Guerra e pace
La scena pacifica di Gen 13, con la separazione consensuale di Abramo dal nipote Lot, lascia il campo a una tremenda scena di guerra in Gen 14: «Allora il re di Sòdoma, il re di Gomorra, il re di Adma, il re di Seboìm e il re di Bela, cioè Soar, uscirono e si schierarono a battaglia nella valle di Siddìm, contro di essi, cioè contro Chedorlaòmer re dell’Elam, Tidal re di Goìm, Amrafèl re di Sinar e Ariòc re di Ellasàr: quattro re contro cinque» (14,8-9). Quattro potenti re della Mesopotamia contro una coalizione di reucci di Canaan. La guerra fa strage. Il re di Sodoma e quello di Gomorra fuggono ingloriosamente, cadendo nei pozzi di bitume della loro regione, mentre gli altri alleati fuggono verso la montagna… dopo aver saccheggiato i beni dei due poveri re caduti nei pozzi (senza morirvi, peraltro, peraltro).
Fra i prigionieri di guerra dei re mesopotamici viene preso anche Lot, “fratello” (cioè nipote) di Abram che abitava a Sodoma. Lo zio Abram, che abitava a Mamre, fa alleanza con tre reucci locali – Mamre, Escol e Abner – e con un piccolissimo esercito di 318 uomini insegue i potenti re avversari fino a nord di Damasco e recupera Lot e il bottino di guerra depredato.
Abram non è più il timido e pauroso uomo dei capitoli precedenti, in cui si mostrava pieno di paura verso i re stranieri, in primis quello dell’Egitto (Gen 12,10-20), “nascondendosi” dietro la persona della moglie Sarài. Ora è sicuro e capace di prendere iniziativa in proprio.
Melchìsedek, re e sacerdote
Segue un racconto a “sandwich” (A vv.17; B. vv. 18-20; A’ vv. 21-24). Al ritorno di Abram nella valle di Save (v. 17), gli si fa incontro il re di Sodoma (sopravvissuto ai pozzi di bitume…). Con il pretenzioso e svergognato re bituminoso Abram dialogherà di lì a poco, nei vv. 21-24, lasciandogli ogni cosa in persone e beni, tranne gli alimenti per gli uomini che hanno combattuto. Con lui Abram non vuole aver più niente a che fare. Di fatto, però, questo re assiste alla scena dell’incontro tra Abram e l’altro re, Melchìsedek, in una scena senza dialoghi ma ricca di significati.
Con ogni probabilità Melchìsedek, re di Salem, esercitava la sua regalità nella valle di Save, cioè la valle del Re (v. 17). Questo personaggio compare all’improvviso dal nulla e di lui non si sa nulla. Il suo nome, Malkî-ṣedeq significa “il mio re (è) giustizia” ed è presentato come “re di Salem/re di pienezza/melek šālēm”.
Nella tradizione ebraica Šālēm è considerata l’antica denominazione di “Gerusalemme/Yerušālayim”, il cui nome è spiegato popolarmente per assonanza come “città di pace/‘îr šālôm” o, meglio, “città delle due paci” (la desinenza -ayim è tipica dei nomi duali).
Melchìsedek è presentato come re e anche come “sacerdote del Dio Altissimo/kōhēn le’Ēl ‘elyôn”. È il primo sacerdote a essere menzionato nella Bibbia. Egli è a servizio del Dio altissimo che “crea/possiede/qōnēh” il cielo e la terra. È il signore dell’universo. Altissimo, e quindi anche potentissimo.
Melchìsedek benedice Abram non invocando su di lui la benedizione, ma riconoscendo la benedizione che il suo Dio ha concesso ad Abram nel momento in cui gli ha dato la vittoria sui suoi potenti re nemici e gli ha fatto recuperare il nipote Lot, altre persone e l’immancabile triste bottino di guerra.
La vittoria in guerra, compiuta “di notte” (v. 15; Abram qui si “nasconde” ancora…), non è quindi merito di Abram, ma del Dio altissimo che lo ha benedetto. Cosa avrebbe potuto fare d’altronde Abram con 318 uomini?
Melchìsedek fa uscire allo scoperto una realtà nascosta perché sia riconosciuta da tutti, da Abram per primo. Con la prima parte della sua benedizione Melchìsedek riconosce «che Abram è stato portatore della vita di cui Dio è il solo padrone, per coloro che riconduce a casa dopo averli liberati» (A. Wénin). Nella benedizione “ascendente” verso il suo Dio, il re di Salem conferma e precisa invece ciò che ha appena detto, riconoscendo in ’Ēl ‘elyôn la fonte della benedizione, che è consistita nel sottomettere i nemici al potere di Abram.
