Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 26 gennaio 2020.
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“Giuda, preso il boccone, uscì subito. Ed era notte” (Gv 13,30). Poche parole per descrivere una scena drammatica: un uomo, ormai in balia dei suoi folli progetti, abbandona Cristo-luce e viene inghiottito dall’oscurità.
L’uomo teme il buio della notte e si rincuora quando scorge i primi segni dell’alba. Le sentinelle scrutano l’orizzonte, aspettando l’aurora (Sal 130,6); lunghe sono le notti di chi, arso dalla febbre, è angosciato dagli incubi ed è stanco di rigirarsi fino al mattino (Gb 7,3-4).
Attende un raggio di luce anche chi è precipitato nelle tenebre del vizio, della menzogna, dell’ingiustizia; attende un raggio che gli annunci la fine di una dolorosa notte e l’inizio di un nuovo giorno.
Sentinella, quanto resta della notte? – chiede il profeta (Is 21,11). Quanto durerà ancora nel mondo il buio del male e del peccato? Quando gli uomini saranno “liberati dal potere delle tenebre”? (Col 1,13).
Paolo invita alla speranza: “ È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino” (Rm 13,11-12).
Il conflitto luce-tenebre continua, nell’attesa del giorno senza fine, quando “non vi sarà più notte e non ci sarà più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà” (Ap 22,5).
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Eravamo tenebre, ora siamo luce. Fa’, o Signore, che ci comportiamo da figli della luce”.
Prima Lettura (Is 8,23b-9,3)
23 In passato umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano e il territorio dei gentili.
9,1 Il popolo che camminava nelle tenebre
vide una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
2 Hai moltiplicato la gioia,
hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te
come si gioisce quando si miete
e come si gioisce quando si spartisce la preda.
3 Poiché il giogo che gli pesava
e la sbarra sulle sue spalle,
il bastone del suo aguzzino
tu hai spezzato come al tempo di Madian.
Ad eccezione del primo versetto, abbiamo già ascoltato questa lettura durante la messa della notte di Natale. Per una comprensione più completa del testo si può quindi fare riferimento alla spiegazione che è stata data.
La profezia va ambientata storicamente nella seconda metà del secolo VIII a.C., epoca della grande espansione assira in tutto il medio Oriente. Anche le tribù di Zabulon e Neftali, situate nel settentrione d’Israele, furono coinvolte in questi sconvolgimenti politico-militari: devastazioni, violenze, deportazioni, imposizione di pesanti tributi furono le conseguenze dell’invasione degli eserciti venuti dalla Mesopotamia.
La drammatica situazione è presentata da Isaia come un’umiliazione, permessa dal Signore, come un trionfo dell’oscurità sulla luce.
Nella regione della Galilea era come se fosse tornato il caos che regnava prima della creazione quando “le tenebre ricoprivano l’abisso” (Gn 1,2). Le fertili terre oltre il Giordano sembravano avvolte nel buio di una notte senza fine. Ovunque regnava, incontrastata, la morte. Il popolo avvilito aveva ormai perso ogni speranza, si era rassegnato a vedere la gloriosa “Via del Mare” che, passando per la Palestina, congiungeva l’Egitto alla Mesopotamia, per sempre presidiata dai tracotanti soldati assiri.
In questo momento di abbattimento generale ecco risuonare la voce del profeta che annuncia l’aurora di un nuovo giorno: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” (9,1).
È la promessa di un capovolgimento della situazione. Con il suo sguardo lungimirante, Isaia vede gli eserciti assiri, responsabili del disastro nazionale, ritirarsi e Israele riprendere la sua vita nella gioia e nella pace.
La luce cui il profeta si riferiva era certamente un nuovo re, discendente della famiglia di Davide, destinato a portare a compimento la missione di dissolvere le tenebre introdotte dagli invasori stranieri. Probabilmente egli pensava ad Ezechia, il bambino nel quale aveva riposto tante speranze.
Cosa accadde storicamente?
