Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 28 Ottobre 2018.
Omero ci vedeva, ma è raffigurato cieco. Era il simbolo degli uomini ispirati, di coloro che, per penetrare nelle verità profonde, celate ai comuni mortali, devono chiudere gli occhi sulla realtà di questo mondo. Nell’antica Grecia, anche i vati, gli indovini, i rapsodi erano ritenuti ciechi: dovevano astrarre dalle apparenze ingannevoli, ignorare i bagliori terreni, per cogliere la luce e i pensieri degli dèi.
Lodevole la loro appassionata ricerca del vero e il loro impegno a educare alla saggezza, ma, di fronte ai grandi enigmi dell’universo e dell’uomo, dovevano arrendersi, brancolavano nel buio, rimanevano ciechi.
I peripatetici, indossando il mantello, simbolo di chi coltivava l’amore per la sapienza, dissertavano sulla verità mentre passeggiavano attorno all’acropoli di Atene; gli accademici, gli epicurei e gli stoici riflettevano sul dolore, sulla felicità, sul piacere e sul senso della vita. Ad Atene, definita da Cicerone “la lampada di tutta la Grecia”, tutti, come ciechi, volgevano gli occhi anelando alla luce. Ma non era da quella città che sarebbe venuta la luce del mondo.
A Roma regnava Tiberio quando, fra le montagne della Galilea, un falegname di Nazaret cominciò ad annunziare la buona novella. Fu allora che “il popolo immerso nelle tenebre vide una grande luce” (Mt 4,16). Per gli antichi filosofi era giunto il momento di deporre i loro mantelli e sollevare lo sguardo: dall’alto era venuto a visitare gli uomini “un sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte” e indicare ai ciechi la via della pace (Lc 1,78-79).
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Le proposte del mondo mi avvolgono nella tenebra, quelle evangeliche sono luce”.
Prima Lettura (Ger 31,7-9)
7 Così dice il Signore:
“Innalzate canti di gioia per Giacobbe,
esultate per la prima delle nazioni,
fate udire la vostra lode e dite:
Il Signore ha salvato il suo popolo,
un resto di Israele”.
8 Ecco li riconduco dal paese del settentrione
e li raduno all’estremità della terra;
fra di essi sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente;
ritorneranno qui in gran folla.
9 Essi erano partiti nel pianto,
io li riporterò tra le consolazioni;
li condurrò a fiumi d’acqua
per una strada dritta in cui non inciamperanno;
perché io sono un padre per Israele,
Efraim è il mio primogenito.
Nel dizionario, alla voce geremiade troviamo: discorso lungo e lamentoso. Geremia è il profeta celebre per i suoi annunci di sventura e per le continue minacce di catastrofi. Eppure, ci fu un periodo della sua vita in cui anch’egli si sciolse in previsioni incoraggianti e pronunciò oracoli lieti. Accadde quando il pio re Giosia diede inizio a una profonda riforma religiosa e intraprese la riconquista della Samaria, sottratta a Israele cent’anni prima dagli assiri. Questi oracoli, riuniti in quattro capitoli detti dai biblisti Libro della consolazione (cc. 30-33), sono un susseguirsi di inviti alla gioia e alla festa, perché il Signore ama ancora Israele (Ger 31,3.15-20) e sta per compiere un intervento prodigioso in suo favore: ricondurrà nella loro patria gli esuli deportati a Ninive.
La lettura di oggi è tratta da questa sezione del libro di Geremia.
Dopo l’invito a lodare il Signore, a inneggiare al suo nome e a esultare (v. 7), al profeta pare già di contemplare il gruppo degli esiliati che ritornano nella loro terra. Li osserva e scorge ciechi, zoppi, donne incinte e donne partorienti (v. 8).
