Questo terzo annuncio della passione, come i precedenti, (cfr. Mc 8,31-32; 9,30-32; 10,32-34) denuncia l’incapacità dei discepoli di comprendere il messaggio di Gesù, il senso ultimo della sua missione e del discepolato.
Se la reazione di Pietro all’annuncio della passione era stata rivelatrice di una concezione del Messia che non contempla il fallimento, la morte, e a questa si ribella pesantemente («Allora Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo» Mc 8, 32); e se la reazione dei discepoli al secondo annuncio della passione aveva mostrato drammaticamente il loro totale disorientamento alle parole di Gesù («Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedere spiegazioni» Mc 9, 32), a seguito del terzo annuncio, («Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti, agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà» – vv.33-34-) Giacomo e Giovanni mostrano di non comprendere neanche la portata della loro stessa richiesta («Concedici di sedere nella tua gloria …») proiettandosi piuttosto in una prospettiva premiale allorquando si avvererà il regno messianico.
Eppure, Giacomo e Giovanni erano stati tra i primi a seguire Gesù; avevano lasciato tutto, facendo una scelta radicale di vita; ma solo alla luce della passione e resurrezione di Cristo sarà possibile comprendere. Ora essi si rivolgono a Gesù con la richiesta di sedere nella gloria alla sua destra e alla sua sinistra, ritenendo la loro posizione di discepoli della prima ora, nonché di parenti, di potersi arrogare diritto di prelazione.
La risposta di Gesù non si lascia attendere e destruttura in maniera totale il pensiero e il linguaggio dei due discepoli, marcando una distanza abissale tra il suo e il loro punto di vista: «Voi non sapete ciò che domandate», è la risposta data.
«Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?» È questa la pietra di scandalo ancora impossibile da capire. La “gloria”, non secondo gli uomini ma secondo Dio, significa “bere il calice”, versare il sangue. Essere immersi nell’acqua del battesimo significa morire per rinascere, come il seme che se non muore non dà frutto. Ma a quelle parole pronunciate da Gesù essi si rivelano sordi, proprio come recita il profeta Isaia «Chi è sordo come i servi del Signore? Hai visto molte cose ma senza farvi attenzione, hai aperto gli orecchi ma senza sentire» (Is 42, 19-20).
Marco, che scrive questo vangelo negli anni 70, rilegge gli eventi alla luce della morte e resurrezione del Signore, nonché del martirio cui i discepoli erano poi andati incontro; se al momento essi non comprendono cosa significhi la “gloria” del “bere il calice”, la loro successiva testimonianza di discepoli del Cristo morto e risorto li porrà nella condizione di farlo, dando la vita per lui. L’evangelista si preoccupa pertanto di indicare e sottolineare la figura del discepolo che, nella prospettiva cristologica del suo Vangelo, è assimilato a Cristo.
Gesù è il Figlio, venuto per fare la volontà del Padre; non può stabilire chi potrà sedere alla destra o alla sinistra: ciò tocca solo al Padre. Egli, in dialogo eterno con il Padre, è nel Padre, proviene dal Padre ma al Padre non si sostituisce e a Lui rimanda. Così come ogni parola e ogni gesto compiuto nel tempo del suo percorso in compagnia degli uomini indica, fino al momento estremo della passione.
Nella seconda parte del brano si dice che «gli altri discepoli si sdegnarono con Giacomo e Giovanni». Anch’essi incapaci di comprendere il portato del messaggio di Gesù, si erano poco prima interrogati su chi fosse il più grande (cfr. Mc 9,34) non riuscendo i loro occhi a vedere altro se non una questione di preferenze, priorità, privilegi. Gesù smonta, ribaltandola, tale mentalità. Colui che segue Gesù, il discepolo, viva secondo una dimensione sconosciuta al mondo. Nel mondo, infatti, chi è a capo comanda, soggiogando i sudditi; ma nel regno di Dio, regnare, essere a capo, significa servire. La “gloria”, non è la gloria degli uomini, ma è donazione della vita. Seguire Cristo, allora, significa fare la volontà di Dio, cioè, servire esattamente come Gesù ha servito l’uomo. Il gesto della lavanda dei piedi (cfr. Gv 13,12-14) diventa rappresentazione plastica del suo servire l’uomo, ponendosi ai suoi piedi, facendosene compagno, amico e fratello fino alle estreme conseguenze della donazione della propria vita per la salvezza di tutti.
Lui, il Maestro, colui che, seguito e applaudito dalle folle fino al suo ultimo ingresso a Gerusalemme, si avvia ora a testimoniare il suo essere ultimo degli ultimi. Servo sofferente di Jahvè, egli è servo di questa umanità ancora incapace di vedere e di comprendere cosa è regnare secondo Dio.
In una vita in cui le relazioni spesso si basano su opportunismi legati all’ottenimento di privilegi e di potere, la comunità cristiana è chiamata a fare memoria del messaggio di salvezza di Cristo allontanando da sé ogni autoreferenzialità, comprendendo che servire il fratello significa rinunciare ad ogni tentativo di manipolazione per soggiogarlo alla propria volontà o interesse, ma farsene piuttosto compagno per vivere con lui la dimensione liberante dell’amore, in Cristo, secondo Cristo.
Alessandra Colonna Romano
Fonte: Comunità Kairos (Palermo)