Nulla. Gli assiri continuarono ad occupare le terre di Zabulon e di Neftali per un altro centinaio d’anni ed Ezechia che tentò di sottrarsi al loro giogo “fu rinchiuso in Gerusalemme come un uccello in gabbia” – come si legge in un’iscrizione di Sennacherib ritrovata a Ninive. E allora? Il profeta si era ingannato?
La prospettiva storica che noi abbiamo è assai angusta e limitata: se non vediamo realizzarsi immediatamente i nostri progetti pensiamo che Dio si sia dimenticato di noi. Egli realizza le sue promesse, ma in modo inatteso e nel tempo da lui stabilito.
Se i sogni degli uomini del tempo di Isaia si fossero adempiuti, agli oppressori assiri sarebbero succeduti altri oppressori, perché questa è la logica del mondo: chi perde viene eliminato e chi vince deve subito confrontarsi con altri pretendenti.
Dio non entra in questo conflitto. Guarda dall’alto e tiene saldamente in pugno la situazione. Ha un progetto che sconvolge alla radice la logica ripetitiva e inconcludente della lotta per il potere.
La profezia si è realizzata, secondo la logica di Dio, 750 anni dopo.
Quando Gesù è comparso lungo le rive del lago, il regno degli assiri era già crollato da centinaia d’anni, ma l’oscurità del mondo non si era dissolta. Era l’oscurità del male, della violenza, della sopraffazione, della corruzione, dell’egoismo. Questa tenebra ha cominciato a diradarsi – come dirà Matteo nel vangelo di oggi – solo quando, con l’inizio della vita pubblica di Gesù, una luce ha brillato sui monti della Galilea.
Seconda Lettura (1 Cor 1,10-13.17)
10 Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti. 11 Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. 12 Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!”.
13 Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?
17 Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo.
Quando scrive la prima lettera ai corinzi, Paolo si trova ad Efeso, la capitale politica e religiosa della provincia romana dell’Asia, il luogo d’incontro fra le culture d’oriente e d’occidente, la sede di maestri e di artigiani famosi. Lì si ritrovano marinai, soldati, commercianti provenienti da tutto il mondo.
Un giorno giungono in questa città, provenienti da Corinto, alcuni membri della famiglia di Cloè (v. 11) che recapitano a Paolo una lettera, inviatagli dai cristiani di quella comunità.
Prima di leggerla, l’Apostolo vuole avere notizie di quella chiesa e i suoi ospiti, all’inizio un po’ esitanti – non sanno se dire o non dire – finiscono per raccontare tutto ciò che sanno, senza reticenze. A Corinto la vita della comunità è penosa: ci sono discordie scandalose, sono sorti partiti che si richiamano al nome di un apostolo (qualcuno si gloria di appartenere a Pietro, altri ad Apollo, altri a Paolo); sui comportamenti morali… meglio stendere un pietoso velo: ci sono dissolutezze di cui si vergognerebbero persino i pagani; nelle celebrazioni eucaristiche ogni gruppo si isola e si disinteressa degli altri; non parliamo poi delle invidie, delle critiche, delle mormorazioni… Insomma, la gente di Cloè – come suol dirsi – vuota proprio il sacco.
Deluso e preoccupato, Paolo ascolta in silenzio. Per un momento forse pensa al fallimento di tutta la sua missione evangelizzatrice, ma poi si riprende e decide di scrivere ai cristiani di Corinto. È così che è nata la lettera che ci viene proposta in queste domeniche.
Il primo argomento che affronta riguarda i dissidi, i contrasti, la nascita di partiti in quella comunità ed è il brano ripreso nella lettura di oggi. “Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?” (v. 13). Sono parole dure che rivelano la gravità della situazione.
A provocare discordie erano – allora come oggi – gli egoismi, il desiderio di dominare, di prevalere, di imporsi agli altri. Paolo chiarisce: gli apostoli non sono dei padroni, ma dei servi; non sono loro i salvatori, il Salvatore è uno solo, Cristo.
La luce del vangelo – accesa da Paolo – aveva brillato a Corinto, ma l’oscurità del peccato e le tenebre della morte erano ancora molto dense e stentavano a dissolversi.
