Che cosa abbiamo nello zaino?
Uno dei momenti più simpatici delle gite del grest è quello del pranzo. È davvero curioso vedere quello che i genitori (in genere le mamme) hanno messo dentro gli zaini dei loro figli, anche se non è raro che siano i figli stessi a provvedere per sé o anche ad aggiungere qualcosa.
Solitamente sono ben forniti di ogni genere di cibo, non solo panini, ma anche pasta o riso freddi, insalate e tantissimi piccoli dolci, frutta e succhi. Ricordo bene quando la mia mamma mi preparava il piccolo zaino con qualcosa da mangiare anche se la gita era di mezza giornata ed era previsto il ritorno per il pranzo a casa. Metteva comunque panini a sufficienza per poter sfamare una famiglia intera per due giorni!
Ho pensato subito alla mamma del ragazzo protagonista del racconto del Vangelo di Giovanni che si ritrova nella sua sacca cinque pani d’orzo e due pesci. Mi piace pensare che è stata proprio lei a mettergli dentro quello che sembra essere un pasto abbondante per una persona e quindi con la possibilità di condividerlo con altri. La concretezza dell’apostolo Andrea (“…ma che cos’è questo per tanta gente?”) fa apparire subito insufficiente quel poco che ha il ragazzo per tutta la gente da sfamare. E mi sorge subito un’altra domanda: ma tutti gli altri 5000 uomini non hanno portato nulla? Le loro mamme non sono state così previdenti? L’attenzione dell’evangelista si posa però su quello che c’è, anche se poco, e non sulla mancanza di tutti gli altri. Il racconto vuole sottolineare prima di tutto l’amore provvidente di Gesù che si prende cura dei bisogni senza accusare nessuno, e anche mette in evidenza la piccola generosità di questo ragazzo con quel poco che ha per lui. E’ da qui che parte il “miracolo” di Gesù, che non crea dal nulla il cibo ma moltiplica quel che già c’è, non facendo tutto da solo ma chiedendo la collaborazione dell’uomo, anche se pur minima.
Quei cinque pani d’orzo (il pane della povera gente, perché i ricchi a quel tempo si potevano permettere quello di frumento) e i due pesci sono il segno evidente che ognuno di noi non è mai così povero da non poter mettere a disposizione quel che ha per gli altri. Gesù moltiplica la generosità dell’uomo, e ci fa scoprire che anche se ci sembra di aver poco e quel poco siamo tentati di tenercelo per noi, in realtà lo possiamo condividere sempre in un’esperienza miracolosa di amore che cambia il mondo.
Quel ragazzo che non ha nome ha il nostro nome quando siamo generosi, e quel che porta nella sua sacca ci invita a guardare quello che c’è dentro la sacca della nostra vita per non tenerlo così stretto rischiando di vederlo marcire nell’egoismo.
Il Papa ha più volte invitato i paesi ricchi in questo tempo di Pandemia a non dimenticare i popoli dei paesi poveri nella condivisione dei vaccini e delle cure. La Pandemia ci ha fatto capire che il mondo è come quel luogo dove Gesù si trova con i sui discepoli e la folla. Siamo tutti uniti e interdipendenti e solo nella generosità e condivisione possiamo salvarci davvero. Se i mezzi per uscire dalla Pandemia (vaccini e cure) ci sembrano pochi e li teniamo solo per noi, per un po’ forse saremo salvi dal virus, ma alla fine moriremo di egoismo e ci sentiremo più soli.
Purtroppo oggi non ho più la mia mamma che mi riempie di ogni bene lo zaino quando vado in gita per il grest, ma non rimango mai a stomaco vuoto perché tutti i bambini in qualche modo mi donano qualcosa del loro pasto. E così comprendo in modo molto concreto che condividendo davvero quel che ho non rimarrò mai troppo povero e tantomeno solo.
Fonte: il blog di don Giovanni Berti (“in arte don Gioba”)