Io sono il buon Pastore
La Domenica IV del tempo pasquale è chiamata “la Domenica del buon Pastore”. Il motivo lo si capisce subito ascoltando il brano evangelico:
“Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me…E offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”.
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L’immagine di Cristo buon pastore conquistò il cuore dei cristiani. Con essa Cristo fece il suo ingresso nell’arte. Le più antiche rappresentazioni di lui nelle catacombe e nei sarcofagi, lo ritraggono nelle vesti del pastore che porta sulle spalle la pecorella ritrovata.
Per capire l’importanza che ha nella Bibbia il tema del pastore, bisogna rifarsi alla storia. Israele fu, all’inizio, un popolo di pastori nomadi. I Beduini del deserto ci danno oggi un’idea di quella che fu un tempo la vita delle tribù d’Israele. In questa società, il rapporto tra pastore e gregge non è solo di tipo economico, basato sull’interesse. Si sviluppa un rapporto quasi personale tra il pastore e il gregge. Giornate e giornate passate insieme in luoghi solitari a osservarsi, senza anima viva intorno. Il pastore finisce per conoscere tutto di ogni pecora; la pecora riconosce e distingue tra tutte la voce del pastore che spesso parla con le pecore. Un’immagine equivalente, ma più vicina a noi, potrebbe essere quella di una mamma che al parco, mentre è seduta e lavora a maglia, vigila attentamente con la coda dell’occhio sul suo bambino che gioca e corre, pronta a scattare a ogni segnale di pericolo.
Questo spiega come mai Dio si è servito di questo simbolo per esprimere il suo rapporto con l’umanità. “Tu, pastore d’Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge”(Salmo 79,2). Uno dei salmi più belli del salterio (lo si canta spesso nelle nostre assemblee) descrive la sicurezza del credente di avere Dio come pastore:
“Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla;
su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male,
perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza…”.
Anche la morte (la “valle oscura”) non fa più paura perché si sa che anche lì arriva l’occhio del pastore. (È il motivo per cui il salmo viene recitato nelle esequie dei defunti). Ma “valle oscura” non è solo la morte; è anche la prova, il buio, la crisi degli affetti, le difficoltà economiche, una seria depressione. E chi di noi non deve attraversare, prima o poi, qualcuna di queste valli oscure?
In seguito, il titolo di pastore viene dato, per estensione, anche quelli che fanno le veci di Dio in terra: i re, i sacerdoti, i capi in genere. Ma in questo caso il simbolo si scinde: non evoca più solo immagini di protezione, di sicurezza, ma anche quelle di sfruttamento e di oppressione. Accanto all’immagine del buon pastore fa la sua comparsa quella del cattivo pastore, del mercenario. Nel profeta Ezechiele troviamo una terribile requisitoria contro i cattivi pastori che pascono solo se stessi; si nutrono di latte, si vestono di lana, ma non si curano minimamente delle pecore che trattano anzi “con crudeltà e violenza”. È la descrizione dal vivo del tiranno e dell’oppressore di tutti i tempi. A questa requisitoria contro i cattivi pastori, segue una promessa: Dio stesso un giorno scenderà a prendersi amorevole cura del suo gregge (cfr. Ezechiele 34, 1 ss.).
Gesù nel Vangelo riprende, come abbiamo sentito, questo schema del buono e del cattivo pastore, ma con una novità: “Io, dice, sono il buon pastore!”. La promessa di Dio è diventata realtà, superando ogni attesa. Cristo fa qualcosa che nessun pastore, per quanto buono, sarebbe disposto a fare: “Io offro la vita per le pecore”.
Per me –e, penso, per tanti- le parole sul buon pastore che ricerca la pecora perduta, fascia quella ferita, prende in braccio quella affaticata, non sono solo dei quadretti poetici, ma esperienza vissuta. Quante volte mi sono ritrovato ferito, non nel corpo ma nell’anima, non per colpa di altri ma per colpa mia, e mi sono sentito davvero amorevolmente raccolto, curato e rimesso in piedi da Cristo! Il Vangelo del buon pastore lo si capisce meglio vivendolo che sentendolo commentare…
Adesso però anche una considerazione critica su questo Vangelo del buon pastore. Perché Gesù si è appropriato di un’immagine che risulta così compromessa nell’esperienza umana? Perché si chiama pastore e chiama noi suo gregge? Non teme, chiamandoci sue pecore, di urtare la nostra sensibilità e di offendere la nostra dignità di uomini liberi?