Vangelo (Mt 4,12-23)
12 Avendo intanto saputo che Giovanni era stato arrestato, Gesù si ritirò nella Galilea 13 e, lasciata Nazaret, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, 14 perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:
15 Il paese di Zàbulon e il paese di Nèftali, sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti; 16 il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata.
17 Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”.
18 Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori.
19 E disse loro: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. 20 Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono. 21 Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedèo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. 22 Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono.
23 Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.
Sono tre le parti che costituiscono il brano evangelico odierno. Anzitutto, con una citazione del profeta Isaia, viene introdotta l’attività di Gesù in Galilea (vv. 12-17); poi c’è il racconto della vocazione dei primi quattro discepoli (vv. 18-22); infine, in una frase, è riassunta l’attività di Gesù (v. 23).
Dopo la conclusione della missione del Battista, da Nazaret Gesù si trasferisce a Cafarnao che diviene il centro della sua attività per quasi tre anni.
Cafarnao era un villaggio di pescatori e agricoltori che si estendeva per circa trecento metri lungo la riva occidentale del lago di Genesaret. Non era rinomato come la città di Tiberiade – dove risiedeva il tetrarca Erode Antipa – o come la ricca e prospera Magdala, famosa per le sue fiorenti industrie del pesce salato e della tintoria; tuttavia godeva di un certo prestigio: si trovava lungo la “Via del mare” – la celebre strada imperiale che dall’Egitto e passando per Damasco conduceva in Mesopotamia – e segnava il confine fra la Galilea e il Golan che apparteneva a Filippo (un altro figlio di Erode il grande). Era un luogo di frontiera, con una dogana dove veniva riscosso il dazio su tutte le mercanzie.
Matteo non si limita ad annotare il cambiamento di residenza di Gesù, accompagna l’informazione con il richiamo a un testo della Scrittura. Per comprenderne il significato va tenuto presente che la Galilea era abitata da israeliti considerati da tutti come dei semi-pagani, perché nati dall’incrocio di vari popoli. I giudei di Gerusalemme li disprezzavano perché li ritenevano poco istruiti, ignoranti della legge, corrotti nei costumi e poco osservanti delle disposizioni rabbiniche. Erano guardati con diffidenza anche a causa delle loro tendenze sovversive in campo politico (furono dei galilei a dare inizio al movimento zelota, responsabile delle sanguinose rivolte contro l’impero romano).
In questa regione situata ai margini della terra santa, in questa “Galilea dei pagani” (v. 15), Gesù inizia la sua missione e, con questa sua scelta, indica chi sono i primi destinatari della sua luce: non i giudei puri, ma gli esclusi, i lontani.
Ammirato di fronte alla fede del centurione – il capo del distaccamento di soldati romani che risiedevano a Cafarnao – un giorno esclamerà: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. Ora vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori” (Mt 8,10-11). Anche ai sommi sacerdoti e agli anziani farà notare il sorprendente capovolgimento: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31).
Il cambiamento di residenza – fatto in sé abbastanza banale – è stato letto da Matteo nel suo significato teologico, come l’adempimento della profezia di Isaia: “Il popolo immerso nelle tenebre vide una grande luce; su quelli che abitavano in terra e ombra di morte una luce si è levata” (v. 16). Con l’inizio dell’attività pubblica di Gesù, fra i monti della Galilea è brillata l’aurora del nuovo giorno, è sorta la luce di cui parlava il profeta.
L’ultimo versetto di questa prima parte presenta il proclama di Gesù: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (v. 17).
Convertirsi non equivale a “diventare un po’ migliori, pregare meglio, fare qualche opera buona in più”, ma “cambiare radicalmente modo di pensare e di agire”. Chi ha coltivato progetti di morte deve aprirsi a scelte di vita, chi si è mosso nelle tenebre deve volgersi verso la luce. Solo se si è disposti a operare questo cambiamento si può entrare nel regno dei cieli (non in paradiso, ma nella condizione nuova di chi ha scelto di giocarsi la vita sulla parola di Cristo).
Nella seconda parte del brano è raccontata la vocazione dei primi quattro discepoli.
