Abbi pietà di me, Signore
Il libro del Siracide
Composto in ebraico verso il 180 a.C. a Gerusalemme, da un saggio ebreo di nome Gesù, esperto della tradizione biblica ma profondo conoscitore anche del vasto mondo dell’ellenismo grazie ai suoi viaggi (cf. Sir 34,9-17), il libro di Siracide è stato tradotto in greco dal nipote Ben Sira ad Alessandria. Egli intendeva sostenere l’attaccamento alla tradizione patria dell’ebraismo dei giovani ebrei tentati di abbandonare la sapienza dei padri per coinvolgersi totalmente in quella proposta dal mondo filosofico e culturale dell’ellenismo, imperante ad Alessandria, la terza città più grande del mondo greco-romano.
Siracide, scritto in greco, non è accolto nel canone ebraico. Esso presenta un testo greco breve (GrI) e uno lungo (GrII). Gli studiosi considerano più autorevole il testo greco breve, ma la Chiesa latina ha venerato il testo lungo che costituisce la base anche della versione latina della Vulgata. Il testo liturgico della CEI 2008 è tradotto seguendo il testo greco lungo.
Tra il 1986 ad oggi sono stati rinvenuti al Cairo, a Qumran, a Masada e altrove brani molto ampi del testo ebraico originale.
Seguendo l’esegeta Maria Carmela Palmisano, possiamo scorgere la seguente struttura generale del libro del Siracide.
Dopo il Prologo del nipote Ben Sira (vv. 1-36), la Prima parte (1,1–24,34) tratta della ricerca della sapienza nella vita del saggio; la Seconda parte (25,1–42,14) fornisce istruzioni su varie situazioni della vita e un esempio offerto ai discepoli; la Terza parte (42,15–51,30) parla della gloria di Dio nelle sue opere, nella natura e nella storia, col famoso “elogio dei padri” (Sir 44,1–49,16).
Distribuite in tre strofe, in Sir 34,18–36,17 troviamo delle riflessioni sapienziali sul culto, la preghiera e una richiesta di salvezza per il popolo. In 34,18-26 sono descritti i sacrifici che il Signore non accetta; in 35,1-10 quelli graditi a Dio (v. 3: «È gradito al Signore astenersi dal male, astenersi dall’ingiustizia è un sacrificio di espiazione»; v. 6a: «Il sacrificio della persona giusta è gradito a Dio»), mentre in 35,11-24 si descrive la reazione di Dio ai sacrifici.
Sir 35,11-24 medita sulla risposta di Dio al grido di aiuto. Il brano può essere suddiviso in tre strofe: i vv. 11-14 descrivono il giudizio di Dio e il motivo dell’ascolto di Dio: egli è giudice imparziale e non fa preferenze di persona, anche nei confronti del povero; tuttavia, esaudirà la richiesta di chi subisce ingiustizia; i vv. 15-18 annunciano il giudizio di Dio; i vv. 19-23 espongono la sua esecuzione; il v. 24 conclude l’unità, preparando il passaggio alla preghiera della pericope successiva.
La preghiera
Luca Mazzinghi fa notare come il libro del Siracide offra ampio spazio al tema della preghiera: in Sir 22,27–23,46 esso medita sul controllo della parola e degli istinti sessuali; In 36,1-19 è riportata una preghiera di tutto Israele per la liberazione di Gerusalemme; in 51,1-12 si annota un rendimento di grazie dopo una prova.
Ben Sira non è sacerdote, però è molto interessato al culto e alla preghiera. Secondo questo venerando sapiente giudeo, ogni saggio può acquistare il suo sapere anche attraverso la preghiera, ponendosi cioè di fronte alla presenza del Signore. Il saggio è riempito di sapienza ed esercita nella preghiera una liturgia non molto lontana da quella celebrata dai sacerdoti.
Ben Sira presenta tre volte alcune figure di grandi intercessori, per quattro volte consiglia di pregare per ottenere il perdono dei peccati, consiglia la preghiera nella malattia e considera la preghiera come utile per ottenere la sapienza. Il Signore ascolta la preghiera del povero. La preghiera di lode è vista come la vera vocazione dell’uomo. Nella preghiera non vanno sprecate troppe parole (Sir 7,14b; cf. Mt 6,7).
