopo per cui il vignaiolo pota il tralcio e fa “piangere”, come si usa dire, la vite. È proprio necessario? Sì e per un motivo molto semplice: se non viene potata, la forza della vite si disperde, metterà forse più grappoli del dovuto, con la conseguenza di non riuscire a portarli tutti a maturazione e di abbassare la gradazione del vino. Se resta a lungo senza essere potata, la vite addirittura si inselvatichisce e produce solo pampini e uva selvatica.
Lo stesso succede nella nostra vita. Non solo nella vita spirituale, ma prima ancora nella nostra vita umana. Vivere è scegliere e scegliere è rinunciare. La persona che nella vita vuole fare troppe cose, o coltiva un’infinità di interessi e di hobby, si disperde; non eccellerà in nulla. Bisogna avere il coraggio di fare delle scelte, lasciar cadere alcuni interessi secondari per concentrarsi su alcuni primari. Potare, potare!
Questo è ancora più vero nella vita cristiana. La santità somiglia alla scultura. Leonardo da Vinci ha definito la scultura “l’arte di levare”. Tutte le altre arti consistono nel mettere qualcosa: colore sulla tela nella pittura, pietra su pietra nell’architettura, nota su nota nella musica. Solo la scultura consiste nel levare: levare i pezzi di marmo che sono di troppo per far emergere la figura che si ha in mente. Anche la perfezione cristiana si ottiene così, levando, facendo cadere i pezzi inutili, cioè i desideri, ambizioni, progetti e tendenze carnali che ci disperdono da tutte le parti e non ci permettono di concludere nulla.
Un giorno Michelangelo, passeggiando in un giardino di Firenze, vide, in un angolo, un blocco di marmo che sporgeva da sottoterra, mezzo ricoperto di erba e di fango. Si fermò di scatto, come se avesse visto qualcuno, e rivolto agli amici che erano con lui esclamò: “In quel blocco di marmo c’è racchiuso un angelo; debbo tirarlo fuori”. E, armatosi di scalpello, cominciò a sbozzare quel blocco finché non emerse la figura di un bell’angelo.
Anche Dio ci guarda e ci vede così: come dei blocchi di pietra ancora informi e dice tra sé: “Lì dentro c’è nascosta una creatura nuova e bella che aspetta di venire alla luce; di più, c’è nascosta l’immagine del mio stesso Figlio Gesù Cristo (noi infatti siamo destinati a diventare “conformi all’immagine del Figlio suo”); voglio tirarla fuori!”. E allora che fa? Prende lo scalpello che è la croce e comincia a lavorarci; prende le forbici del potatore e comincia a potare. Non dobbiamo pensare a chissà quali croci terribili. Ordinariamente egli non aggiunge nulla a quello che la vita, da sola, presenta di sofferenza, fatica, tribolazioni; solo fa servire queste cose alla nostra purificazione. Ci aiuta a non sciuparle.
Tra le sculture che più mi affascinano di Michelangelo ci sono i cosiddetti “schiavi incompiuti”. Sono figure sbozzate a metà, non finite, con alcune parti del corpo ancora immerse nel marmo. Tale è soprattutto la figura che rappresenta il mitico Atlante che solleva il mondo. La testa è rimasta un macigno grezzo. Qualcuno dice che queste statue sono rimaste così perché Michelangelo non ha avuto tempo di finirle, ma io penso che le abbia lasciate così apposta. Nessun capolavoro di Michelangelo, per quanto rifinito, ha la forza che hanno certe sue opere incompiute. Esse ci fanno vedere cosa precede il prodotto finale, l’anelito della materia a ricevere la sua forma, ma anche la sua impotenza a farlo da sola. Ci fanno assistere alla creazione in fieri.
Tutto ciò è un simbolo potente. Quegli “schiavi incompiuti” siamo noi, sul piano spirituale: esseri in “formazione”. È lo spirito che lotta per affrancarsi dalla materia. Come la figura di Atlante non può venire alla luce, se lo scultore, dall’esterno, non l’aiuta a togliersi di dosso tutto quel marmo inutile, così noi, se il Padre celeste non ci pota. Senza questo intervento, rimarremmo anche noi allo stato grezzo, opere “incompiute”. Come dunque accusare ancora di crudeltà Dio, perché permette la croce e il dolore nella nostra vita?
Certo, non è facile per nessuno sopportare i colpi dello scalpello divino. Tutti gemiamo sotto la croce, è naturale. Alcune potature sono particolarmente dolorose e umanamente incomprensibili. Ma non dovrebbe, insieme con il lamento e la tristezza, mancare anche la speranza. Tutto questo non è senza uno scopo, dopo la potatura ci sarà la primavera e i frutti che matureranno. Dopo aver detto che “Dio corregge quelli che ama”, il testo della Scrittura citato sopra aggiunge:
“Certo la correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia” (Ebrei 12, 11).
Una cosa soprattutto ci deve sorreggere quando sentiamo su di noi la mano del potatore: Dio soffre con noi nel vederci soffrire. Egli pota con mano tremante. Quando ero ragazzo, una volta mi procurai una grossa lacerazione al piede, calpestando un pezzo di vetro. Si era al tempo di guerra e mio padre mi portò di corsa al più vicino pronto soccorso militare degli alleati. Mentre il dottore mi estraeva il vetro, vedevo mio padre torcersi le mani e voltarsi verso la parete per non vedere. Quando voglio raffigurarmi lo stato d’animo del Padre celeste nel vederci soffrire, ripenso a lui.
Affido questo pensiero della compassione di Dio soprattutto a coloro che in questo momento sentono su di sé la mano del Padre che pota, perché possano attingere da esso consolazione e speranza.
LEGGI IL BRANO DEL VANGELO
V DOMENICA DI PASQUA – ANNO B
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- Colore liturgico: Bianco
- At 9, 26-31; Sal.21; 1 Gv 3, 18-24; Gv 15, 1-8
Gv 15, 1-8
Dal Vangelo secondo Giovanni
1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
- 29 Aprile – 05 Maggio 2018
- Tempo di Pasqua V
- Colore Bianco
- Lezionario: Ciclo B
- Anno: II
- Salterio: sett. 1
Fonte: LaSacraBibbia.net
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