Non è il resoconto della chiamata dei primi apostoli (i quattro evangelisti narrano il fatto in modo assai diverso l’uno dall’altro), ma è un brano di catechesi che vuole far comprendere cosa comporta per il discepolo dire sì a Cristo che invita a seguirlo. È un esempio, un’illustrazione di cosa significhi convertirsi.
Va notata anzitutto l’insistenza sui verbi di movimento. Gesù non si ferma un istante: “Camminava lungo il mare… Andando oltre… Percorreva tutta la Galilea” (vv. 18.21.23).
Chi è chiamato deve rendersi conto che non gli sarà concesso alcun riposo, che non ci sarà alcuna sosta lungo il cammino. Gesù vuole essere seguito giorno e notte e per tutta la vita, non ci sono momenti in cui si è dispensati dagli impegni assunti.
La risposta poi dev’essere pronta e generosa come quella di Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo che “subito, lasciate le reti, la barca e il padre lo seguirono” (vv. 20.22).
L’abbandono del proprio padre non va frainteso. Non significa che chi diviene cristiano (o sceglie la vita religiosa e consacrata) si deve disinteressare dei propri genitori. Nel popolo giudaico il padre era il simbolo del legame con gli antenati, dell’attaccamento alla tradizione. È questa dipendenza dal passato che deve essere rotta, quando costituisce un impedimento ad accogliere la novità del vangelo. La storia, le tradizioni, la cultura di ogni popolo devono essere rispettate e valorizzate. Tuttavia, sappiamo che non tutti gli usi, i costumi, gli stili di vita tramandati sono conciliabili con il messaggio di Cristo.
La richiesta di Gesù fa riferimento alla scelta drammatica che i primi cristiani erano chiamati a fare: se sceglievano di divenire discepoli venivano rifiutati dalla famiglia, misconosciuti dai genitori, espulsi dalle sinagoghe ed esclusi dal loro popolo.
Anche oggi per qualcuno potrebbe ripresentarsi l’ineludibile alternativa fra l’amore per “il padre” e la scelta di Cristo. Basti pensare a cosa comporta per un musulmano, per un giudeo, per un pagano, per un buddista l’adesione al cristianesimo.
Per tutti comunque, lasciare il padre implica l’abbandono di tutto ciò che è incompatibile con il vangelo.
All’invito a seguirlo, Gesù aggiunge l’incarico: “Vi farò pescatori di uomini” (v. l9).
L’immagine è presa dall’attività svolta dai primi apostoli. Non stavano pescando con l’amo, ma con la rete e la loro opera consisteva nel tirar fuori dal mare (così è chiamato – in modo improprio – il lago di Galilea) i pesci.
Ora, nel simbolismo biblico, il mare era la dimora del demonio, delle malattie e di tutto ciò che si oppone alla vita. Era profondo, oscuro, pericoloso, misterioso, terribile. Nel mare vivevano i mostri e in esso, anche i più abili marinai non si sentivano sicuri.
Pescare uomini significa tirarli fuori dalla condizione di morte in cui si trovano, vuol dire sottrarli alle forze del male che, come acque impetuose, li dominano, li travolgono e li sommergono.
Il discepolo di Cristo non teme le onde e coraggiosamente le affronta, anche quando sono impetuose. Non dispera di salvare un fratello, anche se questi si trova in situazioni umanamente disperate: è schiavo della droga, dell’alcool, delle passioni sfrenate, del suo carattere irascibile, aggressivo, intrattabile… Non c’è alcuna situazione che non possa essere ricuperata dal discepolo di Cristo.
La terza parte (v. 23) riassume con tre verbi ciò che Gesù compie in favore degli uomini: insegna, quindi è luce per ogni uomo; predica la buona Novella, cioè annuncia a tutti una parola di speranza, assicura che l’amore di Dio è più forte del male dell’uomo e cura i malati. Non si limita a proclamare la salvezza, ma la realizza con gesti concreti, mostrando ai discepoli cosa sono chiamati a fare: devono creare, attraverso l’annuncio del vangelo, uomini nuovi, una società nuova, un mondo nuovo.