Una comitiva davvero singolare. Nessuno se la sentirebbe di scommettere sulla riuscita del viaggio: con gente simile non si va lontano, non si cammina spediti. La loro condizione è disperata: sono ciechi incapaci di orientarsi, zoppi che non riescono a muoversi, donne appesantite dalla gravidanza o afflitte dai dolori del parto. Solo un miracolo del Signore può condurre alla meta un gruppo così mal assortito.
Eppure sono proprio le persone ridotte in questo stato che attirano lo sguardo del Signore e lo muovono a compassione. Egli ama ogni uomo, ma ha premure e attenzioni particolari per chi è in difficoltà. È su chi è come gli esiliati a Ninive che egli si china per portarli alla vita.
Questi salvati dalla deportazione, chiamati a ripercorrere a ritroso il cammino che li ha condotti lontano dalla patria, raffigurano coloro che, dopo essersi allontanati dal Signore, sono divenuti prigionieri dei vizi, delle cattive abitudini, del peccato, non hanno più la forza di tornare a Dio e forse neppure lo desiderano.
Se la liberazione dipendesse solo da loro, se dovessero contare solo sulle loro forze morali, avrebbero tutte le ragioni per rassegnarsi alla schiavitù.
Anche i deportati si ritenevano un resto di falliti, invece fu da loro che Dio fece ripartire la storia di Israele.
Nell’ultima parte del brano (v. 9) Geremia descrive, ricorrendo alle immagini dell’esodo dall’Egitto, il ritorno di questi deportati. Attraversano il deserto senza incontrare alcuna difficoltà, non patiscono né fame né sete, come invece era accaduto ai loro padri in fuga dalla schiavitù del faraone. Il Signore fa loro incontrare fiumi d’acqua e traccia una strada diritta e comoda sulla quale non possono inciampare.
Le parole consolanti del profeta vengono riproposte oggi per ricordare che la storia di questi esiliati è la nostra. Chi si allontana dal Signore fa l’esperienza del “pianto” (v. 9), ma il cammino del ritorno, pur impegnativo e difficoltoso, è anche disseminato di soddisfazioni che, come tante sorgenti d’acqua zampillante nel deserto, il Signore si impegna a farci incontrare.
Seconda Lettura (Eb 5,1-6)
1 Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. 2 In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza; 3 proprio a causa di questa anche per se stesso deve offrire sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo.
4 Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. 5 Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse:
“Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato”.
6 Come in un altro passo dice:
“Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchìsedek”.
La Lettera agli ebrei è stata scritta per cristiani di origine giudaica che avevano sì creduto in Cristo, ma continuavano a provare nostalgia per il tempio di Gerusalemme e per le solenni cerimonie che ivi si svolgevano. Su di loro incombeva la tentazione di ritornare alle pratiche rassicuranti dell’antica religione.
L’autore della lettera – un cristiano molto istruito nelle Scritture e nelle tradizioni del popolo d’Israele – chiarisce questa difficoltà spiegando ai suoi fratelli di fede che Cristo è un sacerdote infinitamente superiore a quelli dell’antica Alleanza.
Nel brano di oggi egli richiama anzitutto le caratteristiche dei sacerdoti che offrivano i sacrifici nel tempio. Essi dovevano essere scelti da Dio; non potevano attribuirsi questo onore senza essere stati chiamati dal Signore, come Aronne. Poi dovevano essere uomini, non angeli, infatti solo chi sperimenta nella propria carne la debolezza umana è in grado di comprendere la fragilità e i peccati dei fratelli e sa essere solidale con loro (vv. 1-4).
Gesù possiede ambedue queste caratteristiche.
Non si è attribuito la gloria di essere sommo sacerdote, ma gli è stata conferita dal Padre (vv. 5-6). Poi è pienamente uomo: ha fatto l’esperienza del dolore e della tentazione e, dunque, è in grado di compatire i nostri errori (vv. 7-10).
Questa lettura ha un messaggio consolante non solo per gli ebrei nostalgici della loro religione, ma anche per alcuni cristiani di oggi che forse ancora rimpiangono gli antichi riti, le tradizioni, i vecchi catechismi così chiari e precisi, le devozioni così rassicuranti. Oggi la chiesa consegna loro Cristo nelle Scritture e nel pane eucaristico e questo duplice alimento è immensamente più gustoso e solido di qualunque altro cibo del passato.
