Signore, che io veda
Il brano evangelico odierno è così vivace e movimentato che è una gioia riascoltarlo per intero.
Leggiamolo insieme, intercalandolo con qualche breve annotazione. Se l’abitudine di guardare la televisione e di trovare le immagini belle e fatte non ci ha tolto del tutto la capacità di far lavorare la nostra fantasia, a ogni frase vedremo una scena disegnarsi davanti ai nostri occhi.
“Mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”.
Bartimeo è uno che non si lascia sfuggire l’occasione. Ha sentito che passava Gesù, ha compreso che era l’occasione della sua vita e ha agito con prontezza. Già qui abbiamo un primo insegnamento importante. Gesù passa ancora. Bisogna che non passi invano. “Temo Gesù che passa” (timeo Jesum transeuntem), diceva sant’Agostino: temo che passi e io non me ne accorga. Il segreto per capire questo brano evangelico è sentirci tutti dei Bartimeo, “mendicanti di luce” ai bordi della strada.
“Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: Figlio di Davide, abbi pietà di me! Allora Gesù si fermò e disse: Chiamatelo! E chiamarono il cieco dicendogli: Coraggio! Alzati, ti chiama! Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”.
La reazione dei presenti (“lo sgridavano perché tacesse”) mette in luce la nostra inconfessata pretesa che la miseria resti nascosta, non si mostri, non disturbi la nostra vista e i nostri sonni. Oggi tale reazione ci fa pensare anche al pregiudizio di coloro i quali vorrebbero che la fede non si mostri in pubblico, non sia gridata, ma rimanga un fatto esclusivamente privato. Chiamando Gesù “Figlio di David”, Bartimeo proclama infatti la sua fede; viene a dire che Gesù è il Messia promesso. Ed è lui che la vince. Pare di vederlo, mentre si alza di scatto e a tentoni (ancora non ci vede) va verso il luogo da dove proviene la voce di Gesù. Getta via il mantello, lascia indietro tutto, come chi è sicuro che sta per cominciare una nuova vita. Ascoltiamo la conclusione:
“Allora Gesù gli disse: Che vuoi che io ti faccia? E il cieco a lui: Rabbunì, che io riabbia la vista! E Gesù gli disse: Va’, la tua fede ti ha salvato. E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada”.
È abbastanza chiaro che questo miracolo di Gesù, come tanti altri, si svolge su due livelli: su un piano fisico e su uno spirituale. Ci parla di due cecità: la cecità degli occhi e la cecità del cuore. La seconda è molto peggiore e più difficile da guarire della prima. Con gli occhi del corpo, si vedono le cose che passano, con quelli del cuore le cose che non passano. Saint-Exupéry diceva: “Non si vede bene che con il cuore”.
Il termine “cieco” si è caricato di tanti sensi negativi che è giusto riservarlo, come oggi si tende a fare, alla cecità morale dell’ignoranza e dell’insensibilità. Bartimeo non è cieco, è solo un non-vedente. Con il cuore ci vede meglio di tanti altri intorno a lui, perché ha la fede e nutre la speranza. Anzi, è questa vista interiore della fede che l’aiuta a recuperare anche quella esteriore delle cose. “La tua fede ti ha salvato”, gli dice Gesù. Un segno di questa sua fede è il fatto che, appena guarito, si mette a seguire Gesù per la strada, diventa un discepolo. Non è di quelli cui si applica il proverbio: “Fatta la grazia, gabbato il santo”.
La fede è anch’essa “cieca” (nel senso che non si regola con il lume della ragione), eppure guida tutti. Il poeta romanesco Trilussa ha magnificamente espresso questa idea, in una delle sue poesie più belle, intitolata La guida:
“Quela Vecchietta ceca, che incontrai
la notte che me spersi in mezzo ar bosco,
me disse: -Se la strada nu’ la sai,
te ciaccompagno io, ché la conosco.