Dio e la preghiera/querela del povero
Nel brano letto nella liturgia viene ricordato come nella preghiera non si deve tentare di corrompere il Signore tramite donativi di vario genere – le odierne “bustarelle” –, perché egli non li accetta. Dio è un giudice imparziale, che non guarda in faccia a nessuno (lett.: «presso di lui non c’è gloria di persona») e non fa parzialità in modo da danneggiare il povero (epi ptōchōi).
Dio non fa parzialità di persone, ma è molto attento ad ascoltare le rimostranze delle fasce deboli della società, quelle che normalmente faticano a far udire la loro voce e a far valere le proprie ragioni nei tribunali umani: l’orfano, la vedova e il povero (oppure “lo straniero”). Nella Bibbia essi rappresentano gli ambiti sociali senza protezione economica, sociale e giuridica. Il re di Israele era tenuto a proteggerle in modo particolare. Tale sarà anche il re messianico che Israele attende con fede (cf. Sal 72).
Il vero re dei giudei è però YHWH, e in questo senso forse si può attribuire a Dio di una “opzione preferenziale per i poveri”, quella fatta dalla Chiesa sudamericana nei decenni scorsi. Tramite la sua sentenza favorevole, Dio “darà un pieno ascolto giuridico/esaudirà/eisakousetai” la preghiera/richiesta/querela/deēsin” di chi subisce l’ingiustizia perché “privato della giustizia (e quindi danneggiato)/oppresso (CEI)/ēdikēmenou” (< a-dikeō, con l’alfa privativo iniziale).
Le lacrime e il grido della vedova
Dio non trascura assolutamente la supplica/querela (hiketeian) dell’orfano, “guardando sopra/ou mē hyperidēi” i fatti, così come non trascura la vedova quando “effonde il suo lamento/ekchēi lalian”: un lamento/querela che scorre nelle sue lacrime, rigandole la guancia.
Possiamo però pensare che anche la guancia di Dio venga rigata dalle lacrime della vedova e che egli non possa non condividere il “grido/urlo/kataboēsis” della vedova contro l’avversario che gliele fa versare. In Es 22,21-23 vengono ben espressi la scelta di YHWH e il suo comando molto deciso e minaccioso: «Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando “invocherà da me l’aiuto/ṣā’ōq yiṣ’aq”, io darò ascolto “al suo grido/ṣa’ăqātô”, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani».
Chi sarà accetto a Dio (v. 16)? “Colui che serve/therapeuōn” è il soggetto maschile, senza articolo ma anche senza complemento oggetto. Come integrare ciò che manca? Colui che serve “la vedova” o “Dio”? C’è chi si riferisce alla vedova (CEI 2008: «Chi la soccorre») e chi fa riferimento a Dio (Reggi, «[il] servente [Dio]»; Palmisano: «Chi serve [Dio]»; TOB: «Celui qui sert le Seigneur»; Bible de Jérusalem: «Celui qui sert Dieu»; NRSV non esplicita: «The one whose service is pleasing to the Lord»).
Palmisano traduce: «Chi serve Dio nel compiacerlo sarà accetto, la sua richiesta giungerà fino alle nubi». Nell’originale ebraico la “richiesta/deēsis” è espressa con “ṣe’āqāh/grido/querela giuridica”.
La preghiera del povero non desiste
Al v. 17 la preghiera/querela per un’ingiustizia subìta del contesto precedente si generalizza nella “preghiera del povero/proseuchē tapeinou”. Essa non solo giunge fino alle nubi, a Dio, ma le attraversa, giungendo al cuore di Dio che ascolta. Il Talmud babilonese afferma da parte sua che nessuna porta in cielo resiste alle lacrime (bBaba Meṣi’a 59, a).