Il fatto è che l’uomo d’oggi rifiuta sdegnosamente il ruolo di pecora e l’idea di gregge, ma vi è dentro in pieno. Uno dei fenomeni più evidenti della nostra società è la massificazione. Stampa, televisione, internet, si chiamano “mezzi di comunicazione di massa”, mass-media, non solo perché informano le masse, ma anche perché le formano, le creano, massificano. Senza che ce ne accorgiamo, noi ci lasciamo guidare supinamente da ogni sorta di manipolazione e di persuasione occulta. Altri creano modelli di benessere e di comportamento, ideali e obbiettivi di progresso, e noi li seguiamo; andiamo dietro, timorosi di perdere il passo, condizionati e plagiati dalla pubblicità. Mangiamo quello che ci dicono, vestiamo come ci insegnano, parliamo come sentiamo parlare, per slogan. Il criterio da cui la maggioranza si lasciare guidare nelle proprie scelte è il “così fan tutti” di mozartiana memoria.
Osservate come si svolge la vita delle folle in una grande città moderna: è l’immagine triste di un gregge che esce insieme, si agita e si accalca, ad ore fisse, nelle vetture dei tram e della metropolitana e poi, alla sera, rientra insieme nell’ovile, vuoto di sé e di libertà. Noi ci divertiamo quando si vede scorrere un filmato a passo accelerato con le persone che si muovono a scatti, rapidamente, come marionette, ma è l’immagine che avremmo di noi stessi se ci guardassimo con occhio meno superficiale. Dante ha un paragone celebre che sembra descrivere questa situazione:
“Come le pecorelle escon dal chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;
e ciò che fa la prima e l’altre fanno…,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno” (Purgatorio III, 79-83).
Il buon Pastore che è Cristo ci propone di fare con lui, un’esperienza di liberazione. Appartenere al suo gregge non è cadere nella massificazione, ma esserne preservati. “Dove c’è lo Spirito del Signore Gesù, lì c’è libertà” (2 Corinzi 3, 17), dice san Paolo. Lì, cioè, emerge la persona con la sua irripetibile ricchezza e con il suo destino vero. Emerge il figlio di Dio ancora nascosto, di cui parla la seconda lettura della Messa di oggi: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato”.
Il Vangelo non ci promette di cambiare l’attuale società “di massa”; non è il suo compito e neppure ha bisogno di farlo. Esso ci aiuta invece a mettere un’anima in questa società, a far sì che anche in essa l’individuo e la famiglia preservi un suo spazio inviolabile di libertà e intimità. Il criterio di chi si lascia ispirare dalla parola di Cristo non è “così fa tutti”, ma “così è bene fare”.
Lungi dal mortificare la nostra personalità, Gesù buon pastore, l’aiuta dunque a crescere; egli ci personalizza con la sua conoscenza e col suo amore; fa nascere da noi la creatura nuova, consapevole e forte, quella che il mondo non può manipolare o intimidire perché non è più sotto la sua presa. Mi viene in mente un episodio che illustra bene tutto ciò. Una fanciulla del popolo era al servizio della figlia del re di Francia che la trattava con arroganza, piena di infinite pretese. In un’occasione, credendo di non essere stata servita a puntino, la principessina gridò alla cameriera: “Non sai che io sono la figlia del tuo re?”. Al che la fanciulla, senza scomporsi, rispose: “E tu non sai che io sono la figlia del tuo Dio?”.
Facciamo nostre dunque con rinnovata convinzione le parole del salmo e diciamo anche noi: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla…”.
LEGGI IL BRANO DEL VANGELO
IV Domenica del Tempo di Pasqua
Puoi leggere (o vedere) altri commenti al Vangelo di domenica 22 Aprile 2018 anche qui.
- Colore liturgico: Bianco
- At 4, 8-12; Sal.117; 1 Gv 3,1-2; Gv 10, 11-18
Gv 10, 11-18
Dal Vangelo secondo Giovanni
11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
- 22 – 28 Aprile 2018
- Tempo di Pasqua IV
- Colore Bianco
- Lezionario: Ciclo B
- Anno: II
- Salterio: sett. 4
Fonte: LaSacraBibbia.net
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