Se ciai la forza de venimme appresso,
de tanto in tanto te darò una voce
fino là in fonno, dove c’è un cipresso,
fino là in cima, dove c’è la Croce…-
Io risposi: -Sarà…ma trovo strano
che me possa guidà chi nun ce vede…-
La Ceca, allora, me pijò la mano
e sospirò: -Cammina!-
Era la Fede”.
Dopo queste riflessioni sul brano evangelico dobbiamo dedicare un po’ di attenzione a un tema toccato nella seconda lettura che non si ha occasione di trattare in nessuno dei cicli liturgici: la figura e il ruolo del sacerdote. Sentiamo cosa dice:
“Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza; proprio a causa di questa anche per se stesso deve offrire sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo. Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne”.
Quello che qui si dice del “sommo sacerdote” dell’Antico Testamento, vale anche per il sacerdote del Nuovo Testamento ed infatti queste parole sono servite sempre a delineare la figura e il ruolo del sacerdote in mezzo al popolo cristiano. Il vero e perfetto Sommo Sacerdote è infatti Cristo, di cui il sacerdote cristiano è un umile rappresentante
Cosa dice, del sacerdote, il testo ascoltato? Anzitutto che egli è “preso di tra gli uomini”. Non dunque un essere sradicato o calato dal cielo, ma un essere umano che ha alle spalle una famiglia e una storia come tutti gli altri. Di lui si può dire quello che dicevano di Gesù i suoi compaesani: “Non è costui il figlio del tale e della tale? I suoi fratelli e le sue sorelle non sono tutti tra noi?” “Preso di tra gli uomini” significa anche che il sacerdote è fatto come ogni altra creatura umana: con i desideri, gli affetti, le lotte, le esitazioni, le debolezze di tutti. Della stessa pasta di tutti. La Scrittura vede in questo un vantaggio per gli altri uomini, non un motivo di scandalo. In tal modo egli sarà infatti più preparato ad avere compassione, essendo rivestito anche lui di debolezza. Naturalmente in ciò c’è anche un appello al sacerdote ad essere, di fatto, compassionevole, umano, comprensivo. A essere duro con se stesso e tenero con gli altri, non il rovescio. A Dio non preme tanto che i suoi rappresentanti in terra siano perfetti, quanto che siano misericordiosi.
Preso di tra gli uomini, il sacerdote (ed è il secondo elemento che lo contraddistingue) è poi “costituito per gli uomini”, cioè ridonato ad essi, posto a loro servizio. Certo, anche il medico è a servizio dell’uomo; chi si sposa è anche lui a servizio della vita. Ciò che distingue il sacerdote è che il suo è un servizio “nelle cose che riguardano Dio”. Un servizio che tocca la dimensione più profonda dell’uomo, il suo destino eterno. San Paolo riassume il ministero sacerdotale con una frase:
“Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (1 Corinzi 4,1).
Il grande oratore francese Lacordaire descrive così il compito del sacerdote tra il popolo: “Essere membro di ogni famiglia, senza appartenere ad alcuna di esse; condividere ogni sofferenza, essere messo a parte di ogni segreto, guarire ogni ferita; andare ogni giorno dagli uomini a Dio per offrirgli la loro devozione e le loro preghiere, e tornare da Dio agli uomini per portare ad essi il suo perdono e la sua speranza; avere un cuore di acciaio per la castità e un cuore di carne per la carità; insegnare e perdonare, consolare e benedire ed essere benedetto per sempre. È la tua vita, o sacerdote di Gesù Cristo!”.
Vorrei, prima di concludere, ricordare una bellissima definizione che san Paolo da del sacerdote: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” ( 2 Corinzi 1, 24). Non dunque padrone della fede, ma collaboratore della gioia! Il sacerdote deve evitare la mentalità del boss, di chi crede di avere il monopolio delle cose di Dio e della Chiesa. Lavoriamo per la gioia della gente e la gente sarà la nostra gioia. Sarà il nostro “centuplo in questa vita, in fratelli, sorelle e madri”, come Gesù ci ha promesso.