Vangelo (Mc 10,46-52)
46 Mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47 Costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”.
48 Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”.
49 Allora Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. E chiamarono il cieco dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”. 50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51 Allora Gesù gli disse: “Che vuoi che io ti faccia?”. E il cieco a lui: “Rabbunì, che io riabbia la vista!”. 52 E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”.
E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.
Con questo brano si chiude la parte centrale del vangelo di Marco nella quale Gesù ha chiarito qual è la meta del suo viaggio e ha esposto le esigenze morali cui si deve adeguare chi vuole seguire i suoi passi: amore gratuito, senza riserve e senza limiti, rinuncia ai beni e a ogni ambizione, servizio disinteressato ai fratelli.
Gesù ha già percorso buona parte del suo cammino: è partito dalla Galilea, è sceso lungo il Giordano e ora si trova a Gerico. Mancano solo 27 chilometri per raggiungere la meta. Sta per iniziare la salita verso la città santa e con lui ci sono i discepoli e molta folla (v. 46).
Dal punto di vista storico la presenza di una grande folla accanto a Gesù è verosimile perché, in occasione della pasqua, le carovane di pellegrini si recavano a Gerusalemme numerose, ma dal punto di vista teologico è sorprendente. Non si comprende come sia possibile che tanta gente segua ancora Gesù dopo che, con chiarezza, egli ha annunciato il destino che lo attende, il calice amaro che deve bere, le acque impetuose dell’odio, della persecuzione e del martirio nelle quali si deve immergere (Mc 10,38).
C’è una sola spiegazione: chi lo accompagna non ha capito o non ha voluto capire il significato delle sue parole. Nemmeno i discepoli si sono ancora liberati dall’idea distorta di messia che hanno in mente. Nel loro intimo, continuano ad illudersi, a sperare che le fosche previsioni da lui fatte siano state pronunciate in un momento di amarezza e di sconforto e sono convinti che alla fine tutto si concluderà con un trionfo.
La loro condizione spirituale è simile a quella dei ciechi, hanno occhi impenetrabili a qualunque fascio di luce, insensibili di fronte ai colori più intensi. Il Maestro li ha prima rimproverati, inutilmente: “Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete?” (Mc 8,17-18), poi ha cominciato a curare la loro cecità, con fatica, intervenendo più volte, come ha fatto con il cieco di Betsàida (Mc 8,22-26). La parte centrale del vangelo di Marco è tutta dedicata a questi suoi tentativi.
Ora è a Gerico e, prima di iniziare la salita verso Gerusalemme, compie un ultimo segno: guarisce un altro cieco.
In occasione della pasqua, i giudei si mostravano particolarmente generosi nell’elargizione delle elemosine: si sentivano in dovere di coinvolgere anche le persone meno favorite nella gioia della festa. Per i mendicanti l’uscita della città di Gerico, là dove la strada comincia a inerpicarsi verso Gerusalemme, era il luogo ideale per piazzarsi e implorare un aiuto dai pellegrini ben disposti.
Fra questi mendicanti seduti ai margini della strada, c’era, al momento del passaggio di Gesù con il gruppo dei discepoli, un cieco, identificato con il cognome, Bartimeo.
Il resoconto del suo incontro con Gesù, riferitoci da tutti e tre i sinottici, è ben più di una pagina di cronaca. Nell’intenzione dell’evangelista Marco è anche una parabola, un’allegoria dell’uomo illuminato da Cristo.
Bartimeo è l’immagine del discepolo che finalmente apre gli occhi alla luce del Maestro e si decide a seguirlo lungo la via.
Consideriamo le tappe che lo hanno portato alla guarigione.
La prima inquadratura ce lo mostra seduto lungo la via (v. 46).