Fino a quando la sua preghiera non si sia “avvicinata/syneggisēi” al traguardo, il povero “non si trova assolutamente consolato/ou mē paraklēthēi”. Egli “non desiste assolutamente/ou mē apostēi” dal rivolgersi a Dio, finché l’Altissimo non “abbia chiesto conto/episkepsētai” (ai malvagi) e abbia giudicato i giusti, dando loro soddisfazione (“giudicato i giusti/krinei dikaiois”) e “fatto il giudizio/poiēsei krisin”) per loro, portando a termine il procedimento giudiziario con l’emissione della sentenza.
Il verbi greco episkeptein traduce per lo più il verbo ebraico pāqād, che veicola l’idea di partecipazione con valore positivo o negativo e significa “passare in rassegna (2Re 18,1), visitare (in bene [cf. Lc 1,68] o in male [= punire, Es 32,34]), chiedere conto [1Sam 20,6.18])”.
YHWH ascolta la preghiera del povero, dell’oppresso e dell’indifeso.
Essa non viene mai meno e penetra i cieli, fino al cuore di Dio, giusto giudice.
Che ne sarà però della preghiera dell’uomo peccatore?
Parabola per i narcisi divinizzanti e “nullificatori”
Attorno al centro del chiasmo (Lc 18,8b «Tuttavia, il Figlio dell’uomo, venendo, troverà mai la fede sulla terra?») ruotano due parabole sul tema della preghiera (18,1-8a. -14). L’evangelista Luca pone un “cappello” redazionale su ciascuna di esse. La prima (18,1-8) è posta sotto il sigillo delle necessità di pregare incessantemente, senza stancarsi (18,1).
La seconda parabola (Lc 18,9-14) è introdotta da un titolo che orienta la sua comprensione secondo il taglio inteso da Gesù (e/o dall’evangelista Luca). Alla lettera suona: «Disse d’altra parte anche verso coloro che confidavano in se stessi e di essere giusti e disprezzavano/nullificavano i rimanenti questa parabola». Una parabola quindi non solo circa la preghiera, ma su uno stile esistenziale negativo che rende vuota anche la presunta preghiera.
La parabola – il racconto fittizio di una storia che richiede una risposta personale alla domanda implicita o esplicita racchiusa in essa, da applicare poi al referente extranarrativo e alla propria vita – è raccontata da Gesù (secondo Luca) a un tipo di persone con una doppio difetto di fondo, odioso e tragico allo stesso tempo.
Il primo difetto, che fa mancare loro la bellezza e il gusto della vita è descritto così: “Coloro che confidavano in se stessi/tous pepoithotas eph’heautois”. La radice peith- rimanda a un campo semantico di confidenza, fiducia, affidamento, credenza, fede. Ci sono persone che si affidano solo a se stesse, credono solo a se stesse, si “appoggiano fiduciose su” (cf. la preposizione epi + dativo) sulle proprie idee, sul proprio mondo.
Nella lingua tedesca la preposizione “su/sopra” può essere tradotta con über (“sopra”, senza contatto) e con auf (“sopra”, con contatto). Queste persone si appoggiano con contatto solo su di sé, con fiducia cieca e totale e un abbandono confidente quale si dà normalmente solo a Dio!
Il mondo finisce col loro mondo. Narcisi all’ennesima potenza. Dèi in terra. Solinghi e tristi.
Bomba N
Se per caso qualche essere umano osa entrare nell’orizzonte visivo e mentale del narciso, questi ha pronta un’arma potente con cui eliminarlo, una bomba al neutrone. «La bomba al neutrone (detta anche bomba N) è un’arma nucleare che affida il suo potenziale distruttivo non ad effetti termici o meccanici (rilevanti in ogni caso), come fanno la bomba atomica o la bomba all’idrogeno, bensì a un intenso flusso di neutroni […] Nella bomba al neutrone, l’emissione del fascio di particelle è innescata dall’esplosione di un ordigno termonucleare di potenza relativamente limitata, che impiega la maggior parte dell’energia liberata per emettere neutroni; questi, essendo privi di carica elettrica, riescono ad attraversare la materia con grande facilità, non causando danni a quella inanimata (ad eccezione dei vulnerabili circuiti integrati dei processori), ma causando mutazioni e rotture del DNA, potenzialmente o invariabilmente letali per la vita organica» (cit. da Wikipedia).