Pane, vino
Melchìsedek “offre/fa uscire/hôṣî’” ad Abram pane e vino. Il re di Salem si astrae dal contesto bellicoso costituito dai nove re scesi in guerra, e la sua offerta dimostra il suo carattere pacifico. Egli “fa uscire”, offre, pane e vino. L’avido re di Sodoma si era accontentato invece solamente di “uscire” incontro ad Abram, a mani vuote! (v. 17) (pur avendo visto certamente il bottino di guerra – persone e beni – riportato a casa…).
Melchìsedek porta con sé pane e vino, il cibo e la bevanda tipica della festa. Il pane fortifica lo spossato, il vino rallegra l’animo dell’uomo, suscitando gioia, apertura fraterna, comunione, superamento della piatta quotidianità del feriale. Il vino ha un ruolo di assoluto rilievo nelle feste fra fratelli e amici, nelle celebrazioni nuziali, nei pranzi regali e in quelli in cui si stipula un’alleanza di pace. La vita riscattata da Abram per merito del Dio altissimo merita di essere festeggiata, anche andando forse leggermente sopra le righe…
Abram riconosce che il re di Salem è benedetto a sua volta da YHWH: «Benedirò coloro che ti benediranno…» (Gen 12,3a). Della realizzazione di questa parola di benedizione Abram si fa mediatore concreto offrendo a Melkìsedek la decima di tutto. Egli divide, per così dire, la benedizione di cui è beneficiario e portatore con colui che ha riconosciuto in lui il benedetto di “Dio altissimo”.
Abram identifica nel Dio (’Ēl, dio generico) altissimo seguito da Melchìsedek il dio YHWH che lui adora dal momento della sua chiamata in Harran. Per quale motivo? Con il giuramento con il quale aprirà successivamente le sue parole rivolte al re di Sodoma (v. 22), Abram condivide ciò che Melchìsedek ha detto del suo dio. «Infatti, che cosa afferma quest’ultimo riguardo a ’El ‘elyôn se non che è il signore del mondo, che benedice e rende vittoriosi? Non è forse anche ciò che Abram ha sperimentato con YHWH, il quale, fin dai primi istanti, si è rivelato a lui come un Dio che benedice per far trionfare la vita minacciata, e, questo per tutti i clan della terra (12,1-3)?» (A. Wénin).
Avere lo stesso Dio comporta la pace e un profondo accordo fra i due personaggi.
Decima
Abram entra in una dinamica di alleanza con Melchìsedek e per questo, all’offerta del pane e del vino ricevuta, risponde a sua volta con l’offerta della decima del bottino di guerra.
«La consuetudine del pagamento al tempio della “decima” (ma‘ăšēr) di quanto si possiede viene menzionata, nel Pentateuco, in Lv 27,30-32; Nm 18,21.24.26.28; Dt 12,11.17; 14,23.28; 26,12; (cf. anche Mt 23,23; Lc 11,42; 18,12; Eb 7,2.4.5.6.8.9)» (F. Giuntoli).
La Lettera agli Ebrei sfrutterà a fondo la misteriosa figura di Melchìsedek, per farne un tipo di Cristo e del suo sacerdozio: «Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre. Considerate dunque quanto sia grande costui, al quale Abramo, il patriarca, diede la decima del suo bottino» (Eb 7,3-4).
Il fatto che il patriarca Abram offra la decima a Melchìsedek è un segno con il quale riconosce la superiorità del suo status. Levi e i suoi discendenti, titolari del sacerdozio levitico, sono ancora nei lombi di Abram, ma nel gesto da lui compiuto riconoscono di fatto nel sacerdozio di Melchìsedek uno status superiore al loro. Il sacerdozio di Levi e dei leviti è di livello inferiore a quello di Melchìsedek, dal quale si riceve la benedizione e al quale viene data la decima. «Ora, senza dubbio, è l’inferiore che è benedetto dal superiore», riconosce la Lettera agli Ebrei (Eb 7,7).