Vivere è muoversi, progettare, costruire, coltivare ideali. Bartimeo invece, più che vivere, sopravvive, è immobile, ripete come un automa gli stessi gesti e le stesse parole, si fa accompagnare ogni giorno negli stessi ambienti; pare rassegnato alla condizione infelice che un infausto destino gli ha assegnato.
Rappresenta l’uomo che non è stato ancora illuminato dal vangelo e dalla luce della Pasqua: non cammina verso una meta, brancola, coinvolto nel perenne e misterioso succedersi del nascere, vivere e morire.
Chiede l’elemosina (v. 46). Non è autosufficiente, deve mendicare tutto, anche gli affetti, dipende dagli altri, dalle cose, dagli avvenimenti.
Il primo passo che compie verso la guarigione è la presa di coscienza della sua situazione (v. 47).
Solo chi si rende conto che sta conducendo una vita senza senso, inaccettabile, si decide a cercare una via d’uscita. C’è anche chi si adatta alla propria condizione, chi si affeziona alla malattia che gli consente di vivere pigramente di elemosine, chi si compiace del proprio stato. Bartimeo non si rassegna alla tenebra nella quale è immerso.
Un giorno si rende conto che qualcosa sta per cambiare. Sente parlare di Gesù (vv. 47-48) e capisce che gli si sta per presentare l’occasione della vita: può incontrare il “Figlio di Davide”, ascoltare la sua voce risanante, aprire gli occhi. Supera le esitazioni e le paure, l’imbarazzo e la vergogna. Grida, chiede aiuto, non vuole più rimanere nel suo stato.
Anche la guarigione dalla cecità spirituale inizia da una profonda inquietudine interiore, dal rifiuto di una vita priva di valori e di ideali, da un’intima insoddisfazione che stimola a cercare proposte alternative, rende attenti ai discorsi nuovi, a modelli di vita diversi da quelli che la società e la morale corrente propongono.
L’incontro con coloro che seguono il Maestro è il primo passo verso la luce (v. 47). Prima di raggiungere Cristo ci si imbatte nei discepoli e ci sono delle difficoltà da superare.
Chi riflette e comincia a chiedersi se ciò che sta facendo abbia un senso, si rende presto conto di muoversi contromano, si sente subito contrastato nel proprio sforzo di incontrare la luce del cielo. I colleghi di bisbocce, i soci in affari ambigui e anche gli amici, magari in buona fede, frappongono ostacoli, invitano a tacere, suggeriscono di lasciar perdere i temi evanescenti della fede, sorridono dei tormenti dell’anima, obiettano che si tratta di preoccupazioni di gente psicologicamente labile.
Di fronte a questa opposizione il cieco non si scoraggia, continua a invocare la luce, non si vergogna della sua condizione, non nasconde la sua angoscia; grida, chiede aiuto a chi può aprirgli gli occhi.
Anche coloro che accompagnano Gesù possono costituire un impedimento per chi cerca di accostarsi alla luce del vangelo. Pare impossibile che chi ha seguito il Maestro dalla Galilea, ha ascoltato la sua parola e appartiene al gruppo dei discepoli possa essere ancora spiritualmente cieco (Mc 8,18) e costituire un intralcio per chi vuole incontrare Cristo.
Eppure è accaduto a Gerico, dove “molti sgridavano Bartimeo per farlo tacere”, e continua ad accadere oggi.
Verificare se si è stati realmente illuminati da Cristo o se lo si segue solo materialmente è abbastanza semplice. Lo rivela la sensibilità che si ha al grido del povero che chiede aiuto. Chi ne rimane infastidito, chi finge di ignorarlo o cerca di metterlo a tacere, chi è occupato in progetti più elevati, più devoti, più sublimi e non ha tempo di prendersi cura di chi brancola nel buio, chi crede che ci sia qualcosa di più importante che fermarsi ad ascoltare, a capire, ad aiutare chi desidera incontrare il Signore, costui, anche se adempie in modo impeccabile tutte le pratiche religiose, è ancora cieco.