Una bomba che lascia intatte le cose inanimate, ma che uccide la vita organica. Il sogno di ogni narciso perfezionista.
Il secondo difetto tragico delle persone a cui Gesù rivolge la parabola, che come tema principale ha quello della preghiera, ma che racchiude in sé un ventaglio semantico molto ampio, è quello di chi “disprezza/nullifica/exoutheneō” “i rimanenti/tous loipous”, i rimasugli del proprio io, i resti, lo scarto del narciso. Gli incidenti della storia.
Il fariseo
Gesù calca forse i toni ed esagera nei dettagli, ma nella parabola prende di mira principalmente un pericolo in cui potevano cadere i farisei (e i membri della sua comunità: cf. Mt 23; è un discorso forte, con sette tremende “invettive” e non è rivolto ai farisei ma alle folle e ai suoi discepoli, cf. Mt 23,1).
Gente molto religiosa, i laici farisei cercavano di onorare Dio lungo tutta la giornata e in ogni azione, attualizzando la Legge alla vita concreta del tempo tramite una serie minuziosa di disposizioni con le quali onorare Dio in ogni momento. Cercavano in tal modo di far vivere la santità richiesta ai sacerdoti del tempio anche ai laici, alle persone impegnate nella vita normale quotidiana. L’intenzione era ottima, il pericolo in cui cadere era quello del perfezionismo, dell’esteriorismo, della superbia, del giudizio nei confronti della povera gente ecc. Il pericolo era di onorare Dio e dimenticare l’uomo. Secondo lo storico ebreo Flavio Giuseppe, i farisei erano benvoluti e stimati dalla popolazione e godevano di grande credito umano e religioso.
Nella parabola raccontata da Gesù, due sono i protagonisti: un “fariseo/pharisaios” e un “pubblicano/peccatore pubblico/telōnēs”. Due uomini agli antipodi della scala religiosa di Israele.
“Tempio” e “santuario”
Entrambi salgono all’enorme “spianata templare/to hieron” (quasi 500 m. di lunghezza e 400 m. di larghezza). Superato l’ampio cortile dei gentili, aperto alla preghiera di tutti – stranieri/non-giudei/pagani compresi, che potevano far offrire ai sacerdoti i loro doni votivi –, si incontrava una balaustrata che faceva accedere al cortile delle donne. Sulla balaustrata erano collocate diverse lapidi – di cui sono stati trovati i resti – che ammonivano severamente i pagani a non oltrepassare: «Nessuno straniero (allogenē) penetri al di là della balaustra e della cinta che circonda lo hieron [= zona del tempio, che sta oltre il cortile dei gentili]; chi venisse preso (in flagrante) sarà causa a se stesso della morte che seguirà».
Superato il cortile delle donne e, probabilmente, alcuni gradini, si attraversava la porta di Nicanore (chiusa ogni sera alle ore 20) e ci si veniva a trovare nella stretta striscia denominata il cortile degli israeliti.
Superato anche questo, si trovava il cortile dei sacerdoti, interdetto ai laici. Qui venivano offerti i sacrifici animali e si offriva l’incenso a YHWH.
Salita una rampa di 12 scalini, i sacerdoti e i leviti potevano accedere al “santuario/ho naos” vero e proprio, composto di tre stanze: il “Vestibolo/Ulam”, il “Santo/Hekal” e, infine, il “Santo dei santi/Debir”. In quest’ultima sala poteva entrare solo il sommo sacerdote, una volta l’anno, nella festa del Kippur, per l’incensazione rituale e l’aspersione del coperchio dell’arca con il sangue del capro sacrificato (questo nel tempio di Salomone, quando c’era ancora l’arca dell’alleanza, scomparsa nella distruzione di Gerusalemme del 586 a.C.).