Secondo l’ordine di Melchìsedek, proveniente da Dio direttamente, il sacerdozio di Gesù Cristo, quale Figlio del Benedetto, è di livello superiore al sacerdozio levitico, transeunte, responsabile dei sacrifici animali, ripetuti continuamente, incapaci di rendere pure le coscienze degli uomini (cf. Eb 9,9). Il sacerdozio di Cristo è per sempre (cf. Eb 5,6). Gesù Cristo, inoltre, offre se stesso, il proprio corpo preparato dal Padre (cf. Eb 10, 5-7). È questo il suo “pane” per gli uomini discendenti di Abramo. Egli poi, sommo sacerdote dei beni futuri (Eb 9,11) entrerà nel Santo dei santi «non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna» (Eb 9,12).
Pane e vino offrì il re e sacerdote Melchìsedek ad Abram (cf. Gen 14,18).
Corpo e sangue offrì il re e sommo sacerdote Cristo Gesù ai discendenti di Abramo (cf. Eb 10,5; 9,12).
Gesù dice infatti: «Non sono venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).
Sui confini
I Vangeli di Matteo e di Marco riportano il racconto di due moltiplicazioni dei pani e dei pesci: una per cinquemila (“circa” in Mt) uomini – senza contare donne e bambini – in territorio giudaico, con l’avanzo di dodici ceste piene di pezzi di pane e di quanto avanzava dei pesci (Mc 6,30-44; Mt 14,13-21). Un numero di ceste che allude alle dodici tribù di Israele. La seconda interessa invece quattromila (“circa” in Mc) uomini – senza contare donne e bambini (notazione assente in Mc) – in territorio pagano, dove si raccolgono sette sporte di pezzi di pane avanzati (Mc 8,1-10; Mt 15,32-39). Un numero di sporte che allude al numero tradizionale delle nazioni pagane (settanta o settantadue).
L’evangelista Luca narra invece di una sola moltiplicazione dei pani e dei pesci, ambientata a Betsàida (Lc 9,10), appena dentro il territorio della tetrarchia di Filippo, che iniziava poco a est della dogana situata a Cafarnao. Era una zona abitata da molti pagani, forse la maggioranza di essi, nelle immediate vicinanze comunque della zona più giudaica. Siamo sui confini tra mondo giudaico e mondo pagano. I beneficiari sono circa cinquemila uomini e i pezzi di pane avanzati riempiono dodici ceste (Lc 9,17). Sono numeri e indicazioni geografiche che sembrano attestare il fatto che Luca mescolò le due tradizioni (come accade anche nel Vangelo di Giovanni).
Gesù invia i Dodici in missione – nel territorio di Israele, con ogni probabilità (cf. Lc 9,1-6) –, e al loro ritorno li prende con sé (paralabōn) e li raduna in disparte a Betsàida (9,10). Un “ritiro” di riposo fisico e mentale, condivisione delle esperienze, con possibili esternazioni di dubbi e di richieste di spiegazione. Una successiva missione di settanta(due: CEI 2008) discepoli sembra essere rivolta invece a territori abitati da una maggioranza di pagani (stando al significato simbolico di settanta[due]).
Responsabilità personale
Gesù ristora i suoi con la sua presenza solidale e partecipe (para-lambanō), con una custodia di amore e di sollecitudine propria del maestro e del pastore d’anime che forma i formatori, perché assimilino sempre più in profondità l’animo e l’insegnamento del loro maestro.
Le folle vengono a sapere dove sono e accorrono. Gesù le accoglie (dexamenos) a partire dalla loro situazione (apo) (= apodexamenos). Accoglie e condivide le loro richieste, le loro necessità, i loro sogni. Le nutre con la parola sul regno di Dio e le custodisce curando e guarendo quanti avevano necessità di terapie (del corpo e dello spirito). Al tramonto, i Dodici invitano Gesù a congedare la folla perché se ne vada nei villaggi e nelle fattorie circostanti e «vi trovi alloggio, riposo e nutrimento per un ulteriore viaggio come si fa con gli animali da carico a cui siano stati tolti la bardatura e il carico» (così il significato complessivo di katalyō seguito da euriskō ton episitismon).
I Dodici incoraggiano una solidarietà e accoglienza diffusa, responsabilizzante la folla al seguito di Gesù e la gente che abita nei paraggi di quel luogo isolato e dai tratti aridi e desertici (en erēmōi topōi). Un suggerimento sensato, dai lati positivi, ma segnato leggermente da una venatura di deresponsabilizzazione delegante (tutti i verbi sono alla terza persona plurale: ci pensino loro).
