Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 27 gennaio 2019
La tua Parola, gioia del mio cuore
Il Dio d’Israele parla e tutto è fatto (Sal 33,9). Gli idoli dei pagani invece hanno bocca, ma non parlano (Sal 115,5). Per questo sono incapaci di soccorrere, di proteggere, di compiere prodigi.
La parola dell’uomo può essere campata in aria (Gb 16,3); quella di Dio invece è sempre viva ed efficace (Eb 4,12). E’ come la pioggia e la neve che scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare (Is 55 10).
Non agisce in modo magico, tuttavia è dotata di un’energia irresistibile e, quando cade su un terreno fertile, quando viene accolta con fede, produce effetti straordinari. “Beati coloro che l’ascoltano e la mettono in pratica (Lc 11,28).
Il luogo privilegiato per questo ascolto è l’incontro comunitario.
Nel “giorno del Signore”, il Risorto rivolge la sua parola alla comunità riunita. Il cristiano che non sente il bisogno interiore di unirsi ai fratelli per ascoltare con loro la voce del Maestro può essere certo: qualcosa si è incrinato nel suo rapporto con Cristo.
Già nei primi secoli era ripetuto con insistenza il richiamo: “Non vogliate anteporre alla parola di Dio i bisogni della vostra vita temporale, ma in giorno di domenica, mettendo da parte ogni cosa, affrettatevi alla chiesa. Infatti, quale giustificazione potrà presentare a Dio chi non si reca in questo giorno in assemblea ad ascoltare la parola di salvezza?” (Didascalia, II, 59,2-3).
Se tra i fedeli si sono infiltrati il disinteresse, la disaffezione, la svogliatezza nella partecipazione alle assemblee domenicali, ciò non va imputato solo ai laici. Certe omelie improvvisate, povere di contenuti spirituali, noiose e a volte addirittura deprimenti hanno pure la loro parte di responsabilità. Le letture di oggi sono per tutti un invito alla riflessione e alla revisione del proprio rapporto con la parola di Dio.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Lampada per i miei passi la tua parola, luce sul mio cammino”.
Prima Lettura (Ne 8,2-4a.5-6.8-10)
2 Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere.
3 Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntar della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci di intendere; tutto il popolo porgeva l’orecchio a sentire il libro della legge. 4 Esdra lo scriba stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza.
5 Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutto il popolo; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. 6 Esdra benedisse il Signore Dio grande e tutto il popolo rispose: “Amen, amen”, alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore.
8 I leviti leggevano nel libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso e così facevano comprendere la lettura. 9 Neemia, che era il governatore, Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: “Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!”. Perché tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.
10 Poi Neemia disse loro: “Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”.
Da oltre cento anni il popolo d’Israele è tornato dall’esilio di Babilonia, ma non è ancora riuscito a riorganizzare la sua vita. L’anarchia è totale: si commettono furti, soprusi, violenze, angherie nei confronti dei poveri. Per porre rimedio a una situazione che si fa sempre più caotica, il grande re di Persia, Artaserse, dal quale dipende la Palestina, invia a Gerusalemme Esdra, “sacerdote e scriba, esperto nei comandi del Signore” (Esd 7,11). Costui si rende subito conto che i disordini sono imputabili alla mancata fedeltà alla legge di Dio. Il popolo non la osserva perché non la conosce. Che fare allora?
Il giorno di capodanno, Esdra “porta la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti sono capaci di intendere e la proclama sulla piazza davanti alla porta delle Acque” (vv.1-2). Il modo in cui egli organizza questa celebrazione va esaminato in dettaglio.
Egli convoca in santa assemblea tutte le persone capaci di comprendere e, “dallo spuntar della luce fino a mezzogiorno”, fa leggere il libro della legge (vv.2-3). Nessuno manca, nessuno cerca scuse per rimanere a casa ad occuparsi dei propri affari.
Questa risposta unanime del popolo è rilevata dall’autore sacro per inculcare l’importanza dell’ascolto della parola di Dio. Israele è cosciente che, senza la partecipazione regolare all’assemblea comunitaria, la fede si affievolirebbe e finirebbe per scomparire. La preoccupazione di Esdra è la stessa che ha mosso i pastori della Chiesa delle origini a richiamare i loro fedeli: “Non disertate le nostre riunioni, come alcuni hanno l’abitudine di fare” (Eb 10,25).
La liturgia della Parola non si improvvisa. Esdra lo sa, infatti la organizza alla perfezione, non trascura alcun particolare. Sceglie accuratamente il luogo dell’incontro. La “porta delle Acque” si presta bene allo scopo perché è lontana dal frastuono della città, offre una buona acustica e permette di disporre gli ascoltatori su una specie di anfiteatro.