Gesù ode il grido di Bartimeo (v. 49) ed esige che gli sia condotto dinanzi.
La sua chiamata non giunge direttamente al cieco, c’è qualcuno incaricato di trasmetterla.
Questi mediatori rappresentano gli autentici seguaci di Cristo, sensibili al grido di chi cerca la luce. Sono coloro che dedicano gran parte del loro tempo all’ascolto dei problemi dei fratelli in difficoltà, che hanno sempre parole di incoraggiamento, che indicano ai ciechi il cammino che conduce al Maestro.
Nelle parole che rivolgono a chi ha trascorso una vita nelle tenebre dell’errore non c’è alcun rimprovero, ma solo inviti alla gioia e alla speranza: “Coraggio! Alzati, ti chiama” (v. 49).
Siamo così giunti all’ultima tappa. Il cieco balza in piedi, getta via il mantello e corre incontro a colui che gli può dare la vista (v. 50).
Sono gesti davvero improbabili, non è così che un cieco normalmente si comporta. Sarebbe più logico attendersi che, sistematosi il mantello sulle spalle e movendosi con passo incerto, egli si facesse accompagnare da Gesù. Invece getta via tutto, balza in piedi e corre spedito.
Così come si presenta, la scena non può che avere un valore simbolico e un messaggio teologico da comunicare.
In Israele il mantello era considerato l’unico bene posseduto dal povero: “È la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; senza di esso come potrebbe coprirsi quando dorme?” (Es 22,26). Come ogni mendicante, Bartimeo se l’è collocato sulle proprie ginocchia e se ne serve per raccogliervi le elemosine. Il gesto di abbandonarlo, insieme ai pochi spiccioli che qualche passante benevolo vi ha collocato, indica il distacco completo, deciso, radicale dalla condizione in cui è vissuto. La vita condotta fino a quel momento non gli interessa più.
Il suo gesto richiama quello che i catecumeni delle comunità di Marco compivano nel giorno del loro battesimo: gettavano via il vestito vecchio, rifiutavano ciò che impediva loro di correre dietro al Maestro. Era il segno della rinuncia alla vita antica, alle abitudini, ai comportamenti incompatibili con le scelte di chi è stato illuminato da Cristo.
Il racconto si conclude con il dialogo fra Gesù ed il cieco (vv. 51-52).
Il Maestro chiede a ogni uomo che cerca la luce di fare la sua professione di fede, di credere in colui che può aprirgli gli occhi.
L’incontro con Cristo e con la sua luce colloca in una condizione non facile.
Bartimeo prima era seduto, ora deve mettersi a camminare; prima aveva una sua “professione” che, bene o male, gli dava da mangiare, ora deve inventarsi una vita completamente nuova; prima aveva un luogo dove abitare, viveva fra persone conosciute e amiche, ora deve partire per un’avventura che si presenta impegnativa e rischiosa.
Chi si avvicina a Cristo non deve illudersi di andare incontro a una vita comoda e senza problemi. L’esperienza di Bartimeo insegna che è molto arduo il cammino che attende chi ha accolto la luce; essa obbliga a rivedere abitudini, comportamenti, amicizie, esige che vengano gestiti in modo radicalmente nuovo la vita, il tempo, i beni.
Chi vuole essere illuminato da Cristo deve scegliere fra il vecchio mantello e la luce.
[accordions] [accordion title=”Chi è Fernando Armellini” load=”hide”]Ha conseguito la licenza in Teologia presso la Pontificia Università Urbaniana e in Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma. Ha perfezionato gli studi di storia, archeologia biblica e lingua ebraica presso l’Università di Gerusalemme. Per alcuni anni è stato missionario in Mozambico. Attualmente insegna sacra Scrittura, è accreditato conferenziere in Italia e all’estero ed è autore di commenti alle Sacre Scritture.[/accordion] [/accordions]