Gesù reagisce con fermezza alla proposta e interpella direttamente i Dodici – “voi”, pronome personale non necessario e usato enfaticamente – a intraprendere una e una sola azione, quella del “donare”: “date/iniziate a donare/compite l’azione del donare” (dote < didōmi, imperativo aoristo). Gesù è guidato da un atteggiamento interno che gli detta una prassi di condivisione (conviviale) che coinvolga personalmente i soggetti. Il dono di sé che Gesù farà sulla croce, anticipato all’Ultima Cena nel dono del pane – segno del suo corpo/persona fatto dono – e del vino – segno della sua vita/coscienza proesistente – rappresenta l’ultimo stadio, l’ultima tappa di una prassi di condivisione (conviviale) che ha animato tutta la sua vita.
Quello che egli intende fare e che vuole che i Dodici capiscano a fondo – interiorizzandolo “ascoltando, imparando e facendo” –, è un ennesimo gesto di solidarietà e di condivisione (conviviale). Non vuole fare un gesto isolato, di tipo miracolistico, impressionante e teso a un ritorno di approvazione sociale e religiosa, ma innestare il nuovo gesto in una prassi già consolidata come cifra tipica del suo ministero.
Gran signori
I Dodici fanno ragionevolmente presente a Gesù la paradossalità della situazione, con l’impressionante disparità tra il numero delle persone da sfamare e l’estremamente esigua disponibilità di alimenti da parte del gruppo dei discepoli. Uno contro mille. A meno che la comunità non debba mettersi in discussione, muoversi di persona, cercare, comprare con i propri denari…
Gesù non risponde nel merito all’obiezione realistica e sensata dei Dodici, ma comanda ai discepoli (il gruppo più allargato di coloro che lo seguono) che facciano sdraiare le persone ordinatamente e comodamente a terra, come persone libere che giacciono a un banchetto signorile (kataklinate) appoggiando al suolo, sui tappeti, il gomito sinistro.
Gesù non vuole nutrire un’accozzaglia di gente raccogliticcia (cf. Nm 11,4), ma un popolo ordinato, dignitoso e compatto, libero e signorile, che fa festa dopo aver ascoltato una parola “regale” ed essere stato guarito nel corpo e nello spirito. Un popolo che celebra il termine dell’esodo con la festa della libertà, come Israele festeggiò nelle steppe di Galgala la prima Pasqua vissuta nella terra della promessa (cf. Gs 5,10).
I discepoli obbedirono al comando e tutti si misero a giacere da persone libere e nel pieno godimento della loro dignità e libertà. Gran signori.
Benedisse, spezzò e diede
Gesù prende i pochi viveri a disposizione della comunità, alza gli occhi al cielo/al Padre, fonte di ogni misericordia, compassione e solidarietà. Ricerca e ribadisce la comunione col Padre in ogni azione importante del suo ministero. Ricevuta dal Padre la benedizione discendente di vita e di ogni bene, Gesù la trasmette ai cinque pani e ai due pesci. Poi li spezza (kateklasen < kataklaō) e li dona ai discepoli perché li offrano/presentino (paratheinai) alla folla sdraiata ordinatamente per terra (kataklinō). È una sequenza di suddivisioni, in discesa (kata), verso una posizione comoda di libertà e di condivisione: sdraiarsi giù a gruppi di cinquanta, spezzare giù i pani, e infine donare.
Tutti mangiano e sono sazi. «Tu sazi il desiderio di ogni vivente», annuncia riconoscente il salmista (Sal 145,16). Ciò che sovrabbondò alla sazietà della folla furono dodici ceste di pezzi di pane.
Pane di libertà. Pane di sovrabbondanza nella gioia della comunione e della condivisione.
Secondo l’evangelista Luca, per prima cosa Gesù raccoglie Israele. Il popolo rinnovato di Israele si sta formando nella libertà dalla schiavitù che tenta sempre di alzare la testa in ogni epoca della storia.
Gesù ha dato il pane di Melchìsedek, donando se stesso. Stessa linea di salvezza, che attraversa intatta Antico e Nuovo Testamento.
Il vino del suo sangue lo porgerà nell’Ultima Cena, sacramento che sigilla la sua prassi di condivisione conviviale e anticipa il dono totale della sua vita di Figlio di Dio che si compirà sulla croce.
Commento a cura di padre Roberto Mela scj
Fonte del commento: Settimana News