Fa preparare una tribuna di legno in modo che il lettore venga a trovarsi in posizione elevata e possa essere visto da tutti, senza obbligare a contorsionismi o a continui e fastidiosi movimenti della testa (v.4). Sceglie anche lettori ben preparati e con una buona voce…
Il rito inizia in modo solenne: Esdra, stando in alto, apre devotamente il libro e subito il popolo si alza in piedi per testimoniare la propria venerazione per il testo sacro, viene pronunciata la benedizione e il popolo risponde “Amen! Amen!”. Poi tutti si inginocchiano e si prostrano (vv.5-7). Sono gesti che creano il clima ideale per un “religioso ascolto” della Parola. Chi partecipa alla celebrazione deve percepire, anche sensibilmente, che non si trova di fronte a un libro, ma davanti al Signore che parla. La posizione del corpo, i gesti, gli atteggiamenti sia degli ascoltatori sia di chi presiede devono esprimere questo fatto e disporre ad accogliere il messaggio che il Dio vivente rivolge al suo popolo. Nessuno può disturbare, alzarsi quando vuole, chiacchierare. Anche il celebrante deve fare attenzione a non distrarsi, sbagliare gli interventi, confondere le pagine, compiere gesti senza senso… La celebrazione della Parola, pur aliena da ogni forma di fasto e pomposità, ha bisogno di un contesto sacro, rispettoso, solenne.
Infine, non basta la lettura.
La parola di Dio è efficace solo nella misura in cui viene capita; per questo ha bisogno di essere interpretata e spiegata utilizzando un linguaggio semplice, comprensibile a tutti: agli intelligenti ed agli ignoranti, ai colti ed agli analfabeti (v.8). Da qui la grave responsabilità che incombe su coloro che fanno l’omelia. Quella di Esdra e dei leviti ottiene ottimi risultati. Il popolo fa un serio esame di coscienza, si rende conto di non essere stato fedele alla legge di Dio e manifesta con le lacrime il proprio pentimento (v.9).
Ma al popolo è ricordato che il giorno dell’incontro con la parola di Dio è sempre una festa (v.10). La certezza che Dio continua a parlare, ad accompagnare e guidare il suo popolo è fonte di grande gioia e questa si manifesta anche esteriormente con canti, danze, cibi e bevande più abbondanti del solito.
Seconda Lettura (1 Cor 12,12-31)
12 Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. 13 E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. 14 Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra. 15 Se il piede dicesse: “Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo. 16 E se l’orecchio dicesse: “Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo. 17 Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato?
18 Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto. 19 Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? 20 Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. 21 Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”. 22 Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; 23 e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, 24 mentre quelle decenti non ne hanno bisogno.
Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, 25 perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. 26 Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. 27 Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.
28 Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue.
29 Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti operatori di miracoli? 30 Tutti possiedono doni di far guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?
31 Aspirate ai carismi più grandi!
Per mostrare ai Corinti che i doni dello Spirito non devono portare alla competizione ed alla rivalità, ma all’unità, Paolo introduce questa immagine molto conosciuta nell’antichità: la comunità è come il corpo dell’uomo, composto di molte membra, ciascuna con la propria funzione. Ogni parte del corpo è importante, nessuna può essere disprezzata, nessuna può sostituirsi all’altra.
Questo paragone era usato per convincere i sudditi e gli schiavi a sottomettersi ed a servire i loro padroni. Paolo lo impiega in modo completamente diverso: se ne serve per spiegare che tutti i membri di una comunità si trovano sullo stesso piano e godono della medesima dignità. Se proprio si vuole mantenere una gerarchia – dice – si mostri maggior rispetto per i più deboli, si privilegino i più poveri (v.22-24).
Nell’ultima parte della lettura (vv.28-30) viene presentata una graduatoria dei carismi. Costituisce forse una sorpresa il fatto che quello di “governare” occupi solo il penultimo posto. L’ultimo – come c’era da aspettarsi – è riservato al “dono delle lingue”.
Quali sono dunque i carismi più importanti? Un gradino al di sopra degli altri stanno quelli legati all’annuncio della Parola: gli apostoli, i profeti ed i maestri (Cf. Rm 12,6-8; 1 Cor 12,8-10; Ef 4,11). Questo non significa che chi li svolge meriti maggior rispetto, abbia diritto a privilegi, titoli onorifici, inchini… E’ il ministero in sé che è più importante. Non v’è dubbio che l’annuncio della Parola occupa il primo posto, perché è la Parola che fa nascere e alimenta la fede e la vita della comunità (Rm 10,17).