La monade “nullificante”
Com’è abituale nella preghiera ebraica, il fariseo sta ritto in piedi e “prega queste cose verso se stesso/pros heuton tauta proseucheto”. È evidente che egli non prega affatto. Si tratta solo di un soliloquio che nasce e finisce all’interno della persona, monade chiusa in se stessa, senza aperture né verso Dio né verso gli uomini. Egli si appella a Dio, pensando anche di “ringraziarlo” per la sua condizione religiosa diversa da quella dei “rimanenti degli uomini”: i resti, i relitti umani che debordano dal suo io ipertrofico, le migliaia di persone che ha dovuto vedere, ed evitare, attraversando il cortile dei gentili…
Dio ha fatto sì che non fosse nemmeno come “questo pubblicano”. La striscia di cortile riservata gli uomini israeliti non era enorme, e forse quel pubblicano era conosciuto a Gerusalemme (città di 60-70.000 persone in tempi normali). Forse il fariseo l’ha scorto di sottecchi entrando nel cortile, e il paragone gli nasce subito spontaneo, con tono di disprezzo nemmeno nascosto. Il petto si gonfia a dismisura.
A Dio per separazione
L’uomo è relazione, e l’assenza di solidarietà umana nelle parole del fariseo lo rende un sotto-uomo, una torre eburnea di separazione totale dal resto dell’umanità e una fontana inarrestabile di autoglorificazione dei propri meriti.
Il fariseo vive in modo pessimo un aspetto limitato della spiritualità dell’Antico Testamento e del giudaismo: andare a Dio per progressiva separazione (cf. la serie dei cortili e delle sale riservate del tempio e del santuario). “I rimanenti degli uomini”, il resto che spurga dal suo io come melma e pus che infetta, sono tutti ladri, ingiusti, adulteri. Sono fuori posto nei confronti di Dio e della sua Legge emanata al Sinai, in totale difetto verso Dio e verso gli uomini nel campo della correttezza economica, nel rispetto dei beni e delle persone appartenenti alle altre persone, senza giustizia verso di loro e verso Dio.
Digiuni e decime
I meriti del fariseo sono costituiti da opere supererogatorie, facoltative, così come erano vissute dalle “confraternite /chaburot” dei farisei. Egli accenna a due aspetti della vita religiosa concreta in cui i farisei si distinguevano dal resto del popolo.
Otre ai relativamente pochi digiuni ufficiali, egli digiuna due volte la settimana: il lunedì e il giovedì, giorni lontani dal sabato. I discepoli di Gesù digiuneranno invece il mercoledì e il venerdì, giorno della sua morte. Il digiuno, invece di rendere il fariseo “sobrio” di sé, svuotato, disponibile a Dio e agli altri, diventa nella sua bocca una bandiera identitaria da sventolare in faccia alle persone disprezzate per la loro diversa condizione di vita religiosa.
Il fariseo non si limita a pagare le decime previste, ma, in via precauzionale, paga la decima su tutto quello che compra al mercato, dal momento che non sa se il venditore lo abbia fatto al momento della raccolta della sua merce.
La decima era una pratica di attenzione a Dio, che si voleva onorare come fonte della vita e di ogni bene goduto dall’uomo, e di cura per i suoi figli più bisognosi: i sacerdoti e i leviti totalmente dediti al suo servizio e senza alcun bene ereditario, oltre all’orfano, alla vedova e al povero (allo straniero). Cf. Lv 27,32.34; Nm 18,21.225-32; Dt 12,6.17; 14,22.24; 26,1-15).
A chi paga le sue decime il fariseo? A Dio forse? Ai fratelli bisognosi? Forse su un piano oggettivo questi ne avranno avuto benefici, ma su un piano soggettivo al fariseo non viene accresciuto il tasso di solidarietà caritatevole e di condivisone fraterna fra tutti gli strati sociali del popolo di Israele. Dio, da parte sua, non mangia la carne di tori e di buoi e di decime offerte con questo animo non sa che farsene…
L’esattore dagli occhi bassi
Alla torre eburnea del fariseo, fanno da contraltare gli occhi bassi del “pubblicano/telōnēs”, un peccatore pubblico. Egli stava infatti abitualmente al “banco delle imposte/telōnion” che riscuoteva in subappalto dai grandi clientes dei romani usurpatori e oppressori del paese (cf. Lc 19,2: Zaccheo di Gerico, “capo dei pubblicani/architelōnēs” e “sfacciatamente ricco come poteva esserlo solo uno come lui/kai autos plousios”). Alla somma da riscuotere ufficialmente per i nemici oppressori, questi collaborazionisti aggiungevano liberamente delle “spese di commissioni/creste/percentuali di benefits” che, nel bilancio finale, rimanevano nella loro disponibilità.