Vangelo (Lc 1,1-4;4,14-21)
1 Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, 2 come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, 3 così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, 4 perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
4,14 In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15 Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi.
16 Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. 17 Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
18 “Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
19 e predicare un anno di grazia del Signore”.
20 Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. 21 Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”.
Adeguandosi a un procedimento letterario in uso fra gli autori classici del suo tempo, Luca fa precedere la sua opera da un prologo (Lc 1,1-4). E’ una introduzione in cui, senza citare il proprio nome, egli si presenta, dichiara lo scopo che si è proposto ed espone i criteri che seguirà nella composizione del suo Vangelo.
Scrive una cinquantina d’anni dopo i fatti e, unico fra gli evangelisti, dice espressamente di non appartenere al gruppo di coloro che hanno conosciuto personalmente Gesù di Nazareth.
Spontanea allora sorge la domanda: ci si potrà fidare di ciò che racconta? Ecco, in sintesi, la sua risposta: chiunque può parlare di Gesù, anche se non è stato testimone diretto dei fatti, purché sia fedele alla tradizione. Vediamo di chiarire.
Siamo negli anni 80 d.C. e il Vangelo è già stato annunciato in tutto l’impero romano; ovunque sono sorte comunità; molti hanno anche iniziato a porre per iscritto i detti di Gesù e gli episodi della sua vita. Da che cosa ha avuto origine questo movimento religioso di così largo successo?
Sono accaduti – dice Luca – dei fatti tra di noi (v.1). Non sogni, non dottrine filosofiche, non rivelazioni esoteriche, ma fatti, avvenimenti reali che hanno avuto per protagonista un uomo: Gesù di Nazareth. Ciò che egli ha fatto e insegnato ha avuto dei testimoni oculari che – come dirà Giovanni – hanno “visto con i loro occhi” e “toccato con le loro mani” (1 Gv 1,1-4) e sono poi divenuti “ministri della Parola”. Si badi bene: non “proprietari”, “signori”, ma “servi della Parola” (v.2). Non inventori di storie, non imbroglioni avidi di denaro, ma persone che hanno dedicato tutta la loro vita all’annuncio fedele di ciò che hanno visto e udito, e che hanno addirittura preferito morire piuttosto che tradire il messaggio ricevuto dal Maestro.
Molti hanno posto mano per stendere un racconto di questi avvenimenti. Anche Luca ha deciso di mettersi a scrivere sull’argomento. Non lo fa per screditare l’opera di chi lo ha preceduto, ma per preparare un resoconto ordinato del quale le sue comunità hanno bisogno.
Quale metodo ha seguito? Ha fatto ricerche accurate su ogni circostanza. Si è rivolto ai primi testimoni, così tutti i discepoli che leggeranno quanto egli scrive potranno avere la certezza di fondare la propria fede su affermazioni solide. Dice, con chiarezza e decisione, di essere guidato da un’unica preoccupazione: trasmettere fedelmente ciò che gli è stato consegnato dai “ministri della Parola”. Non inventa nulla, ha stabilito la verità dei fatti, fin dagli inizi, cioè, fin dall’infanzia di Gesù (v.3).
L’obiettivo per cui scrive è: dare basi solide alla fede dei cristiani delle sue comunità (v.4). Le verità di fede non possono essere dimostrate con prove inoppugnabili, tuttavia, l’adesione a Cristo non ha nulla a che vedere con la creduloneria, non è una scelta ingenua fatta da persone ignoranti e disposte ad accettare acriticamente tutte le favole.
Ci sono delle ottime ragioni che inducono a credere e Luca le vuole esporre.
Una parola anche su Teòfilo. Era abitudine degli autori classici dedicare la loro opera a chi la sponsorizzava. Le pergamene erano costose e per un Vangelo occorrevano le pelli di una ventina di capretti; poi bisognava pagare i calligrafi che ricevevano poco più di un bracciante, ma erano lenti; infine, anche l’autore del libro doveva vivere… Luca aveva un ammiratore, Teòfilo, probabilmente un cristiano benestante dell’Asia Minore che si era accollato tutte le spese. In segno di gratitudine, l’evangelista lo menziona sia nel prologo del Vangelo sia in quello degli Atti degli Apostoli.