Ladri, collaborazionisti, bugiardi, e religiosamente impuri anche per il loro continuo maneggiamento di denaro. Emarginati ed esclusi socialmente e religiosamente dalla comunità “perbene” di Israele. Scomunicati.
Anche il pubblicano se ne “sta in piedi/estōs”, come ha imparato nell’educazione religiosa ricevuta in famiglia. Se ne sta però “lontano/makrōthen” dall’entrata del santuario vero e proprio (naos), appoggiato probabilmente al recinto del cortile degli uomini israeliti. Per tutto il tempo che sta lì in piedi, «non vuole assolutamente alzare gli occhi verso il cielo/ouk ēthelen oude tous ophthalmous eparai eis ton ouranon». Ha imparato fin da piccolo che solo la preghiera del giusto sale fino alle nubi del cielo, le penetra e giunge fino a Dio. E lui vuole pregare, ma è peccatore…
Espia tu per me, il peccatore
Per tutto il tempo della sua preghiera il pubblicano si percuote il petto in segno di riconoscimento della propria situazione di vita oggettivamente disgraziata, del proprio peccato soggettivamente commesso, della propria infelicità che lo imbeve da tutti i pori della pelle.
Le parole del pubblicano sono una vera preghiera. Egli non ha meriti da accampare, e quindi non ha torri eburnee da erigere o glorie supererogatorie da sciorinare.
La sua preghiera è rivolta a Dio perché lo “riscatti/hilasthēti” (< hilaskomai, cf. Sal 25m,11; 65,3; 78,38; 79,9; Dn 9,9Theod Kyrie, hilasthēti) con misericordia, lo redima guardandolo propizio, donandogli la sua espiazione divina (kippurim, cf. Lv 25,9; Nm 5,8).
Se nella festa del Kippur il sangue del vitello versato sul “kappōret (ebr)/hilastērion (gr.)”) – il coperchio d’oro dell’arca dell’alleanza – otteneva da Dio l’espiazione dei peccati del popolo (cf. Es 25,16-21; 31,7; Lv 16, 2.13-15), il pubblicano la invoca per sé in quel momento, anche se non rientrava nella grande festa.
Egli invoca espiazione, invoca misericordia come tante volte aveva sentito a casa dalla voce di sua madre (cf. Sal 51,1). Espia/kippēr, fa’ grazia/ḥānan, cancella/maḥah, lava/rāṣāh, copri/kābas, purifica/ṭāhēr… Tutte le espressioni della sua vita religiosa di un tempo erompono ancora vive nel cuore e sulle labbra dell’uomo.
“Espia tu per me, il peccatore”. Il pubblicano si rimette totalmente a Dio. Solo Dio può espiare secondo la Bibbia. L’uomo non espia mai!
Il pubblicano non si rassegna ad ammettere dei peccati. Si identifica totalmente nella sua condizione de “il peccatore/tōi hamartōlōi”, il peccatore eccellenza. Questa era la sua vita. Forse non tutte le colpe commesse saranno state frutto di una responsabilità propria. In quella situazione forse si era trovato per un lavoro ereditato dal padre, e poi doveva anche lui mantenere la famiglia…
Si trovava in una situazione oggettiva totalmente peccaminosa, ma forse a livello soggettivo non tutte le cose erano forse così malvagie. Forse egli cercava di essere corretto nel lavoro, distaccato dal collaborazionismo cieco e violento, lontano da atti di prevaricazione e pronto alla dilazione dei pagamenti, limitato e non esagerato nell’importo delle sue “commissioni”…
Giustificato (!)
Gesù elabora l’applicazione della parabola. Come sempre, essa segue una linea ermeneutica che può rispecchiare quella principale della parabola, ma anche sviluppare linee derivate di grande interesse.
La domanda agli interlocutori resta implicita: quale dei due personaggi ha innalzato una vera preghiera? Qual è l’atteggiamento da evitare e quello da seguire nelle relazioni con gli altri uomini, altri, ma non residui? Voi, chi dite che sia tornato a casa giustificato?
Gesù fornisce già la risposta, perché l’imbarazzo poteva essere grande e molte le perplessità. Se Dio ascolta ed esaudisce le preghiere del giusto (cf. la prima lettura tratta dal Siracide), che ne è della preghiera dell’ingiusto? Che ne è di Dio? Che ne è delle pratiche religiose/sacramentali tradizionalmente intese?
Certamente il pubblicano è stato umile e ora viene innalzato da Dio, perché questa è sempre stata la sua logica seguita nei rapporti con Israele, popolo eletto benché piccolo e non meritevole (cf. Dt 7,1-16).
Dio accoglie la preghiera del pubblicano umile e pentito, e questi se ne torna a casa giustificato/dedeikaiōmenos” da Dio (non per merito della sua preghiera, dal suo pentimento e dalla sua umiltà). Questo significa che Dio riporta al rapporto buono dell’alleanza l’uomo che se ne era allontanato. Nella Bibbia il perdono di Dio precede, accompagna e segue il cammino di Israele (cf. Ez 16). Non è obbligatoriamente collegato a un pentimento previo o a una confessione rituale, “sacramentale” nel tempio, con sacrifici di animali ecc.
Del fariseo non si dice che Dio lo abbia rimproverato o redarguito, ma che se ne è tornato a casa “non giustificato”, perché ingiustificati erano il suo animo, il suo atteggiamento e la sua presunta preghiera.
Non sappiamo (come non lo sapremo mai per Zaccheo di Lc 19,1-10) se il pubblicano, prima di tornare a casa, abbia offerto un sacrifico a Dio nel “tempio”, se una volta tornato a casa abbia cambiato lavoro e tenore di vita…
La parabola non è catechismo, con idee precise e tradizionali ben trasmesse, chiare e limpide. La Bibbia non un catechismo. La parabola è aperta. Riguarda Dio, riguarda noi, cosa faremo della nostra vita di fronte alla novità sempre grande dell’amore di Dio. Una cosa è certa: il Dio di Gesù Cristo, Dio nostro Padre, ci chiama ad andare a lui non per separazione, ma in comunione. Mai senza l’altro!
Bene l’umiltà e l’esaltazione del pubblicano pentito. Meglio ancora la “giustificazione/espiazione” che gli giunge solo da Dio, sempre eccedente ogni opera umana e spesso antecedente, “gratuita”, “esagerata ed eccessiva”, “perfetta” (cf. Mt 5,43-48).
La parabola ci parla di superbia e di umiltà, di soliloquio narcisista e presuntuoso e di preghiera fiduciosa di pentimento. Ma, come sempre, ci parla soprattutto di Dio, di noi, delle nostre relazioni.
Il terzo, lo specchio
Mi pace concludere con alcune splendide righe del compianto p. Silvano Fausti: «Tutti i personaggi del Vangelo di Luca sono riconducibili a queste due figure, che rappresentano reattivamente l’impossibilità e la possibilità della salvezza. Anzi più esattamente: noi cristiani seri siamo tutti fratelli gemelli del fariseo, il presunto giusto, che Gesù vuol convertire in reo confesso, perché accolga la sua grazia. In ogni sogno ci sono tre personaggi che contano: io che osservo, un altro che riconosco, e un terzo che non ricordo mai. Questi è proprio il più importante, il medio termine tra me e l’altro. Gesù svela al fariseo questo personaggio inafferrabile, mettendogli davanti uno specchio: il pubblicano, nel quale non vuole riconoscersi, è la parte profonda del suo io che non accetta».
Commento a cura di padre Roberto Mela scj
Fonte del commento: Settimana News