Ben tre capitoli separano la seconda parte del brano di oggi (Lc 4,14-21) dalla prima. E’ l’inizio della vita pubblica di Gesù nella sua terra, la Galilea, e l’episodio narrato – che Matteo e Marco collocano verso la metà del loro Vangelo – costituisce per Luca l’ouverture programmatica, la sintesi di tutta l’attività di Gesù.
E’ sabato e la gente va alla sinagoga per pregare e per ascoltare la lettura e la spiegazione della parola di Dio. Un rabbino organizza l’incontro, ma ogni giudeo adulto può presentarsi o essere invitato a leggere e commentare le Scritture. Fare l’omelia è abbastanza facile: basta aver imparato a memoria le spiegazioni e i commenti fatti dai grandi rabbini e riferire le loro opinioni. Nessuno è tanto presuntuoso da azzardarsi ad aggiungere la propria interpretazione. Com’è solito fare, Gesù si unisce al suo popolo e si rende disponibile a fare da lettore.
La liturgia comincia con la recita dello Shema’ – la professione di fede del pio israelita – continua con le diciotto benedizioni che introducono nella parte centrale della celebrazione, la lettura di due brani della Scrittura: il primo tolto dal libro del Pentateuco (la Torah), l’altro dai Profeti. Chi legge il secondo testo in genere fa anche l’omelia. Il clima è di raccoglimento e di preghiera, la gente è ben disposta all’ascolto della Parola di Dio e Gesù coglie l’occasione per lanciare il suo messaggio (v.16).
Luca mette accuratamente in risalto alcuni particolari, non per scrupolo storico, ma per veicolare messaggi teologici.
Il primo dettaglio, apparentemente superfluo: Gesù apre il volume che gli è stato consegnato. L’evangelista vuol far capire ai suoi lettori che senza Cristo il testo sacro è un libro chiuso, gli oracoli dei profeti e tutti i libri dell’AT rimangono incomprensibili. Solo lui è in grado di dar loro un senso.
Fatta la lettura, Gesù arrotola il volume, lo consegna all’inserviente e si siede; gli occhi di tutti sono fissi su di lui.
I rabbini spiegavano la parola di Dio stando seduti. Se viene sottolineato che Gesù assume questa posizione è per dire che egli è divenuto il maestro. E’ l’invito a fissare su di lui e su nessun altro lo sguardo. I libri santi dell’AT hanno lo scopo di portare a lui e, raggiunto questo scopo, possono venire arrotolati.
Il testo scelto è preso dal profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me… mi ha unto e mi ha mandato ad annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e proclamare un anno di grazia del Signore” (vv.17-19).
Chi è l’uomo incaricato di portare un lieto messaggio ai poveri? Di chi sta parlando Isaia? Il profeta si riferisce a un personaggio che, 400 anni circa prima di Cristo, fu inviato da Dio a consolare gli Israeliti tornati dall’esilio di Babilonia.
Vivevano nella situazione drammatica che abbiamo descritto nella spiegazione della prima lettura: i ricchi sfruttavano i poveri, i padroni non pagavano i loro operai, i forti dominavano sui deboli (Cf. Is 56,10-57,2).
In questo contesto storico, un uomo investito dallo Spirito del Signore è inviato a proclamare “l’anno di grazia”, “il giubileo”, il tempo in cui sono condonati tutti i debiti, finisce ogni forma di schiavitù, viene ristabilita la giustizia.
Oggi – comincia a dire Gesù – si adempie questa profezia (v.21).
Non commenta il testo del profeta, ma ne proclama la realizzazione. Oggi inizia l’anno di grazia, la festa senza fine per tutti, perché a tutti, in nome di Dio, è annunciata la salvezza, gratuita e senza condizioni.
Il termine ebraico usato da Isaia per indicare la liberazione dei prigionieri è deror che significa: sciogliere da ciò che impedisce di correre speditamente. Oggi la parola di Gesù comincia a liberare non solo dalle malattie – che sono il segno di una diminuzione di vita – ma da tutti i blocchi psicologici e morali che rattrappiscono, non permettono di avanzare e di crescere, inibiscono gli slanci di amore. Il groviglio di passioni incontrollate che fanno ripiegare su se stessi nella ricerca del proprio tornaconto, la sete di possesso, la frenesia del potere e del successo sono catene. Questi ceppi oggi cominciano ad essere frantumati.
La forza irresistibile che li spezza è quella dello Spirito Santo (v.14) che è all’opera in Gesù non solo quando egli compie guarigioni prodigiose, ma anche e soprattutto quando, con la sua parola potente, rompe i lacci diabolici che avviluppano e mantengono l’uomo in stato di schiavitù (Lc 4,36).